Il libro nero dell’alta velocità

IVAN CICCONI da domani sul sito del Fatto Quotidiano il libro nero dell’Alta Velocità

Ladri di tutto ad Alta velocità
Inizia domani su questo sito la pubblicazione de Il libro nero dell’Alta velocità. Il titolo è molto esplicito, eppure non esprime tutto quello che racconta o che nelle mie intenzioni vorrebbe raccontare. Il titolo che aveva accompagnato la scrittura, e che avevo da tempo comunicato a diversi amici, ai quali chiedo venia, era Ladri di tutto ad Alta velocità.

Il titolo scelto è quello più appropriato e il merito è di un caro amico che, in zona cesarini, me l’ha consigliato. In effetti il libro ricostruisce puntualmente la storia di questa grande opera, le cifre clamorose, le astuzie e i furbi che la punteggiano, i silenzi che la circondano, le scelte tecniche assurde, le bugie consapevoli e inconsapevoli, la clamorosa bugia del finanziamento privato, la truffa ai danni dello Stato e dell’Unione Europea. Leggi tutto

Dietro il NO della Val di Susa c’è molto di piùdi una TAV di troppo

LETTERA APERTA DI IVAN CICCONI inviata a BERSANI e anche a  il Fatto quotidiano l’8 luglio 2011

Caro Bersani,

 

Conosci il mio lavoro ed i miei scritti sulle problematiche connesse col Progetto Tav. Come sai, sono fra i pochi ad aver dato conto del fatto che sei stato l’unico Ministro dei Trasporti che ha provato a rimettere sui binari della legalità il sistema di finanziamento e di affidamento delle infrastrutture per il treno ad AV. Ci hai provato nel 2001 con la legge finanziaria e ci hai riprovato nel 2006 con la cosiddetta lenzuolata. Il governo di centro-destra, in entrambi i casi, ha cancellato quelle norme ripristinando sic et simpliciter i contratti affidati a trattativa privata da Tav Spa nel 1991, con i costi, nel frattempo, lievitati di oltre il 400%.
Come ti è noto, quel progetto di AV è stato costruito su di una architettura contrattuale e finanziaria truffaldina ed ha già prodotto uno scandaloso debito pubblico: 12.950 milioni di euro, accumulati dal 1994 al 2005 da Tav spa e da Infrastrutture spa, tenuti fuori dai conti pubblici. Come sai, con il comma 966 della legge finanziaria per il 2007, quei 26.000 miliardi di vecchie lire, millantati come finanziamento privato, sono stati tutti trasferiti nel debito pubblico.

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Una sfida ambientalista per il corridoio tirrenico

LEGAMBIENTE – WWF ITALIA – RETE DEI COMITATI PER LA DIFESA DEL TERRITORIO – COMITATO PER LA BELLEZZA – COMITATO TERRA DI MAREMMA
UNA SFIDA AMBIENTALISTA PER IL CORRIDOIO TIRRENICO AL CENTRO LA VOCAZIONE DEL TERRITORIO E LA DOMANDA DI MOBILITA’

La Maremma laziale e toscana è uno dei tratti meglio conservati del nostro territorio, sia sotto il profilo ambientale che culturale. Gli ambientalisti chiedono che questo patrimonio non venga cancellato, per questo le diverse associazioni di tutela hanno lavorato e continueranno a lavorare congiuntamente. Le associazioni ribadiscono che sarebbe sufficiente adeguare e riqualificare l’attuale Aurelia, tale da renderla un’arteria con standard di sicurezza omogenei, integrata con il territorio, con il sistema del trasporto pubblico e della viabilità locale. Un’infrastruttura inserita in un sistema di mobilità sostenibile, che preveda, nel contempo, il potenziamento dei servizi ferroviari passeggeri e merci e del trasporto merci via mare, mettendo fine al taglio dei servizi veloci su ferro (appena 2 al giorno gli Eurostar) e alle colpevoli inadempienze istituzionali e ritardi nella gestione del sistema degli scali toscani. Ciò eviterebbe il pericolo di gravi speculazioni sul territorio e sarebbe in linea con gli obiettivi che l’Italia ha assunto in sede internazionale per la riduzione delle emissioni dei gas serra. In tale direzione va il documento redatto per conto di Legambiente, WWF Italia, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, Comitato per la Bellezza e Comitato Terra di Maremma da Maria Rosa Vittadini (Università IUV Venezia) e Anna Donati (esperta di trasporti, già presidente della Commissione LLPP del Senato).
Esso esamina le diverse soluzioni presentate negli anni a partire dal progetto ANAS del 2000 per l’adeguamento e la messa in sicurezza dell’Aurelia, al progetto preliminare di “autostrada costiera” presentato da SAT e approvato dal CIPE nel dicembre 2008, fino al progetto definitivo attualmente allo studio.

