A Rigutino approvata una Mozione della ReTe sul fotovoltaico

Pannelli fotovoltaici: dai campi alle officine

Il 2010, come leggiamo in un comunicato dell’ENEL, “ha fatto registrare un
dato record di nuovi impianti fotovoltaici in Toscana: sono oltre 4mila i nuovi impianti di privati, Enti o Pubbliche Amministrazione che Enel ha allacciato alla rete elettrica sul territorio regionale”. Nel comunicato si
aggiunge che “per la maggior parte si tratta di impianti di taglia piccola e media dai 3 ai 20 kw, la cui quantita’ e’ pari all’87,5% del totale delle attivazioni, ma non mancano impianti di taglia maggiore, da 1 Mw o più, corrispondenti allo 0,5% come numero di allacci ma al 32% quanto a potenza installata”. Sono proprio questi maxi-impianti di pannelli a terra che preoccupano i cittadini, particolarmente in Maremma e in val di Cornia. Si tratta di impianti con un impatto paesistico disastroso, che occupano decine di ettari di suolo agricolo di pianura, per l’occasione dichiarato “di scarso pregio”.

Per far fronte alla proliferazione del “pannello selvaggio” la Giunta Regionale ha avanzato la proposta di Deliberazione al Consiglio Regionale n.8 del 13-12-2010, che prevede di limitare la diffusione dei grandi impianti fotovoltaici (oltre i 200 kw) nelle aree agricole, favorendo quelli di piccola (da 5 a 20 kw) e media dimensione (da 20 a 200 kw). Si introduce un elenco di aree non idonee, tra cui quelle inserite nel patrimonio mondiale dell’Unesco, oppure vincolate per l’interesse naturale, culturale e panoramico, oltre a quelle vocate alla produzione di olio e vino di pregio.
«Nessuno può dirsi contrario alle energie rinnovabili – ha detto l’assessore Marson -. Il problema è che la loro incentivazione ha mosso grandi interessi finanziari sui terreni agricoli. E allora, perché non spostare gli impianti dai campi alle officine, usando i tetti dei capannoni industriali, commerciali e i parcheggi?».

La delibera viene ora discussa in Consiglio regionale, dopo aver provocato vivaci reazioni positive e negative, anche all’interno del fronte ambientalista: da più parti vengono avanzate proposte di emendamenti che tendono di fatto a favorire la proliferazione dei maxi-impianti a terra, in nome delle energie rinnovabili. Da parte di associazioni di categoria, come la Coldiretti, la proposta è stata accolta favorevolmente perché contrasta un processo che è stato definito di “colonizzazione” del territorio toscano da parte di imprese nazionali e internazionali.
I partecipanti al Convegno su “Energie rinnovabili e Beni Comuni”, organizzato a Castiglion Fiorentino dal Comitato Tutela Valdichiana e dalla Rete dei comitati per la difesa del territorio, si schierano apertamente a
favore della proposta di Delibera e chiedono al Consiglio Regionale di approvarla come primo passo verso l’introduzione di nuove regole per tutelare il territorio, in attesa che la Regione stessa definisca i criteri per il corretto inserimento paesaggistico di tutti gli impianti a energia rinnovabile, inclusi quelli eolici.

Rigutino, 22 gennaio 2011.

Basta con le ruspe, salviamo l’Italia (la Repubblica)

CEMENTIFICAZIONE

In 15 anni edificati tre milioni di ettari di territorio, l’equivalente di Lazio e Abruzzo messi insieme. E con il piano casa il processo ha avuto un’accelerazione. Appello per fermare lo scempio del paesaggio, prima che sia troppo tardi
di CARLO PETRINI

Basta con le ruspe salviamo l'Italia
Visto che in tv i plastici per raccontare i crimini più efferati sembrano diventati irrinunciabili, vorrei allora proporne uno di sicuro interesse: una riproduzione in scala dell’Italia, un’enorme scena del delitto. Le armi sono il cemento di capannoni, centri commerciali, speculazioni edilizie e molti impianti per produrre energia, rinnovabile e non; i moventi sono la stupidità e l’avidità; gli assassini tutti quelli che hanno responsabilità nel dire di sì; i complici coloro che non dicono di no; le vittime infine gli abitanti del nostro Paese, soprattutto quelli di domani.

