6-12 ottobre: dibattito nazionale e questioni locali

Contro lo sblocca Italia

7 ottobre CORR SERA. «Paesaggio a rischio con lo sblocca Italia» L’allarme del Fai

9 ottobre REP FI. Docenti e ambientalisti contro lo Sblocca Italia la sfida parte dalla Toscana con un e-book

9 ottobre REPUBBLICA. Dal Wwf a Slow Food la rivolta verde contro il cemento Così asfaltate l’Italia

10 ottobre CORR SERA. Carandini. Battaglia sulle norme antipaesaggio

11 ottobre FATTO QUOT. Ma Renzi progetta soltanto cemento

Altri temi di interesse generale

6 ottobre CORR SERA. Contrasti tra Galletti e Martina Ferma la legge «anti-cemento»

7 ottobre SOLE 24 ORE. Edilizia in cerca di un futuro green

11 ottobre SOLE 24 ORE. Ruderi da ricostruire, non bastano le tracce

11 ottobre SOLE 24 ORE. Suoli agricoli, la legge resta ancora ferma alla Camera

11 ottobre TIRRENO. Province cancellate, resta il rebus patrimonio

12 ottobre SOLE 24 ORE. È l’oro blu la vera ricchezza

Sulla nuova alluvione di Genova

11 ottobre REPUBBLICA. Valentini. Disastro continuo

11 ottobre TIRRENO. Emiliani. Questo il vero dramma nazionale

… e notizie locali, più cattive che buone

In rosso la notizia della settimana: il sindaco agente immobiliare!

7 ottobre CORR MAREMMA. Sequestrati 312 ettolitri di vino, anche con la denominazione

7 ottobre CORR SI. Sequestrati 312 ettolitri di vino fra cui il Nobile

7 ottobre NAZ SI. Sequestrati 300 ettolitri di vino Mancavano tutti i documenti

7 ottobre NAZ FI. Cafaggiolo, restyling del tetto E la Regione stanzia 9 milioni

7 ottobre QN. Firenze, Ingresso vietato all’Eden della natura Troppi costi, chiusa l’oasi verde

7 ottobre TIRRENO MS. Villafranca, Campo golf da 18 buche all’esame dei cittadini

7 ottobre TIRRENO PI. San Rossore, Nuova variante del Parco, condono per gli abusivi

9 ottobre CORR TOSCANA. Un’offerta di sottoscrizione per ristrutturare 40 casolari da destinare al turismo

9 ottobre NAZ AR. Paese fantasma, le case vendute a un euro

9 ottobre REP FI. Nardella super agente immobiliare A Monaco con una lista di 60 edifici

9 ottobre TIRRENO PIOMBINO. Nuova legge urbanistica, emendamento di Matteo Tortolini 

10 ottobre SOLE 24 ORE. Lunigiana. Una rete per i castelli del territorio

11 ottobre CORR SI. Lago della Rancia, ancora niente risultati dai test su acque e morìa di pesci

11 ottobre NAZ FI. Barberino M. L’urbanistica illecita approda in aula

12 ottobre CORR FIOR. I russi diversi di Casliglioncello

12 ottobre NAZ VIAREGGIO. Apuane candidate ad ospitare il primo Festival della Montagna

12 ottobre TIRRENO VIAREGGIO. Festa della montagna sulle Apuane

 

 

La spending spiana comuni.

6092322791_57cbe882e4_zdi Guido Viale, il manifesto, 23 agosto 2014.

Senza soluzione di continuità nel passaggio da Tremonti a Bondi e da Cottarelli a Gutgeld, e da Prodi e Berlusconi a Monti e da Letta a Renzi, la spending review sta planando come un avvoltoio su coloro che ne potrebbero essere i protagonisti, perché sono gli unici a sapere come stanno veramente le cose, e che invece ne sono le vittime: i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. L’obiettivo più immediato sono i Comuni, con i quali si va a colpire la democrazia nel suo punto più vitale ma anche più esposto. Vitale perché i Comuni incarnano la tradizione europea dell’autogoverno democratico a base associativa; perché i Comuni e le loro aggregazioni rappresentano la democrazia di prossimità e il possibile punto di applicazione di una democrazia partecipata; perché i Comuni sono tuttora i responsabili dei servizi pubblici locali, cioè di ciò che più direttamente condiziona lo svolgimento della nostra vita quotidiana.