Il devastante progetto preliminare di “autostrada costiera” sottoposto al CIPE nel dicembre 2008 aveva con un tracciato interamente in variante di 110 km da Civitavecchia a Grosseto, posizionato tra i 30 e i 100 metri da una SS1 Aurelia destrutturata e riportata per intero a due corsie, oltre all’ampia deviazione anche in galleria tra Ansedonia e Fonteblanda. Insomma: un impatto ambientale, paesaggistico, territoriale e sulla stessa economia agricola pesantissimo. La sua pretesa redditività risultava indimostrabile pur gonfiando i livelli di traffico del 2030 sino ai 52 mila veicoli giorno, dagli attuali 18 mila. A meno di non applicare pedaggi vessatori per l’utenza (non dichiarati), prorogare la durata della concessione dal 2028 al 2046 (risultato, questo, conseguito dalla SAT con l’assenso del Governo), calcolando un “valore di subentro” di ben 3,8 miliardi di euro (soluzione, questa, contrastata dal Ministero dell’economia). Ultimo elemento scabroso della lacunosa progettazione SAT del 2008 era che l’autostrada costiera, proprio per conseguire il massimo introito dai pedaggi non aveva previsto di applicare sistemi di pedaggiamento aperto e intelligente che consentissero la ripartizione tra traffico pagante e non pagante, la diversa tariffazione tra traffico a lunga percorrenza e traffico locale. Ora, segnalano gli ambientalisti, SAT dichiara di voler abbandonare tale progetto di autostrada costiera in variante e di scegliere il potenziamento in sede dell’Aurelia: costo 2,2 miliardi di euro, senza complanari o altri interventi distruttivi ma con strade di servizio realizzate potenziando e integrando la viabilità locale esistente, riducendo le stime dell’aumento del traffico da 52 mila a 31 mila veicoli/giorno, applicando un sistema fluido e selettivo (free flow mutilane) di esazione di pedaggio, senza caselli ma con barriere. Un modello progettuale molto simile a quello del progetto ANAS di adeguamento dell’Aurelia del 2000 e pertanto un oggettivo passo avanti in termini di compatibilità ambientale e consumo del territorio. Gli ambientalisti attendono di vedere le carte del progetto definitivo dell’intera tratta tra Tarquinia e Cecina e di capire come verranno risolti i problemi territoriali e ambientali, consapevoli che molti sono i problemi sul tappeto per un’infrastruttura che ha comunque impatti rilevanti. Bisognerà capire: a) quali saranno gli standard costruttivi e le soluzioni che verranno adottate per il tratto Ansedonia-Fonteblanda (si era adombrata una soluzione inaccettabile a ridosso del massiccio di Orbetello); b) come potrà essere contenuto il peggioramento del clima acustico (la velocità sale da 75 a 115 km/ora) e l’aumento delle emissioni, per l’incremento di traffico da 18 mila a 31 mila veicoli, di CO2 stimabile tra le 120 mila e le 300 mila tonnellate/annue; c) come si ipotizzerà di sviluppare un sistema intermodale sulle brevi distanze, che integri la rete di treni locali con le linee dei bus e crei le condizioni infrastrutturali e di servizio per sviluppare gli spostamenti in bici e una Metro del mare; d) come verranno calcolate nel piano economico-finanziario l’acquisizione in uso di tratte già a quattro corsie realizzate con fondi pubblici e come verrà recuperata l’elargizione di 172 miliardi di lire, corrisposta dallo Stato a SAT nel 2000 per compensare la sospensione della concessione autostradale; e) quale sarà il sistema di pedaggiamento che dovrà garantire l’esenzione sulle brevi percorrenze e per il traffico locale. Gli ambientalisti lanciano la sfida e attendono di conoscere le carte del progetto definitivo SAT per capire se ci sarà davvero lo spazio per un ripensamento radicale con la progettazione di un’infrastruttura realmente innovativa, rispettosa degli elevati standard ambientali e paesaggistici della Maremma e delle esigenze delle comunità locali, annunciando fin d’ora un’iniziativa pubblica di confronto e valutazione con la popolazione e gli enti pubblici interessati. 
Vittorio Cogliati Dezza, presidente Legambiente 
Stefano Leoni, presidente WWF 
Alberto Asor Rosa, presidente Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio 
Vittorio Emiliani, presidente Comitato per la Bellezza 
Valentino Podestà, coordinatore Comitato Terra di Maremma  
25 febbraio 2011 

