Parcheggi interrati a Firenze:

manila città storica nella cornice del disastro,

di Ilaria Agostini.

Intervento all’incontro Parcheggi interrati nella città storica: le ragioni del no, organizzato da Comitato Oltrarnofuturo e Comitato per piazza Brunelleschi, con la collaborazione della ReTe dei comitati per la difesa del territorio e della lista consiliare perUnaltracittà, Fienze, 13 giugno 2013.

Il Piano Strutturale del Comune di Firenze, confezionato e approvato nel 2011 dalla giunta del sindaco mediatico, è un atto finalizzato all’incremento della rete viaria e del trasporto privato su gomma. Scelta che si manifesta con evidenza nella prima frase dedicata alla città storica, della quale peraltro si tace fino alla pagina 45 del documento di avvio del PS, dove, nello sconforto del lettore, si trova la seguente dichiarazione: «La prima azione da mettere in campo, per il centro storico, è promuovere la realizzazione di parcheggi interrati», nel centro storico stesso, ça va sans dire. Nelle norme tecniche di attuazione della città storica (UTOE 12) sono individuati ben nove siti – interni alla zona a traffico limitato o ad essa immediatamente prossimi – destinabili alla sosta in silos ipogei: piazza del Carmine; costa San Giorgio; lungarno della Zecca Vecchia; piazza dei Ciompi; piazza Strozzi; piazza Brunelleschi; piazza San Marco; piazza Indipendenza; piazza Ognissanti (cfr. NTA del PS, art. 35). Per la costruzione dei parcheggi interrati (da considerare a pieno titolo volumi edilizi, nonostante gli slogan del sindaco pubblicitario) il Comune si affiderà per lunga e infelice consuetudine all’istituto del project financing, strumento già dimostratosi non orientato alla pubblica utilità (si noti che, estrema perversione, la normativa vigente prevede che l’opera pubblica realizzata con project financing può essere ceduta al privato che la ha realizzata e gestita). La privatizzazione del sottosuolo (e il connesso movimento terra che, detto per inciso, è terra fertile per la camorra) si sta dimostrando – anche a livello nazionale – la nuova frontiera della speculazione e della bolla edilizia: basti pensare al tunnel TAV che sottoattraverserà viali e fortezza da Basso, alla linea di metropolitana sotto piazza del Duomo e al “tubone” pedecollinare per il traffico su gomma, entrambi previsti dal PS; non mancano esempi sul fronte dell’edilizia privata, dalle cantine vinicole patinate ai supermercati ipogei.

Al banchetto infrastrutturale, imbandito dal piano regolatore per la leccardìa dei costruttori, i privati spizzicheranno qua e là, fuori da un qualsiasi progetto organico di mobilità e di sosta improntato alla pubblica necessità, e fuori da qualsiasi bisogno espresso dalla cittadinanza.

I parcheggi interrati nella città storica sono da evitare per più ordini di ragioni, anche qualora fossero realizzati con meccanismi finanziari e concessòri trasparenti, e secondo pratiche pianificatorie civilmente condivise. Innanzitutto dal punto di vista della tutela degli insediamenti di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale, che è un obbligo costituzionale. Le piazze storiche, di proprietà collettiva, sono a tutti gli effetti patrimonio monumentale nella loro consistenza aerea, subaerea e ipogea: la conversione della loro superficie lastricata in solaio cementizio (segnato dalle grate di aerazione) del sottostante garage non deve essere consentita. In secondo luogo, è convincimento diffuso globalmente che i centri urbani debbano essere liberati dalla morsa del traffico privato su gomma e, possibilmente, dalle automobili medesime: un parcheggio interrato si limita invece a nascondere sotto il tappeto parte delle automobili in sosta, attraendo contemporaneamente nuovi volumi di traffico non residente. La gestione in project financing comporta infatti tariffe orarie elevate destinate all’uso veloce e, non favorendo la sosta di chi abita nel quartiere, di fatto contribuisce al processo in atto di gentrification ed estromissione dei residenti. Dal punto di vista tecnico-urbanistico, infine, si ritiene che sia da valutare con oculatezza l’opportunità di scavare un invaso profondo non meno di dieci metri in aree a rischio idraulico, quali sono tutte le piazze del centro fiorentino. Chi assicura infatti, nel caso di specie, l’«assenza di pericolo per le persone e i beni» e l’inesistenza di un «incremento dei rischi e della pericolosità idraulica al contorno», come richiesto dall’art. 2 della legge regionale 21/2012 redatta in risposta alle alluvioni disastrose in Lunigiana, legge che impedisce di fatto la nuova edificazione nelle aree a “rischio idraulico molto elevato”? La costruzione di un’opera edile ipogea in area a “rischio idraulico elevato” e contigua al letto del fiume, come piazza del Carmine, pone senza dubbio problemi di incolumità degli utenti, dei cittadini e dei beni. Il parcheggio nel piazzale delle Cascine – sinora non rammentato, ma in progetto – si trova poi in area di “rischio idraulico molto elevato” (cfr. http://geodataserver2.adbarno.it/pai%5Fpi10k/), ed è dunque illegittimo ai sensi della citata legge.