Ma i Comuni sono l’oggetto delle brame di chi governa la spending review proprio perché i sevizi pubblici locali sono l’obiettivo di un saccheggio e di un meccanismo estrattivo messi in moto da un capitalismo che non è più in grado di garantire margini di profitto adeguati con l’investimento nell’industria. E la forma giuridica della società per azioni (Spa), sia interamente pubblica che mista, cioè pubblico-privata – in cui si sono andati costituendo nel corso degli ultimi venti anni quasi tutti i servizi pubblici locali – rappresenta il primo stadio della privatizzazione. Gli affidamenti diretti (cioè senza gara: il cosiddetto in-house) di cui beneficiano li rende particolarmente esposti a questa aggressione. Per svariati motivi.

Innanzitutto perché si tratta di una soluzione societaria incostituzionale e contraria alla normativa europea: gli affidamenti diretti non dovrebbero mai riguardare società di diritto privato che per loro natura perseguono il profitto, come le Spa. In secondo luogo, perché queste Spa sono state finora (le cose dovrebbero cambiare dal prossimo anno) una soluzione per collocare fuori bilancio costi e introiti di servizi che rientrano a pieno titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li controlla: infatti più di un terzo di quelle società censite sono in perdita permanente. In terzo luogo, perché grazie a questo meccanismo le Spa promosse dagli Enti locali (ma anche quelle promosse dagli Enti centrali) si sono moltiplicate per gemmazione: Spa create e controllate da altre Spa di origine pubblica, che ne svolgono una parte dei compiti in una catena di “esternalizzazioni” sempre più lunga; ma anche Spa preposte a funzioni lontane dai compiti istituzionali di chi le ha create. Cottarelli ne ha censite 10mila, ma secondo Ivan Cecconi, il massimo esperto italiano di questo obbrobrio, potrebbero essere oltre 20mila. In quarto luogo perché queste Spa sono un meccanismo corruttivo: assunzioni clientelari (né più né meno di quanto venga spesso imposto ai vincitori di appalti conquistati attraverso gare truccate: il clientelismo prospera non perché il gestore è pubblico, ma perché la mancanza di trasparenza sottrae gli affidamenti al controllo dei cittadini), gerarchia gestionale e consigli di amministrazione scelti tra il personale politico. Questo spiega l’attaccamento di alcuni partiti a Giunte le cui decisioni contraddicono frontalmente gli impegni assunti con i loro elettori contro privatizzazioni, consumo di suolo o proliferazione di società, incarichi e consulenze. E’ un meccanismo di consolidamento del ceto politico che spesso tiene in vita partiti che non avrebbero altra ragione di esistere.

Ma la spending review non si propone certo di “fare pulizia” in questo ginepraio, bensì di mettere i Comuni con le spalle al muro per costringerli a svendere ai privati (dietro a cui ci sono sempre più spesso banche e alta finanza) tutti i servizi pubblici, insieme a beni comuni di cui sono ancora in possesso. Saranno poi i privati a recuperare con speculazioni e aumenti delle tariffe i costi del servizio – ma anche i “margini” (cioè i loro profitti) – che i Comuni non sono in grado di coprire perché i trasferimenti dallo Stato si sono prosciugati e temono l’impopolarità se ad aumentare le tariffe fossero loro. Ma privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto i piedi.