Piccoli aeroporti: perché non sono troppi da una Lettera a la Repubblica

LA LETTERA
Caro Direttore, negli ultimi tempi sui quotidiani nazionali sono state commentate le risultanze dello studio, ancora non ufficiale, di Nomisma, One Works e KPMG sul sistema aeroportuale italiano. Interessante ad esempio è risultato il pezzo pubblicato di recente da Ettore Livini relativo agli aeroporti di minori dimensioni. 
Ci permettiamo qui di svolgere alcune considerazioni al fine di evitare che un lavoro certamente ben fatto venga, ancor prima di essere formalmente diffuso, fatto oggetto di valutazioni sicuramente attraenti sotto il profilo giornalistico ma non utili ai policy maker  nazionali e locali.

Il primo aspetto che viene spesso sottolineato è quello relativo alla presenza nel nostro Paese di tanti (troppi) aeroporti di dimensioni minori. Ebbene, la presenza di una moltitudine di piccoli aeroporti non è una caratteristica esclusiva del sistema italiano. Anzi, la percentuale dell’offerta dagli aeroporti minori in Italia è inferiore a quella di quasi tutti i grandi paesi europei, con una quota del 53,3% contro una media del 62,0%. Se si analizza il numero complessivo di aeroporti con voli passeggeri schedulati, nel 2009 risultavano “attivi” in Italia 40 aeroporti, contro i 36 della Germania, i 43 della Spagna e i 66 del Regno Unito.
Rispetto ad altri Paesi europei, però, l’Italia è caratterizzata da una distribuzione della popolazione sul territorio molto più frammentata. Se si considera la percentuale della popolazione nazionale residente nelle cinque città maggiori, nel Regno Unito questo valore raggiunge il 35,1%, in Francia il 35%, in Spagna il 31,8%, in Germania il 22,5% e in Italia solo il 19,2%. Il traffico negli aeroporti italiani rispecchia quindi le caratteristiche della popolazione, con una maggiore dispersione della capacità. La maggiore frammentazione è anche motivata dalle caratteristiche del territorio peninsulare con presenza di catene montuose e di grandi Isole.
In quest’ottica, il sistema aeroportuale non appare inadeguato rispetto alle caratteristiche del territorio e anzi supplisce a carenze strutturali di altre modalità di trasporto, ferroviario in primis. La presenza di un aeroporto in certe regioni del centrosud e delle Isole (ma anche in alcune zone del centronord), rappresenta spesso l’unica possibilità per i territori di avere una porta di collegamento al resto dell’Italia e dell’Europa, con importanti ricadute sullo sviluppo sociale ed economico.
In Europa, negli ultimi 10 anni, i Paesi nei quali il trasporto aereo passeggeri ha avuto le crescite più rilevanti sono quelli dove il traffico è risultato meno concentrato negli aeroporti maggiori. Se il trasporto aereo in Italia, soprattutto sul corto e medio raggio, è cresciuto maggiormente rispetto ad altri Paesi Europei e la propensione all’utilizzo del trasporto aereo in Italia ha finalmente colmato la differenza rispetto alla media europea (fonte ICCSAI), il merito sta principalmente nei piccoli e medi scali che hanno rappresentato un terreno fertile allo sviluppo dei vettori lowcost.
Per i prossimi anni è ancora attesa una crescita significativa del traffico passeggeri. Più precisamente Eurocontrol stima per il periodo 20102016 una crescita media europea annua del 2,7% che per l’Italia sale al 3,5%. Per il nostro Paese, in termini cumulati, significa una crescita del 2325% rispetto ai valori 2009. Alla luce dell’ottimo andamento del traffico aereo passeggeri nel 2010 (+9,2% fino a settembre, fonte Assaeroporti), queste previsioni non sembrano affatto ottimistiche.