L’assenza di un piano particolareggiato per la città storica, assenza lamentata da anni da tecnici e cittadini ma ostentata per amor di modernità dagli amministratori, si accoda alla parabola discendente della conservazione dei centri storici peninsulari, che inanella le perle dell’Aquila e del piano di ricostruzione post-sisma emiliano, dove la LR 16/2012 affida ai tecnici la sorte degli edifici storici non vincolati, destituendo la pianificazione comunale dall’esercizio della tutela. Così, a Firenze, da vari decenni si opera nel tessuto storico con una sommatoria di interventi mal pianificati e mal programmati, laddove sarebbe necessario invece agire con i metodi del restauro e del recupero, in conformità con la Carta di Gubbio (1960) che riconosceva il valore monumentale dell’insieme degli elementi della città storica. Trascuriamo in questa sede la qualità di tali interventi passati nel silenzio metà incapace, metà impotente, della Soprintendenza fiorentina.

Ma cosa sta succedendo nel centro città interno alla cerchia muraria trecentesca? Esiste innanzitutto un “centro del centro”, il “salotto buono”, la “vetrina” o “bomboniera” a cui l’amministrazione del sindaco televisivo dedica un’attenzione maniacale con interventi sporadici e d’effetto – non richiesti né voluti dalla popolazione, tantomeno discussi in consiglio comunale – che consentono al primo cittadino l’approdo tanto trionfale quanto autistico sui media intercontinentali. Da anni la città antica comprendente il quadrilatero del castrum romano è stata disertata dai cittadini, sostituiti dai turisti, dagli eventi, dalla vita eterodiretta. Scenario delle notti bianche (quando i cittadini vorrebbero invece notti normali) e della grande produzione mediatica industriale, il “centro del centro” è stato, nell’ultima legislatura, ulteriormente isolato dal resto della città. Vi contribuiscono pesantemente: l’allontanamento dell’anagrafe da Palazzo Vecchio (sostituita da un improbabile asilo “aziendale”); la pedonalizzazione di piazza del Duomo (privatizzata poi dalle grandi terrazze di bar che arrivano a lambire la colonna di San Zanobi) e la deviazione dei percorsi degli autobus urbani sull’asse San Marco-Indipendenza, oggi sovraccarico; l’assenza di un sistema di trasporto pubblico con bus di piccola taglia adatti al tessuto urbano storico; il paventato sfratto del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux da palazzo Strozzi etc.

Dall’altra parte, la sorte dei quartieri storici limitrofi alla città antica prende due strade diverse: Sant’Ambrogio e Oltrarno si trovano in una fase di accelerazione dei processi di trasformazione del tessuto sociale, di sostituzione degli abitanti ed estromissione degli artigiani (i parcheggi interrati fanno parte del menabò). In via Palazzuolo e in San Lorenzo, invece, regna l’assenza di cura e manutenzione ordinaria, al pari di quanto avviene nelle periferie più distanti; il mancato recupero del complesso di Sant’Orsola ne è un esempio paradigmatico. Tutt’al più qualche intervento è mirato alla “sicurezza” (illuminazione da stadio nei vicoli; asfaltatura dei selciati sconnessi).

