Un libro-denuncia di Francesco Erbani sulla capitale depredata.
Recensione di ALBERTO ASOR ROSA, la Repubblica, martedì 2 aprile 2013.
Ci sono libri-inchiesta documentatissimi e noiosissimi; e ce ne sono altri poco documentati e altrettanto noiosi. Roma. Il tramonto della città pubblica di Francesco Erbani appartiene a una terza categoria: quella dei libri-inchiesta documentatissimi, che si leggono d’un fiato come un romanzo d’avventure oppure, se si guarda al gioco stringente dei drammatici rapporti di causa ed effetto che esso segue e rivela, come un avvincente poliziesco. Mi spiego. L’oggetto dell’indagine, condotta con dovizia di strumenti analitici e somma conoscenza della materia, è ovviamente Roma: ossia, più esattamente, l’evoluzione del suo assetto urbanistico nel corso, diciamo, degli ultimi trent’anni, ma con frequenti e illuminanti carrellate all’indietro. Politicamente parlando, il periodo corrisponde grosso modo alle Giunte Rutelli e Veltroni, poi, dopo la dolorosa sconfitta del centrosinistra, a quella Alemanno.
Nel Prologo che apre il libro (sì, detto bene così: Prologo, non Presentazione né Prefazione, perché quel che segue è una vera e propria “sacra rappresentazione”, un evento teatrale carico di significati e conseguenze fondamentalmente drammatici, a cui si conviene un introibo che non si limita a presentare ma è già parte costitutiva della materia), Erbani non fa altro che porre una moltitudine d’interrogativi angosciosi. Cosa vogliono dire questa fitta serie d’interrogativi e questo modo di procedere nella “forma inchiesta”? Vogliono dire che Erbani dispiega agli occhi del lettore sotto forma di domande l’intera problematica relativa alla situazione urbanistica e ai rapporti civili e sociali di una città come Roma (la Capitale della Repubblica, il centro mondiale del Cattolicesimo, una delle città storicamente e artisticamente più significative del globo terracqueo), prima di dar corso alla vera e propria indagine conoscitiva. Quest’ultima risponde poi, cammin facendo, a tutte le domande poste nel Prologo?
Saremmo eccessivamente gratificanti se rispondessimo di sì in ogni caso. Questo però non dipende dalla scarsità di documentazione o dalle insufficienti capacità dell’autore, le quali invece sono, l’una come le altre, fuori dal comune. Dipende dalle dimensioni gigantesche del problema, che Erbani ha invece il merito di segnalare in tutte le sue tendenziali forme di espressione, anche quando la ricerca del colpevole, o dei colpevoli, richiederebbe un supplemento d’indagine.
Erbani, entrando nel merito, divide la sua materia in otto capitoli, ognuno dei quali la affronta da un diverso angolo visuale e/o da un diverso lato della città: le periferie (i megacentri commerciali, gli agglomerati urbani privi di ogni forma e persi nella solitudine delle campagne); il centro storico (svuotato dei suoi vecchi abitanti, ferreamente sottomesso alla logica del modello affaristico- turistico-gastronomico); il traffico automobilistico, ovunque dominante (la carenza di mezzi pubblici, la mancanza di un piano tranviario, la soffocazione degli spazi e della vita); la devastazione dei luoghi storici e archeologici (la diffusione del privato sull’Appia antica).
Su questa varia e spesso sfuggente materia è tuttavia ben chiaro per Erbani quale sia lo snodo decisivo dell’intero discorso: il predominio a Roma, storicamente e oggi, della grande speculazione immobiliare, che consuma, dentro e ai margini della città, quanto c’è ancora da consumare: per esempio, la devastazione ininterrotta e ancora tutt’altro che dismessa dell’Agro romano, un tempo splendido e oggi ridotto a semplice riserva di nuove, e nella gran parte dei casi immotivate e inutili, intraprese edilizie. Il quadro, visto in maniera così sistematica, è catastrofico. Vi si aggiunga che, nel frattempo, il pubblico ha dismesso a favore del privato gran parte del suo patrimonio (Capitolo 5): e che di conseguenza Roma, da grande “città pubblica”, si è gradualmente trasformata sempre di più in una “città privata” (fonte questa a sua volta di altre pesanti tensioni).
E, appunto, il potere pubblico? E il Comune? Il giudizio di Erbani, sempre circostanziato e attento a distinguere, è tuttavia complessivamente severo, anzi molto severo. Se si esclude qualche illuminazione della Giunta Rutelli (si veda nel merito la conversazione avuta e qui riferita dall’autore con Walter Tocci, allora Vice Sindaco, anche lui del resto sul lungo periodo uno sconfitto) e della prima Giunta Veltroni, ovunque confusione, mancanza di idee generali, e soprattutto una congenita debolezza nei confronti dei poteri forti cittadini. È in questa fase, del resto, che nasce e si sviluppa anche a Roma la sciagurata teoria e pratica dell’“urbanistica concordata”, che significa mettere la programmazione nelle mani della proprietà privata e far retrocedere il pubblico su posizioni di semplice resistenza (nel migliore dei casi). Non parliamo della Giunta Alemanno, che, dopo le fasulle dichiarazioni elettorali, si è meritata ampiamente il titolo di Vestale della speculazione edilizia e del degrado urbano.
Tiriamo le somme. Il tramonto della città pubblica s’inserisce da protagonista in una lunga e nobile serie d’interventi e di opere sulla città di Roma, che del resto Erbani puntualmente fa emergere e richiama là dov’è il caso: dal leggendario I vandali in casa di Antonio Cederna (del resto recentemente ripubblicato dallo stesso Erbani presso lo stesso editore) a Roma moderna di Italo Insolera, da Roma da ieri a domani di Leonardo Benevolo a Se questa è una città di Vezio De Lucia, fino al più recente La città in vendita di Paolo Berdini. Con questa eletta compagnia, «ultimo fra cotanto senno», il Francesco Erbani di Roma. Il tramonto della città pubblica ci sta benissimo. Gli auguriamo cordialmente miglior fortuna di quella che hanno avuto i suoi predecessori.