Le buone stime sulla crescita non si accompagnano tuttavia con gli investimenti per passeggero effettuati negli aeroporti italiani, che a causa del quadro di forte incertezza legato alle tariffe e più in generale all’intero sistema regolatorio, sono risultati molto inferiori, tra 1/5 e 1/4, rispetto alla media nei maggiori scali europei (Fonte ICCSAI). Se le cose non cambieranno, nei prossimi anni il sistema aeroportuale italiano rischierà il collasso, sia in termini quantitativi, con una domanda attesa superiore all’attuale capacità, sia in termini di qualità del servizio per i passeggeri.
In questo contesto, una strategia per lo sviluppo del trasporto aereo in Italia molto difficilmente potrà passare attraverso la chiusura dei piccoli scali, che potranno rappresentare vere e proprie “sacche di capacità”, anche per non vanificare gli investimenti già effettuati e alla luce dell’impatto ambientale, dei tempi e dei costi necessari per la costruzione di nuove piste negli aeroporti maggiori.
La specializzazione del ruolo degli scali che servono lo stesso sistema urbano potrebbe portare ad un migliore utilizzo della capacità esistente. Tale specializzazione, anche nei contesti multiaeroporto dove può essere applicata, deve necessariamente essere compatibile con le capacità e vocazioni dei singoli scali e con le caratteristiche dei relativi mercati.
La liberalizzazione del trasporto aereo ha portato in Italia enormi benefici, aumentando la mobilità delle persone e delle imprese, riducendone significativamente i costi, e portando sviluppo economico e turistico anche in aree altrimenti remote. Questo sviluppo è stato consentito da una politica che ha assecondato, in maniera forse talvolta inconsapevole, le forze del mercato, riducendo le barriere all’ingresso, anche grazie alle difficoltà economiche dell’operatore di bandiera, e permettendo di sviluppare una inedita e particolare  competizione tra aeroporti (grandi e piccoli) e compagnie aeree. È stata paradossalmente proprio l’assenza di una rigida pianificazione e allocazione della capacità che ha permesso di sfruttare potenzialità di crescita non anticipabili, quali l’improvviso sviluppo del mercato lowcost. E’ chiaro che ora occorre una correzione di rotta che ponga ciascun attore di fronte alle proprie responsabilità.
Il rapporto di Nomisma, One Works e KPMG per quanto a nostra conoscenza rappresenta un’accurata mappatura della situazione italiana ed è certamente un punto di partenza per l’impostazione di una politica di sistema, non solo aeroportuale, assai necessaria proprio in un contesto di scarsità delle risorse come quello attuale.
La ripartizione degli aeroporti in 3 categorie effettuata dallo studio è in primo luogo una valutazione di stato all’interno della rete dei collegamenti domestici e internazionali e non una patente di utilità dei singoli aeroporti.
Diverso il discorso relativo alla sostenibilità economica dei singoli scali e alla valutazione dei soggetti naturalmente abilitati al loro mantenimento. Certamente la dimensione, in una logica di soglia critica, rileva ma non è l’unico driver. Occorre valutare l’impatto complessivo della struttura aeroportuale sul sistema economico territoriale; questa  potrebbe peraltro essere la naturale prosecuzione del lavoro di Nomisma, One Works e KPMG.