Questo scenario sconfortante potrebbe essere riscattato da una politica assennata sui grandi edifici storici in dismissione o già vuoti, alcuni dei quali in alienazione, che sarebbero naturalmente vocati ai servizi per la cittadinanza, a luoghi deputati alla socialità, ad atelier di produzione artigianale, ma anche a residenze sociali, richieste con sempre maggior urgenza dal Movimento di lotta per la casa (sulla residenza nei centri storici gli esempi non mancherebbero: Bologna, Saint-Macaire in Aquitania etc.). Ma, per quanto riguarda le previsioni di piano, si naviga a vista. Sul tema, che costituirebbe il fulcro del disegno dell’assetto urbano futuro, il documento d’avvio del Regolamento urbanistico (attualmente in elaborazione) con inopportuna ingenuità si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Chi, se non i privati, sembra essere la risposta. Gli edifici, privi nel piano strutturale di linee guida per la loro trasformazione, sono molti e di pregio, anche per localizzazione: il tribunale di San Firenze (l’ex convento dei Filippini, dietro Palazzo Vecchio), la corte d’Assise (progettata da Bernardo Buontalenti), il teatro Comunale, la scuola dei Carabinieri nei locali storici del convento di Santa Maria Novella, il Distretto militare nel convento di Santo Spirito, l’ex Ospedale militare in via San Gallo, la scuola di Sanità militare nel convento del Maglio in via Venezia, la sede allievi ufficiali in costa San Giorgio, l’ex distaccamento militare a Monte Uliveto, per citare solo i casi più illustri. Ancora un banchetto imbandito stavolta per università americane e multinazionali attratte dal marchio Firenze (il «brand fiorentino» troppo spesso richiamato dal sindaco globalizzato).

Occorrerebbe invece che le azioni da avviare sulla città storica si inquadrassero nella dimensione della cura, delle pratiche positive, orientate a ciò che Gandhi definiva autonomia di villaggio: autonomia nella produzione e riproduzione di risorse (alimentari, energetiche, culturali etc.) e di saper fare, di riappropriazione dei saperi. Su quest’ultimo punto, la città può offrire molto in termini di lavoro di prossimità e di alta manualità. Scalpellini per il ripristino e manutenzione dei selciati; muratori, restauratori, falegnami, imbianchini per l’edilizia storica nonché produzione di atlanti e guide per il suo recupero; fontanieri (in una città così poco generosa d’acque, fontanelli del sindaco a parte); artigiani di qualità, che esercitano a scala familiare la produzione manuale, secondo modelli e tecniche tradizionali, attualmente soffocati dagli affitti e dalla normativa che li equipara a industrie di piccola (ma mica tanto) dimensione. Chi scrive ritiene necessario e possibile prefigurare strategie che prevedano l’istituzione di uno status speciale per l’artigiano della città storica che consenta l’affrancamento dal vigente sistema contributivo e previdenziale, e la liberazione dalla rendita privata attraverso l’istituzione di appositi locali pubblici destinati a laboratori artigiani, nonché attraverso la libertà dell’apprendistato. La diffusione del piccolo commercio, delle sale di teatro e cinema di quartiere sarebbero favorite da una riduzione del gigantismo periferizzante (ipermercati, multisale, scaffali informatici). Per attuare queste poche cose è necessario un grande cambiamento da parte di amministrazioni – locali e centrali – e cittadinanza, nel senso della resistenza al liberismo e all’individualismo imperanti. Solo così si potranno perseguire e mettere in pratica magnificenza civile e pubblica felicità, obbiettivo di una buona politica.

 

Dibattito sul Consumo di suolo

 

nonameROMA, 19 GIUGNO 2013. COMUNICATO STAMPA

 

Si è svolto il 18 Giugno 2013 il Dibattito “Consumo di suolo: a un passo dal baratro” , sulle proposte di legge sul contenimento del consumo di suolo, a cui hanno partecipato Paolo Berdini, Roberto Della Seta, Vezio De Lucia, Massimo De Rosa, Domenico Finiguerra, Stefano Lenzi, Paolo Maddalena, Domenico Cecchini, Edoardo Zanchini e il moderatore Giuseppe Pullara del Corriere della Sera.

 

Il confronto, organizzato dalla “Conferenza Urbanistica Partecipata”, promossa dalle Reti, dai Comitati,dalle Associazioni e dai Forum, ha raccolto un’ampia e qualificata adesione di cittadini. Più di duecento persone hanno gremito la sala della Casa dell’Architettura per seguire l’acceso dibattito sulla questione della difesa del territorio da ulteriori colate di cemento. La discussione continuerà nel merito, a partire dal nuovo DDL presentato dal Governo il 15 giugno scorso su proposta dei Ministri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Nunzia De Girolamo, per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Andrea Orlando, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, che si aggiunge alle proposte di legge Realacci, Movimento 5 Stelle e a quelle di altri partiti, associazioni e gruppi.

