>Il Neoambientalismo di Asor Rosa su Il Manifesto del 17 – 11 – 2010

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In un suo recente articolo (il manifesto, 7 novembre) Guido Viale ci invita a «cambiare dal basso». Provo a mettermi il più direttamente possibile sulla sua lunghezza d’onda. Da più di quattro anni dirigo, coordino, assisto (la varietà delle prestazioni dipende dai gusti e dalle circostanze) una singolare organizzazione, che si è denominata: Rete dei Comitati per la difesa del territorio (da due anni divenuta anche Associazione, regolarmente «registrata» come tale). Sulla singolarità di tale organizzazione conviene soffermarsi un momento, perché ne deriva tutto il resto del ragionamento.

La Rete nasce dalla scelta spontanea e volontaria di un certo numero di Comitati di base, legati a loro volta all’identità di alcune battaglie locali (locali, ma non necessariamente di limitate dimensioni: basti pensare a casi come il sottoattraversamento Tav di Firenze o l’Autostrada tirrenica), di federarsi stabilmente in una sorta di mappa organizzata delle esperienze e delle strategie. La costituzione della Rete ha favorito l’incontro dei Comitati con alcune volonterose forze intellettuali, che ne rappresentano al tempo stesso la struttura di servizio e un luogo di originale elaborazione strategica. I due momenti non sono minimamente dissociabili; e non si rapportano fra loro in una specie di nuova gerarchia del potere (spesso, infatti, l’elaborazione strategica nasce in corso d’opera all’interno anche di un singolo Comitato, magari particolarmente avvertito). La Rete dei Comitati, intesa e praticata in questa forma, è ciò che noi siamo abituati a definire «neoambientalismo italiano», per distinguerlo dall’esperienza storica (per carità, positivissima) di altre associazioni ambientaliste più centralizzate e gerarchizzate.

La Rete è nata ed diffusa prevalentemente in Toscana, ma ha agganci e rapporti con situazioni liguri, venete, umbre, marchigiane, romane, laziali. Dialoga con le altre Associazioni (Italia nostra, Legambiente, Wwf), di volta in volta incontrandosi e distinguendosi. Ha rapporti eccellenti con il Fai. Recentemente ha aperto un canale di confronto e di scambio con un altro movimento, diverso ma consimile, «Stop al consumo di territorio», presente a sua volta soprattutto in Piemonte e Lombardia (ma anche altrove). Ma esperienze di Comitati sono attive in Italia ovunque. Anzi, più esattamente, ce ne sono in giro centinaia, di dimensioni che vanno dal microscopico ai supermassimi (NoTav di Val di Susa). Confinano o talvolta s’integrano con altre esperienze analoghe (Forum dell’acqua); invadono autorevolmente il campo istituzionale (lista «Per un’altra città», ben insediata nel Consiglio comunale di Firenze).
Insomma, i Comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana. Anche per il solo fatto di esserci, appunto. Ma qualche ragionamento ulteriore può essere fatto. Gli ostacoli al cambiamento dal basso – per tornare all’indicazione di Viale – sono, a giudicare dalle mia esperienza, variabili e molteplici, ma tre sempre e ovunque risaltano. Sono: 1) Il conflitto inesauribile e insanabile, piccolo o grande che sia, con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento, che si manifestano in mille modi, da quello dichiaratamente delinquenziale a quello puttanescamente istituzionale; 2) la debolezza della risposta ad parte di una larga parte dell’opinione pubblica, e della maggior parte dei grandi mezzi di uno stravolto e magari morente (ma tuttora micidiale) modello di sviluppo (ancora Viale); 3) la pressoché totale sordità nei confronti di queste tematiche da parte di tutte (ripeto per brevità: tutte, ma potrei anche specificare) le forze politiche di livello nazionale. Il primo dovrebbe essere il nemico naturale di ogni difesa del territorio, della conservazione dei beni culturali, più in generale di una buona qualità della vita. Gli altri due, invece, nemici occasionali, episodici e dunque potenzialmente recuperabili: ma come? Ma quando?
Perché questi due obiettivi, che sono decisivi, si concretizzino e si avvicinino, bisogna secondo noi (qui esprimo il parere collettivo della Rete) imprimere alla battaglia ambientale un’accelerazione sia culturale che politica (il binomio qui è meno formale che altrove). Tale battaglia ruota sempre di più intorno alla nozione di «bene comune» (mi permetto di richiamare a tal proposito un mio articolo apparso nel dicembre 2008 su la Repubblica): le eredità culturali e artistiche, l’ambiente, il paesaggio, vanno intesi alla lettera, al pari dell’aria e dell’acqua, come patrimonio inalienabile delle generazioni umane presenti e anche, o forse soprattutto, future (si vedano, anche, gli studi e le proposte legislative elaborati in varie fasi da Stefano Rodotà). Su questo fondamento, una volta acquisito e diffuso, si possono basare una nuova cultura e una nuova politica, intese anch’esse nel senso più vasto.
In una recente riunione (Roma, 6 novembre) del Consiglio scientifico di cui la Rete si è dotata e della sua Giunta (illustrati, l’uno e l’altra, dalla presenza di molti dei più prestigiosi studiosi e specialisti del settore), sono state assunte due iniziative che si muovono nel senso predetto. La prima è la convocazione di una Conferenza nazionale dei Comitati che si occupano ovunque di difesa del territorio: l’obiettivo potrebbe esser quello di creare, non una Rete nazionale, ma una Rete di Reti, coerentemente con lo spirito del neoambientalismo, che non prevede, né in loco né fuori, rapporti gerarchici di direzione. La seconda è l’avvio della preparazione d’un grande Convegno, anch’esso nazionale, tematizzato su quello che potremmo sinteticamente definire: «Il disastro Italia», nel quale convogliare, in termini sia analitici sia di denuncia sia di progettualità propositiva, la grande risorsa intellettuale dei Comitati, accompagnata e intrecciata con quella dei molti studiosi e specialisti che l’hanno accompagnata, e che speriamo sia destinata a rafforzarsi ancor di più nel prossimo futuro.
Crescere dal basso dunque si può, ma solo se si contestualizzano e si organizzano, su di un orizzonte strategico più vasto, gli innumerevoli focolai locali. Il «salto di scala» è necessario perché ognuno di essi acquisti forza, allargando intorno a sé il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura. Mentre si studiano i modi per far fuori il cadavere di Berlusconi, e al tempo stesso si aprono le grandi manovre per assicurare la perpetuazione indefinita del berlusconismo, potrebbe essere questa una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme con la salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia.