Se si trasforma una ripartizione tecnica e corretta degli aeroporti in giudizio politico sugli stessi, dovremmo con lo stesso criterio chiudere gran parte degli impianti di risalita delle stazioni sciistiche, spesso sussidiati perché abilitanti di una vocazione territoriale. Oppure, alzando il tiro, dire che le piccole e medie università nel mondo sono tutte secondarie, Oxford e Cambridge comprese. Dobbiamo essere meritocratici, ovvero “entrare nel merito”.
Stefano Paleari
Renato Redondi
LA RISPOSTA
Gentile comitato, le considerazioni che si possono fare a margine della lettera a La Repubblica pubblicata nella Newsletter A-A di ieri* sono molteplici:
i) innanzitutto mi sembra superficiale la semplificazione per cui un aeroporto è merce che risponde alle logica del mercato e del fare profitto. In realtà si tratta di un bene particolare che definirei  di utilità e impatto pubblico. L’utilità marginale di un aeroporto non dipende solo dalla sua capacità di superare il punto di pareggio costi /ricavi e questo, come sappiamo, è funzione della massa critica (crescente) che è imposta dai vettori, ma anche dal peso dell’orma ambientale della sua presenza nel territorio. Inoltre in una condizione di scarsità di risorse è necessario selezionare gli investimenti pubblici in opere che presentano un maggiore utilizzo da parte della collettività. Paragonare la “vocazione territoriale” di un aeroporto a quella di un “impianto di risalita” riduce la questione alla considerazione iniziale di totale mercificazione;
ii) le statistiche riportate dai due professori specializzati in un ambito di ricerca riguardante l’assetto e la competitività del settore del trasporto aereo, con particolare riferimento alla connettività del network aeroportuale, alle strategie dei vettori low-cost e alla competizione tra i diversi attori della filiera. L’ipotesi che i piccoli aeroporti siano necessari si fonda:
1) sulla “ottimistica” previsione di un forte incremento della domanda di servizio aereo nazionale;
2)  sulla identificazione di tali aeroporti come vere e proprie “sacche di capacità”, anche per non vanificare gli investimenti già effettuati e alla luce dell’impatto ambientale, dei tempi e dei costi necessari per la costruzione di nuove piste negli aeroporti maggiori (il corsivo è tratto dall’articolo).
Il punto 1) si basa su di una dato spurio che non effettua i necessari distinguo tra uno sviluppo del traffico aereo dovuto alle effettive necessità del territorio (come può essere il caso delle realtà del paese più remote geograficamente) e quello privatistico indotto dalle strategie di  business delle compagnie low cost tendente alla massimizzazione del giro d’affari di tali società. In ogni caso l’efficientamento dei maggiori hubs aeroportuali collegati a un sistema capillare e concorrenziale di trasporti ferroviari può benissimo sostituirsi a tante realtà aeroportuali marginali rispondenti a “vocazioni territoriali” anche in presenza di un ipotetico boom da domanda.
Il punto 2) delle sacche di capacità e degli investimenti pregressi mi sembra del pari insostenibile. Infatti  un efficace utilizzo di tali sacche implicherebbe una organizzazione dinamica della rete aeroportuale nazionale quando ancora non esiste un piano definito del trasporto aereo. D’altronde è improponibile anche la tesi di una condizione di vischiosità degli investimenti, per la quale errori di valutazione relativi a passati investimenti in piccoli aeroporti (come Ampugnano) debbano generare una catena interminabile di altri errori di investimento, quando poi i finanziamenti sono di provenienza pubblica.
Luciano Fiordoni