 

Le realtà sociali unite nella “Conferenza Urbanistica Partecipata” seguiranno gli sviluppi delle proposte di legge e continueranno il loro percorso per allargare la consapevolezza delle grandi questioni che riguardano la tutela del territorio, facendole uscire dalle stanze degli addetti ai lavori per coinvolgere tutti i cittadini. Solo così si possono creare le condizioni culturali per fare attecchire le radici di leggi che possono avere ricadute positive sul dramma che stanno vivendo le città ed i territori non urbanizzati.

 

La Conferenza Urbanistica Partecipata intende inoltre indirizzare l’azione della nuova Giunta comunale verso una moratoria e una revisione del Piano Regolatore Generale di Roma, per una Variante Generale di Salvaguardia promossa e discussa insieme alle comunità locali, quadrante per quadrante, della nostra bella, ma martoriata metropoli romana.

 

C.A.L.M.A., Carteinregola, Cittadinanzattiva Lazio Onlus, Consiglio Metropolitano di Roma, Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio, No a Roma Capitale del cemento

 

Riutilizzare l’Italia, riutilizziamo il Belpaese

Contro il consumo del suolo e l’inutile produzione edilizia, per la riqualificazione urbana.

Oggi e domani a Roma convegno promosso dal WWF.
Di Alberto Ziparo, Il manifesto, 31 maggio 2013, rapporto scaricabile

«La vera ricchezza d’Italia – già Belpaese per antonomasia – sta nel suo patrimonio artistico e storico, paesaggistico e culturale»: sono ormai in molti ad individuare in questi beni comuni i possibili milestone di un prossimo riassetto sostenibile, non solo fisico, ma socio-economico e civile del paese.

Oggi, però, questo «tesoro» italiano – lascito delle molte civiltà stratificatesi nella nostra evoluzione spaziale e temporale – è sempre più obliterato, abbandonato al degrado, occultato, «affogato» dall’abnorme crescita urbana, dal pervasivo consumo di suolo che fa del territorio italiano la disastrosa, esasperata punta di un fenomeno, sprawltown, la città diffusa, che marca negativamente vaste regioni europee e occidentali.

Due cifre emblematiche di quella che sta diventando una catastrofe ci vengono dagli osservatori sul consumo di suolo, operanti presso diverse università, e riprese dal Coordinamento per la Difesa del Paesaggio: le rilevazioni satellitari restituiscono suoli urbanizzati pari a quasi il 20% dell’intera superficie territoriale nazionale, mentre le stime aggregate dall’ultimo censimento forniscono un numero di quantità di stanze vuote superiore ai 25 milioni, di cui circa un quinto localizzato nelle grandi città, e quasi altrettanto nelle villettopoli costiere e turistiche.

Tale sfracello di produzione edilizia se, paradossalmente, non risolve la domanda abitativa sociale – essendo determinata e dominata dai cicli della rendita speculativa, urbana e soprattutto finanziaria – ha prodotto ingenti quote di «urbanizzato contemporaneo abbandonato»; conseguente alla dismissione recente di attività produttive, industriali e agricole, commerciali, di servizio, o residenziali. O semplicemente, è stata dovuta dalla velleità di realizzare macrostrutture – infrastrutture, attrezzature – tanto gratificanti per il consenso suscitato dal loro annuncio, quanto spesso inutili e ingestibili per il contesto in cui si calavano.

Agli edifici storici abbandonati, di cui all’apertura, si è aggiunta così una quota ingentissima di cementificazione dismessa di recente. Il Wwf, con le sue migliori competenze tecnico-scientifiche, insieme ad una decine di sedi universitarie nazionali, sta realizzando una ricerca in tutte le regioni del paese su caratteristiche e potenzialità delle aree abbandonate, storiche e recenti, e sulle loro prospettive in termini di riutilizzo ambientale e sociale. Oggi e domani presso l’aula magna dell’Università Roma Tre, nel complesso, appunto recuperato, dell’ex Mattatoio – verrà presentato il primo rapporto della ricerca.