Ci sono alternative a questa spirale? Sì. Innanzitutto in statuti comunali che dichiarino i servizi pubblici locali attività di interesse generale (e non commerciale). Poi nella trasformazione delle Spa in “aziende speciali”, per farli rientrare nel perimetro della Pubblica Amministrazione. A Napoli la trasformazione dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sembrava offrire un modello a questa transizione. Ma le ultime vicende dello statuto di ABC mostrano che senza una mobilitazione di massa e un fronte di “Comuni per i bani comuni”, tante volte promesso e mai realizzato, una transizione del genere rischia il soffocamento per il prevalere degli interessi dei partiti. Ma – si dice – ripubblicizzare le Spa non si può perché non c’è il denaro per riscattarne le azioni dai privati; ma il loro valore è legato a contratti di servizio fondati sull’affidamento in-house. Rivedere quei contratti introducendo condizioni più stringenti può privarle di gran parte del loro valore e persino rendere conveniente restituire le aziende ai Comuni.

In ogni caso, il solo fatto di mettere in campo progetti di conversione ecologica, di promozione dell’occupazione, di recupero di aziende altrimenti condannate alla chiusura può dare credibilità e basi solide a una contestazione radicale sia del patto di stabilità interna (quello che blocca la possibilità di investire per i Comuni), sia del patto di stabilità esterno (il fiscal compact) attraverso cui la finanza internazionale controlla, per il tramite della Commissione europea e della BCE, i governi e le politiche economiche degli Stati dell’Unione Europea, soffocandole. La conversione ecologica è un processo necessariamente decentrato, diffuso, differenziato, distribuito, capillare, che non può essere portato avanti senza il coinvolgimento della cittadinanza e dei governi locali; e per questo democratico. Affidarla alla grande impresa (l’essenza di quello che chiamiamo green economy), come è stato fatto in Italia e altrove con le energie rinnovabili, è stato solo un modo per trasferire risorse da chi paga le bollette (tutti noi) a chi incassa gli incentivi (per l’80 per cento, grandi investitori finanziari, per lo più anche estranei al settore energetico). Viceversa, nella generazione energetica, nell’efficientamento di edifici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel trasporto locale, nel servizio idrico integrato, le autorità locali, con il coinvolgimento della cittadinanza attiva, possono da un lato promuovere sistemi sostenibili di governo della domanda, dall’altro offrire sbocchi di mercato alla riconversione di aziende in crisi, eventualmente con soluzioni societarie e associative tra cittadini-utenti destinatari del servizio, aziende che lo erogano, governi locali e imprese fornitrici degli impianti, delle attrezzature e dei materiali necessari al soddisfacimento della nuova domanda. Lo stesso vale per tutti quei servizi che rientrano nella vasta gamma del welfare municipale: nidi, scuole materne ed elementari, assistenza agli anziani e alle persone svantaggiate, integrazione degli stranieri, formazione, ecc. Anch’essi sono sottoposti, con la spending review, a un processo di privatizzazione attraverso l’esternalizzazione delle prestazioni lavorative con cooperative sempre più legate a strutture finanziarie di comando che “trattano” con le amministrazioni locali per conto di tutte. E anche in questo campo occorre ricostruire un processo democratico a partire dalla partecipazione alla loro gestione.

 

Qui si mangia.

farinetti-renzi-291655I casi di Bologna e di Siena,

da Eddyburg 3 febbraio 2014.

Bologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna, di Carlo Tecce

La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.

La sigla Caab suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.

Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo.