I dati certi su cui fare affidamento sono pochi, non sempre concordanti per via dei diversi metodi di misurazione utilizzati, ma tutti ci parlano in maniera univoca di un consumo impressionante del territorio italiano. Stiamo compromettendo per sempre un bene comune, perché anche la proprietà privata del terreno non dà automaticamente diritto di poterlo distruggere e sottrarlo così alle generazioni future. Circa due anni fa su queste pagine riportavamo che l’equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005. Dal 1950 abbiamo perso il 40% della superficie libera, con picchi regionali che ci parlano, secondo i dati del Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, di una Liguria ridotta della metà, di una Lombardia che ha visto ogni giorno, dal 1999 al 2007, costruire un’area equivalente sei volte a Piazza Duomo a Milano. E non finisce qui: in Emilia Romagna dal 1976 al 2003 ogni giorno si è consumato suolo per una quantità di dodici volte piazza Maggiore a Bologna; in Friuli Venezia Giulia dal 1980 al 2000 tre Piazze Unità d’Italia a Trieste al giorno. E la maggior parte di questi terreni erano destinati all’agricoltura. Per tornare ai dati complessivi, dal 1990 al 2005 si sono superati i due milioni di ettari di terreni agricoli morti o coperti di cemento.
Come si vede, le cifre disponibili non tengono conto degli ultimi anni, ma è sufficiente viaggiare un po’ per l’Italia e prendere atto delle iniziative di questo Governo (il Piano Casa, per esempio) e delle amministrazioni locali per rendersene conto: sembra che non ci sia territorio, Comune, Provincia o Regione che non sia alle prese con una selvaggia e incontrollata occupazione del suolo libero. Purtroppo, nonostante il paesaggio sia un diritto costituzionale (unico caso in Europa) garantito dall’articolo 9, la legislazione in materia è in gran parte affidata a Regioni ed Enti locali, con il risultato che si creano grande confusione, infiniti dibattiti, nonché ampi margini di azione per gli speculatori. Per esempio la recente legge regionale approvata in Toscana che vieta l’installazione d’impianti fotovoltaici a terra sembra valida, ma è già contestata da alcune forze politiche. In Piemonte è stata invece approvata una legge analoga, ma meno efficace, suscitando forti perplessità dal “Movimento Stop al Consumo del Territorio”. In realtà, in barba alle linee guida nazionali per gli impianti fotovoltaici – quelli mangia-agricoltura – essi continuano a spuntare come funghi alla stregua dei centri commerciali e delle shopville, di aree residenziali in campagna, di nuovi quartieri periferici, di un abusivismo che ha devastato interi territori del nostro Meridione anche grazie a condoni edilizi scellerati.
Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall’alluvione che l’ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l’equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.
Guardandoci attorno ci sentiamo assediati: il cemento avanza, la terra fa gola a potentati edilizi, che nonostante siano sempre più oggetto d’importanti inchieste giornalistiche, e in alcuni casi anche giudiziarie, non mollano l’osso e sembrano passare indenni qualsiasi ostacolo, in un’indifferenza che non si sa più se sia colpevole, disinformata o semplicemente frutto di un’impotenza sconsolata. Del resto, costruire fa crescere il Pil, ma a che prezzo. Fa davvero male: l’Italia è piena di ferite violente e i cittadini finiscono con il diventare complici se non s’impegnano nel dire no quotidianamente, nel piccolo, a livello locale. Questa è una battaglia di tutti, nessuno escluso.
Ora si sono aggiunte le multinazionali che producono impianti per energia rinnovabile, insieme a imprenditori che non hanno mai avuto a cuore l’ambiente e, fiutato il profitto, si sono messi dall’oggi al domani a impiantare fotovoltaico su terra fertile, ovunque capita: sono riusciti a trasformare la speranza, il sogno di un’energia pulita anche da noi nell’ennesimo modo di lucrare a danno della Terra. Anche del fotovoltaico su suoli agricoli abbiamo già scritto su queste pagine, prendendo come spunto la delicatissima situazione in Puglia. I pannelli fotovoltaici a terra inaridiscono completamente i suoli in poco tempo, provocano il soil sealing, cioè l’impermeabilizzazione dei terreni, ed è profondamente stupido dedicargli immense distese di terreni coltivabili in nome di lauti incentivi, quando si potrebbero installare su