Sono state censite circa 600 aree, corrispondenti ad altrettante «situazioni territoriali» (individuate anche perché rappresentative di categorie più vaste), in tutte le regioni italiane, suddividendole per caratteri tipologici e funzionali e per contestualizzazioni funzionali; in modo tale da prefigurare per ciascuna di esse non solo un progetto di recupero – pure importante di per sé -, ma la costituzione di «elementi forti» per strutturare e sostanziare processi di blocco di consumo di suolo e deterritorializzazione negli ambiti interessati.

Le categorie tipologiche individuate vanno dai manufatti storico-culturali in abbandono, anche se talora già vincolati per la tutela, alle aree archeologiche abbandonate, alle architetture di prestigio, alle infrastrutture dismesse o mai completate, alle fortificazioni militari, alle aree industriali in disuso, a macrostrutture realizzate e mai utilizzate o ingestibili, a spazi aperti da rinaturalizzare nella città consolidata, a vastissime porzioni di patrimonio residenziale da recuperare.

Le situazioni urbane e territoriali interessate nelle diverse regioni sono molteplici: da interi comparti interni alla città storica e consolidata, a mancate recenti «nuove centralità» che dovevano segnare le ex periferie, alla campagna urbanizzata da riqualificare, a molte aree costiere o collinari, o di elevata suscettività paesaggistica cui riattribuire senso ecologico tramite blocco della nuova cementificazione e strategie di restauro ambientale; utile anche per il riuso delle aree non solo industriali dismesse.

Il riutilizzo sociale e paesaggistico dei luoghi e degli intorni interessati presuppone anche la capacità di leggere i contesti, oltre i singoli siti: su questo spesso sono di ausilio i piani paesaggistici recenti – i cui progetti di riqualificazione ambientale vanno assumendo sempre più spesso i profili guida di prossime economie verdi territorializzate dei territori coinvolti- che, per dettato strategico-normativo, analizzano gli spazi regionali per ambiti locali e comprensoriali e spesso ne prospettano «scenari di tutela, riqualificazione e valorizzazione sostenibile», non solo ecoterritoriale, ma socio-culturale. In questo quadro, i cluster spaziali individuati dalla ricerca per il riuso possono giocare ruoli decisivi.

Il Report tocca anche un’altra questione sostanziale: chi può mettere in pratica queste «interessanti politiche» in un momento di profonda crisi della «Politica»? la ricerca recupera il concetto di «Laboratorio Territoriale», coordinamento di abitanti, ambientalisti, difensori del territorio, istanze di restauro civile e costituzionale, già presenti in alcune esperienze di difesa e recupero del territorio recenti, come le Reti del «Nuovo Municipio» o dei «Comuni Solidali», e mira a ricontestualizzarli sui paesaggi, anche sociali, individuati.

Il rapporto Riutilizziamo l’Italia è scaricabile anche direttamente da QUI

 

Se i giovani prendono la strada della campagna

Il 17 e 18 maggio, a Milano, un convegno sul «ritorno alla terra», organizzato dalla Società dei Territorialisti/e.

Piero Bevilacqua, Il Manifesto, 16 maggio.

La crisi economico finanziaria che ha depresso l’immaginario trionfante dell’Occidente sta accelerando processi molecolari e inosservati di trasformazione culturale e sociale del nostro Paese. La vecchia talpa scava in segreto le sue gallerie . Si tratta, per la verità, di fenomeni avviati da tempo e già rilevati da alcuni osservatori non conformisti, ma che oggi divengono più visibili di fronte al tracollo di opportunità di lavoro e di vita, talora anche di senso, offerto dalle città e dal mondo industriale. Un silenzioso fiume fatto di individui isolati, di giovani e non giovani, di uomini e donne con profili culturali diversi, sparsi in tutte le regioni d’Italia, risale controcorrente il Belpaese in cerca di approdi nuovi negli spazi delle nostre campagne. Il flusso si scontra contraddittoriamente con un fenomeno opposto: l’esodo molecolare e l’abbandono di tanti nostri borghi appenninici e aree interne, che perdono scuole e ospedali, uffici postali e stazioni dei carabinieri, giovani e bambini. E’ questo un grande tema sia demografico che economico e ambientale su cui occorrerà ritornare non episodicamente. Ma il rifugio in campagna sembra l’avvio di un’altra storia, l’apertura di una nuova pagina culturale, mentre l’esodo dalle aree interne appare più come il movimento ultimo e inerziale di un processo in atto da decenni e che ora si va esaurendo.