E appare Natale detto Oscar Farinetti. Ovazione bolognese. Il padrone di Eataly fa un paio di visite e spiega come va il mondo: va verso Eataly. Distribuisce consigli non richiesti, calcola il flusso economico e occupazionale, invoca il piano di trasporto pubblico, pretende un convoglio per il Caab, promette, ringrazia e arrivederci. E il progetto di Fico diventa Eataly World: il Consiglio di amministrazione approva, il Comune di Merola ratifica. E quei giretti bolognesi, cooperative, fondazioni e l’ex massone Fabio Alberto Roversi Monaco, vanno in estasi. Plasmano una società e sganciano 45 milioni di euro. E annunciano contributi asiatici: Giappone, Azerbaigian, Cina. Il Comune, pronto, regala 55 milioni di patrimonio immobiliare. Ecco i 100 milioni che voleva Farinetti. Il vecchio mercato verrà dimezzato, stalle e serre saranno le trincee di protezione e il marchio di Eataly World avrà uno spazio equivalente a 50 campi da calcio, sarà maestoso e luminoso al centro di un parco agroalimentare da 80.000 metri quadri. Farinetti ha già previsto 30 ristoranti, 40 laboratori e 50 punti vendita. E ha garantito al notaio che ha officiato al concepimento di Fico che, non tardi, verserà la quota nominale di un milione di euro . Ma quel che incasserà Eataly World, fra tagliate di manzo e olive impanate, va a Eataly. Farinetti ha fretta. Vuole inaugurare il 1 novembre 2015, appena finisce l’Expo di Milano. Perché il modello contrattuale che verrà sperimentato per i sei mesi milanesi – fra tempi determinati, stagisti e volontari – sarebbe perfetto per il Fico, ovvero Eataly World.

Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.

Il padre nobile di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.

E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari

E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.

Dare un senso ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.

Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano fa volare la soluzione Farinetti.

Se davvero Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare … il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.

Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una ‘piazza’ della cultura o sarà un supermercato?

Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.

A proposito di Renzi.

Alberto Asor Rosa

La rivoluzione moderata e la nascita del nuovo politico

di ALBERTO ASOR ROSA, Il Manifesto, 16 Gennaio 2014

Prima di entrare nel merito della delicata materia politica, cui questo articolo intende fare riferimento, devo confessare una mia personale difficoltà, o storico disagio, che potrebbe rendere quanto segue altamente opinabile. E cioè: quando il dissenso politico diventa abissale, si trasforma in una differenza antropologica, che lo fonda e giustifica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Matteo Renzi, il nuovo e brillante leader della sinistra italiana. E’ come se lui ed io appartenessimo a mondi diversi, incomunicabili. Perciò dicevo della mia difficoltà di costruirci un discorso ragionevole sopra. Sarebbe come se al marziano di Flaiano si fosse chiesto di formulare un oculato giudizio politico sui frequentatori dei caffè di Via Veneto, o anche viceversa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).

Tutto ciò — lo dico senza ironia e senza nessuna autocondiscendenza affabulatoria — pende gravemente a mio sfavore. Lui è il nuovo che avanza, con tutta la forza dirompente della sua totale (anche anagrafica) ignoranza del passato. Io sono il passato che guarda con sbigottimento al presente, con la pretesa, oggi totalmente, anzi comicamente vana, che la conoscenza del passato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, possano portare ancora qualche piccolo elemento di previsione, e di azione, per il presente. Ma allora, se della politica abbiamo due nozioni e credenze nettamente opposte, perché presumere di giudicare una delle due politiche dalla specola di osservazione di una concezione della politica che le è esattamente opposta? Sappia perciò il lettore — lo dico per onestà intellettuale — che questo articolo sarà marcato negativamente da questa forte pregiudiziale .

Ridurrò il resto ad alcune considerazioni basilari, anzi, a questa sparsa “lettura del testo”, che illumini (forse) il punto in cui siamo.