capannoni, aree industriali dismesse o in funzione, cave abbandonate, lungo le autostrade. La Germania, che è veramente avanti anni luce rispetto al resto d’Europa sulle energie rinnovabili, per esempio non concede incentivi a chi mette a terra pannelli fotovoltaici, da sempre. Dell’eolico selvaggio, sovradimensionato, sovente in odore di mafia e sprecone, se siete lettori medi di quotidiani e spettatori fedeli di Report su Rai Tre già saprete: non passa settimana che se ne parli su qualche testata, soprattutto locale, perché qualche comitato di cittadini insorge. È sufficiente spulciare su internet il sito del movimento “Stop al Consumo del Territorio”, tra i più attivi, e subito salta agli occhi l’elenco delle comunità locali che si stanno ribellando, in ogni Regione, per i più disparati motivi.
Intendiamoci, questo non è un articolo contro il fotovoltaico o l’eolico: è contro il loro uso scellerato e speculativo. Il solito modo di rovinare le cose, tipicamente italiano. Anche perché l’obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 si può raggiungere benissimo senza fare danni, e noi siamo per raggiungerlo ed eventualmente superarlo. Questo vuole essere un grido di dolore contro il consumo di territorio e di suolo agricolo in tutte le sue forme, la più grande catastrofe ambientale e culturale cui l’Italia abbia assistito, inerme, negli ultimi decenni. Perché se la terra agricola sparisce il disastro è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. E’ come indebitarsi a vita e indebitare i propri figli e nipoti per comprarsi un televisore più grosso: niente di più stupido.
Il problema poi s’incastra alla perfezione con la crisi generale che sta vivendo l’agricoltura da un po’ di anni, visto che tutti i suoi settori sono in sofferenza. Sono recenti i dati dell’Eurostat che danno ulteriore conferma del trend: “I redditi pro-capite degli agricoltori nel 2010 sono diminuiti del 3,3% e sono del 17% circa inferiori a quelli di cinque anni fa”. Così è più facile convincere gli agricoltori demotivati a cedere le armi, e i propri terreni, per speculazioni edilizie o legate alle energie rinnovabili. Ricordiamoci che difendendo l’agricoltura non difendiamo un bel (o rude) mondo antico, ma difendiamo il nostro Paese, le nostre possibilità di fare comunità a livello locale, un futuro che possa ancora sperare di contemplare reale benessere e tanta bellezza.
Per questo è giunto il momento di dire basta, perché rendiamoci conto che siamo arrivati a un punto di non ritorno: vorrei proporre, e sperare che venga emanata, una moratoria nazionale contro il consumo di suolo libero. Non un blocco totale dell’edilizia, che può benissimo orientarsi verso edifici vuoti o abbandonati, nella ristrutturazione di edifici lasciati a se stessi o nella demolizione dei fatiscenti per far posto a nuovi. Serve qualcosa di forte, una raccolta di firme, una ferma dichiarazione che arresti per sempre la scomparsa di suoli agricoli nel nostro Paese, le costruzioni brutte e inutili, i centri commerciali che ci sviliscono come uomini e donne, riducendoci a consumatori-automi, soli e abbruttiti.
Una moratoria che poi, se si uscirà dalla tremenda situazione politica attuale, dovrebbero rendere ufficiale congiuntamente il Ministero dell’Agricoltura, quello dell’Ambiente e anche quello dei Beni Culturali, perché il nostro territorio è il primo bene culturale di questa Nazione che sta per compiere 150 anni. Sono sicuro che le tante organizzazioni che lavorano in questa direzione, come la mia Slow Food, o per esempio la già citata rete di Stop al Consumo del Territorio, il Fondo Ambientale Italiano, le associazioni ambientaliste, quelle di categoria degli agricoltori e le miriadi di comitati civici sparsi ovunque saranno tutti d’accordo e disposti a unire le forze. È il momento di fare una campagna comune, di presidiare il territorio in maniera capillare a livello locale, di amplificare l’urlo di milioni d’italiani che sono stufi di vedersi distruggere paesaggi e luoghi del cuore, un’ulteriore forma di vessazione, tra le tante che subiamo, anche su ciò che è gratis e non ha prezzo: la bellezza. Perché guardatevi attorno: c’è in ogni luogo, soprattutto nelle cose piccole che stanno sotto i nostri occhi. È una forma di poesia disponibile ovunque, che non dobbiamo farci togliere, che merita devozione e rispetto, che ci salva l’anima, tutti i giorni.
(18 gennaio 2011) © Riproduzione riservata