>CAMBIARE DAL BASSO di Guido Viale

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      Da Il Manifesto 7-11-2010
     Per chi guarda alla crisi in corso dal punto di vista di un mondo diverso alcune questioni già ampiamente dibattute in altre sedi possono essere date per scontate. Innanzitutto, se c’è o ci sarà una “ripresa” dalla crisi – il che è ancora da vedere – non sarà granché; dei tre principali indicatori con cui si misura l’andamento economico (Pil, profitti e occupazione), la ripresa potrà riguardare il Pil di alcuni paesi, i profitti di una parte, e una parte soltanto, delle imprese; ma sicuramente non riguarderà l’occupazione e i redditi da lavoro. Meno che mai possiamo pensare di andare incontro a una nuova fase di espansione economica, come quella dei cosiddetti “Trenta gloriosi” (1945-1975); per lo meno nella parte del mondo che ci riguarda. Investimenti e profitti sono ormai irreversibilmente disgiunti da occupazione e migliori condizioni di lavoro.

Il pianeta Terra è sull’orlo di un baratro dovuto all’eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell’emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell’apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell’integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L’esigenza di rilocalizzare e “territorializzare” produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l’informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.
Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere.
La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell’economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C’è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.
Una forza del genere oggi non c’è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una “voce” commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell’associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa – compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali – le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.
Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l’accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d’accordo.
Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall’alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.
In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell’occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca “auto ecologiche” (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall’accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di “collettivizzare” i consumi, ma di associarsi per migliorarne l’efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l’associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali: trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.
Certamente c’è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico – e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali – è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali – municipalità e i loro bracci operativi – assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell’acqua ha messo in evidenza.
Niente a che fare con il “federalismo” sbandierato dalla Lega. Non c’è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali – dall’Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all’accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della “cricca” – come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l’ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro “liberalizzazione”. Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei “beni comuni”. Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell’in house providing, lungi dal promuovere l’efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente “servizi di prossimità”, la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento – ma anche di partecipazione e di coinvolgimento – che l’utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l’istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.
Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso – che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati – è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l’associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.
Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Il pianeta Terra è sull’orlo di un baratro dovuto all’eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell’emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell’apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell’integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L’esigenza di rilocalizzare e “territorializzare” produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l’informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.
Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere.
La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell’economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C’è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.
Una forza del genere oggi non c’è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una “voce” commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell’associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa – compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali – le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.
Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l’accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d’accordo.
Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall’alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.
In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell’occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca “auto ecologiche” (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall’accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di “collettivizzare” i consumi, ma di associarsi per migliorarne l’efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l’associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali: trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.
Certamente c’è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico – e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali – è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali – municipalità e i loro bracci operativi – assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell’acqua ha messo in evidenza.
Niente a che fare con il “federalismo” sbandierato dalla Lega. Non c’è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali – dall’Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all’accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della “cricca” – come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l’ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro “liberalizzazione”. Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei “beni comuni”. Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell’in house providing, lungi dal promuovere l’efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente “servizi di prossimità”, la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento – ma anche di partecipazione e di coinvolgimento – che l’utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l’istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.
Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso – che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati – è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l’associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.
Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.