1. L’ho già detto in altre occasioni, ma in esordio voglio tornare e ricordarlo. Renzi, e il renzismo, il quale già gli è nato e anzi prospera vigorosamente accanto, rappresenta l’approdo finale della lunga parabola iniziata venticinque anni fa con la Bolognina di Achille Occhetto. Qual è l’essenza di questa parabola? L’essenza di questa parabola è la cancellazione, oggi ormai totale e irreversibile, della tanto vituperata “diversità comunista” (cioè della pretesa, abominevole agli occhi di molti, di fare politica in modo diverso per obiettivi diversi). Questa cancellazione incide tanto più pesantemente sul panorama politico italiano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pensare e sperare, alla nascita di un’opzione socialista. Il crollo del vecchio socialismo, in ragione fondamentale (ma non solo) della campagna giudiziaria di Mani pulite, e il rifiuto, da studiare ancora fino in fondo, della dirigenza post-comunista di subentrargli in quel ruolo, hanno prodotto questo unicum nella storia europea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esiste un partito socialista. Il continuo decalage autodefinitorio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza profonda su cosa si è e soprattutto su cosa si vuole essere o diventare, ha prodotto la perdita di qualsiasi identità culturale e ideale. Il renzismo replica: che bisogno ce n’è? La politica ne prescinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, eventualmente, si vedrà.

2. Come già accennavo, la chiave di tutta questa storia sta nell’incredibile serie di errori commessi dalla vecchia dirigenza post comunista (che non abbiamo né spazio né voglia di approfondire in questa sede, ma diamo ormai per storicamente appurati). L’ultimo soprassalto identitario si verifica quando Bersani sconfigge nettamente Renzi alle primarie del 2012. Il genio del renzismo consiste nell’avere colto il momento in cui lo sfinimento del vecchio gruppo dirigente lascia aperte le porte al più drastico dei rovesciamenti. Tale rovesciamento consiste essenzialmente di tre aspetti:

a) Renzi sostituisce la forza plebiscitaria del consenso alla gerarchia organizzata e scalare (e talvolta un po’ omertosa) del Partito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Partito, il quale resta come un puro guscio, la bandiera da sventolare (ma neanche troppo, spesso quasi per niente) nelle occasioni ufficiali. Cioè: cambia la nozione stessa di democrazia, che questo paese bene o male ha praticato dal ’45 a oggi (tutelata, se non erro, da certi aspetti non irrilevanti della nostra Costituzione);

b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del proprio Partito (e, più in generale, della forma partito in quanto tale), nega l’utilità e l’opportunità della rappresentanza parlamentare. Infatti, tradizionalmente, fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero rappresentare l’autentica volontà popolare, e la direzione del Partito corrispondente c’è sempre stata (almeno dopo la chiusura, per il Pci, della fase staliniana) una dialettica di confronto e di scambio. Oggi la rappresentanza parlamentare viene trattata alla stregua di una semplice esecutrice dei diktat provenienti dalla direzione renziana;

c) La politica si dispiega, per il verbo renziano, come la serie di atti che servono a raggiungere il più rapidamente ed efficacemente possibile quel determinato risultato. La direzione di marcia dell’intero processo, e i suoi riflessi sulla situazione sociale, culturale ed etico-politica del paese, restano nell’ombra. Probabilmente ci sono, ma meno si vedono e meglio è (o forse, se si vedessero, sarebbe molto peggio). Come si dice a Roma “famo a fidasse”.

3. Se le osservazioni precedenti sono minimamente fondate, salta all’occhio che le caratteristiche “nuove” del renzismo (cioè la velocissima rivoluzione accaduta negli ultimi due anni nel campo della sinistra moderata) sono enormemente simili a quelle già verificatesi nel corso degli anni precedenti nel centro-destra e nella realtà politica del dissenso e dell’opposizione popolari. Per vincere Silvio Berlusconi e Beppe Grillo — cosa che non era stabilmente accaduta mai alla vecchia dirigenza post-comunista e post-democristiana — occorreva seguirli sul loro stesso terreno. Questo mi pare davvero inconfutabile: leaderismo assoluto, populismo plebiscitario, discreto disprezzo dei meccanismi istituzionali e costituzionali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rottura degli schemi della vecchia, logora e consunta immagine del politico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo politico” al di là e al di qua dei tradizionali, anch’essi terribilmente obsoleti, limiti politico-ideali, destra, sinistra, e quant’altro ci viene dal passato. Il “nuovo politico” non ha avversari: ha solo concorrenti, da battere più o meno sul loro stesso terreno. Fra loro potrebbero persino intendersi: e non è detto che almeno su certi terreni, per esempio la nuova legge elettorale, questo non accada.