Ambiente e poteri forti nella città di Paolo Berdini

Da Il Manifesto: 21.11.2010

Alberto Asor Rosa nel delineare i caratteri di un nuovo ambientalismo (manifesto del 17.11) sottolinea «il conflitto inesauribile e insanabile con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento». Concordo, e la sua analisi permette di ridare spessore all’elaborazione della sinistra. Provo ad articolare il ragionamento nel campo delle città e del territorio, dove si possono misurare quattro novità che hanno mutato i contorni del conflitto e impongono dunque di mutare strategia.
Innanzitutto la lacerazione dello storico “patto” tra cittadini e forze economiche dominanti.
Lo sviluppo delle città era affidato ai piani regolatori e la tutela dell’ambiente ai vincoli previsti dalle prerogative costituzionali dell’Articolo 9. Nonostante scempi e violazioni, c’era comunque un sistema di regole che garantiva un quadro di legittimità. Il neoliberismo ha sostituito ogni regola con gli “accordi di programma” che mutano caso per caso il disegno delle città e azzerano i vincoli paesaggistici. La proprietà fondiaria, un ristrettissimo numero di persone, edifica dove e come vuole.
La seconda novità riguarda il carattere teoricamente infinito dell’offerta di nuove costruzioni. Si continua a ricoprire di cemento l’Italia perché “c’è mercato”. Uno dei pilastri dell’economia liberale classica sono le regole del gioco e nell’Europa civile le nuove costruzioni vengono programmate salvaguardando gli interessi pubblici. Non ci sono altrimenti dubbi che se si costruisse sulle colline ancora integre della Toscana, in ogni valle alpina o sulle coste ancora scampate dal cemento, si troverebbero potenziali acquirenti nei 50 milioni di ricchi russi, nei 200 milioni di nuovi ricchi cinesi. Poi verranno gli indiani e i brasiliani.
Non c’è chi non comprenda il baratro che si è aperto nell’aver supinamente accettato la favola del “mercato”: rischiamo la cementificazione del paese e non serve a fermarla neppure la tragica serie di alluvioni e frane. Oltre all’insipienza culturale dei gruppi dirigenti della sinistra, si dovrà mettere a fuoco l’intreccio perverso tra i proprietari delle aree da urbanizzare, le grandi banche e l’informazione (Messaggero, Mattino, Corriere della sera, Tempo, Gazzetta di Parma e un’infinità di giornali locali).
La terza novità è una diretta conseguenza della sinergia tra le due precedenti. Se non ci sono più regole e se non esiste più un limite all’ipertrofia urbana, si sta creando un corto circuito economico che porterà al collasso il tessuto produttivo del paese. La speculazione fondiaria ha davanti una comoda autostrada per rendere edificabili i terreni agricoli. Vengono comprati a 10 – 15 euro al metro quadrato e non appena l’accordo di programma li rende edificabili raggiungono il valore di almeno 200 euro. Con dieci ettari di terreno che cambia destinazione, la speculazione si mette in tasca 20 milioni di euro senza nessun beneficio per la collettività perché non si crea neppure un posto di lavoro. Il lavoro, la ricchezza per le città e per tanti lavoratori si crea costruendo. In Europa obbligano a farlo su terreni già edificati, dove i valori immobiliari sono elevati e chi costruisce guadagna soltanto sulle sue capacità imprenditoriali. Chi mai investirà nel difficile mestiere dell’imprenditore o dell’artigiano se stando comodamente seduti può mettersi in tasca una fortuna?