4. Il dato forse più significativo di tale processo è che esso ha acquisito rapidamente un vasto consenso popolare. Il “popolo” (insomma, più esattamente, un quoziente piuttosto vasto dell’elettorato del Pd, con ramificazioni significative negli altri elettorati) segue Renzi su questa strada. Da più parti si sente ripetere: «Con Renzi si vince». Importa meno sapere “cosa si vince”, purché sia raggiunta una ragionevole sicurezza che “con Renzi si vince”. Dunque, leaderismo, populismo plebiscitario, liquidazione dei partiti, un discreto disprezzo per il gioco parlamentare e per le istituzioni che lo garantiscono, hanno fatto breccia in profondità. Media — organi di stampa, televisioni, opinion makers — si allineano sempre più entusiasticamente. Uomini inequivocabilmente di sinistra (Vendola, Landini) sembrano guardare con simpatia alle possibilità di manovra, che il “nuovismo” renziano consente loro (per forza, meglio che star fermi, oppure restare per sempre marginali!).

5. Dunque, c’è stato, come sempre accade in questi casi, un processo di reciproco riconoscimento tra il leader nascente e le masse mutanti (ne hanno discorso recentemente Eugenio Scalfari ed Ernesto Galli della Loggia rispettivamente su la Repubblica e il Corriere della Sera: tornerò prossimamente su tale argomento). Si potrebbe ragionare a lungo su tali processi. Quel che conta è però che siano avvenuti. Constatarlo non significa però sapere come contrapporvisi. Anzi: è difficile interporsi soprattutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale congiungimento avviene. E tuttavia, il momento in cui il congiungimento avviene è però anche quello in cui una possibile interposizione va elaborata e presentata; altrimenti la partita è chiusa come minimo per un decennio. Ma qui conciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di contrapporre soltanto un’ipotesi politica a un’altra, per ora prevalente. Si tratta, per riesumare una vecchia, detestatissima terminologia, di ricreare una cultura politica della sinistra, ancorata alla tradizione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un passato e una storia) e al tempo stesso moderna, modernissima, più dell’altra che, tutto sommato, non vede molto più al di là della punta del proprio naso. Ossia. cominciare a dire ragionevolmente quel che si vuole e prima di dire come lo si vuole. Resta dunque qualcosa del passato: diversi. Ma nuovi: non più comunisti. Questa è la scommessa. Resta tutto sommato credibile dal fatto che in Italia di così ce ne sono tanti, li conosco e ci lavoro insieme. Difficile è stendere la rete fra le loro non sempre facilmente assimilabili diversità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di durissima carestia è esattamente quello che bisogna tornare a fare.

6. Prima di chiudere vorrei esibirmi nell’ultima farneticazione politica, anzi politicistica. Se le cose stanno come il passatista dice, bisognerebbe evitare a ogni costo che il governo Letta cada e si vada, come gli homines novi più o meno concordemente auspicano, al voto. Per tre motivi (almeno): a) bisogna evitare che la destra si ricompatti; b) bisogna elaborare una buona legge elettorale che senza equivoci assicuri in questo paese l’alternanza: il doppio turno e le preferenze (possibilmente più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per ottenerlo ci vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo bisogno di tempo per elaborare, proporre e imporre una nuova cultura politica, della sinistra, con le conseguenze che un tale processo potrebbe avere sull’intero assetto politico e civile del paese. Sono argomentazioni paradossali per uno che invita a resuscitare la vecchio-nuova sinistra? Sì, è vero. Ma il paradosso è la nostra attuale condizione di vita — persino della vita pubblica e civile (talvolta personale), oltre che politica. Fare a meno del paradosso oggi non si può. Perciò è necessario astutamente governarlo.