E veniamo infine all’ultima tragica novità italiana. I comuni non hanno più risorse per realizzare servizi sociali, parchi, trasporti scuole. Per tenere in piedi i bilanci, i comuni e le loro società strumentali hanno fatto ricorso all’indebitamento sottoscrivendo quei titoli spazzatura che hanno portato al tracollo l’economia occidentale. Roma ne ha sottoscritti per oltre un miliardo di euro. Milano un’altra valanga, e così via. Afferma Loretta Napoleoni che le pubbliche amministrazioni «invece di cercare di risparmiare, sono andate dalle banche d’affari. La banca dice: tu devi pagare queste fatture per i prossimi due anni? Bene: me le compro io, ti do subito i soldi, e intanto emetto obbligazioni che poi vendo in borsa».
Per tenere in piedi i bilanci, poi, tutti i sindaci, di qualsiasi colore politico, affermano che l’unico modo è quello di moltiplicare all’infinito nuove costruzioni. Ma se non ci sono più soldi sarebbe interesse di tutti bloccare l’espansione senza fine che ha interessato le città italiane nell’ultimi sedici anni. Come si può pensare di costruire nuovi quartieri quando non si hanno neppure i soldi per costruire l’illuminazione pubblica e quando ci sono infinite aree produttive dismesse e case vuote? Se questa è la diagnosi, non bastano vecchie ricette. Occorre cambiare gioco e provo ad elencare le mosse che dovremmo mettere in campo al più presto.
Primo. Occorre bloccare per legge ogni espansione urbana, vincolando i comuni a ricollocarle all’interno delle aree già edificate e in stato di abbandono. Il settore delle costruzioni è un pilastro dell’economia dei paesi europei, ma per aprire una fase virtuosa anche in Italia occorre rompere per sempre il circuito infernale della rendita assoluta. Questa legge potrebbe partire dal basso, seguendo la proposta di Guido Viale, raccogliendo firme in ogni angolo dell’Italia violentata dal cemento e contrastata dai mille comitati spontanei. Secondo. Concludere per sempre la criminale stagione degli accordi di programma: basta un semplice articolo. Strillerà (molto) il manipolo di speculatori che nel periodo del trionfo berlusconiano hanno conquistato le città e distrutto l’ambiente. Terzo. Occorre restituire ai comuni – in un quadro di rigoroso controllo della spesa- i soldi tagliati per metterli in grado di governare le città. Non so se questa proposta sia collocabile nel comoda casella “dell’estremismo”: lascio questo inutile esercizio alla fallimentare politica di questi anni, utilizzata ancora di recente dopo la splendida vittoria di Pisapia nelle primarie di Milano. So soltanto che è l’unica ricetta per ristabilire un futuro al nostro paese: ridare voce al popolo derubato in questi anni dei beni comuni per eccellenza, le città e l’ambiente.
Prosegue il dibattito sul “che fare” per invertire la devastante tendenza in atto, nel mondo e in Italia. Tre cose da fare per partire dalle città. Il manifesto, 21 novembre 2010