Che cosa richiama tanti isolati individui nelle nostre campagne? L’agricoltura, la pratica millenaria di mettersi in relazione quotidiana con la terra per ricavarne beni agricoli. Talora l’allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L’agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell’attività produttiva del nostro tempo. Come in gran parte d’Europa, questa antica attività destinata all’alimentazione umana ha visto esplodere una miriade di finalità a cui può corrispondere e di cui è diventata la sorgente. Sulla terra, infatti, non si producono solo beni agricoli, ma si protegge e si rielabora il paesaggio, si cura il suolo, rigenerandone la fertilità: la fertilità, questo principio di vita e di riproduzione che si credeva risolto con la concimazione chimica e che oggi torna come necessità imperiosa sui suoli mineralizzati e isteriliti delle agricolture industriali. Ma al tempo stesso si difende il terreno dall’erosione, si alimenta la biodiversità agricola, si conserva la salubrità dell’aria e dell’acqua, si tutela il verde e l’ambiente, lasciandolo ben curato alle nuove generazioni, si organizzano nuove modalità di turismo e di fruizione del tempo libero, si riscoprano vecchie radici di cultura enogastronomica (la moltitudine delle cucine locali, patrimonio insigne della nostra civiltà materiale), si recuperano saperi manuali in via di estinzione, si riattivano forme cooperative di lavoro e di vita in comune, si curano gli handicap (fattorie sociali), si praticano forme innovative di apprendimento (fattorie didattiche). Insomma, sulla terra, diventata erogatrice di una molteplicità di servizi avanzati, si realizzano nuovi sfili di vita, che possono fare concorrenza alle condizioni di esistenza nella città, diventata, per un numero crescente di cittadini, fonte di disagio e di frustrazioni insostenibili.

I nostri frenetici e abbaglianti centri urbani, paradisi in terra per i nostri deliri consumistici, oggi fanno pagare un prezzo sempre più alto per la frequentazione del loro lunapark. Senza dire che innumerevoli disperati extracomunitari, che arrivano nel nostro Paese provenendo da distretti rurali di paesi africani o dell’Est europeo, vengono rinchiusi nei lager dei Cie ed espulsi come criminali, mentre potrebbero inserirsi in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell’agricoltura. Ancora oggi, a causa della cultura miserabile, della xenofobia infantile di alcuni uomini arrivati alla guida dei nostri governi, l’Europa è una terra di barriere, il Mediterraneo un mare chiuso e pattugliato, mentre dovrebbe essere il nostro vasto e prossimo orizzonte, lo spazio di un nuovo mondo cosmopolita, da cui far giungere l’energia di popoli giovani per la rivitalizzazione delle nostre campagne.

Il processo appena descritto, oggi lasciato alla sua spontaneità, potrebbe diventare un grandioso progetto per creare nuovi posti di lavoro, per ripopolare le aree inteme, per proteggere il nostro territorio senza ricorrere a “grandi opere”, per creare nuove economie valorizzando le risorse (terre, acque, boschi) oggi abbandonate. Sulle nostre colline, per secoli è fiorita un’agricoltura che ha reso possibile la vita delle nostre cento città, che ha fornito alimenti alle popolazioni dedite all’artigianato, alla mercatura, all’arte. Oggi potrebbe ospitare un’agricoltura di qualità in cui far rivivere, in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola della nostra incomparabile civiltà agraria.

Purtroppo, tra i fenomeni che percorrono il nostro tempo occorre considerare anche quello che ha svuotato i partiti politici -vale a dire gli strumenti con cui un tempo si governavano i processi di mutamento – di ogni cultura sociale, di ogni capacità di progetto. Non facciamo neppure cenno alla cultura materiale e ambientale: gli uomini politici abitano in un sopramondo artificiale senza alcun rapporto con la terra. Essi vivono alla giornata, nella fase storica in cui più acutamente si avverte il bisogno di scorgere un orizzonte, di capire dove si può andare. Per affrontare con strumenti analitici e discussioni mirate i fenomeni oggi in atto si svolgerà a Milano domani e sabato il convegno ‘Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune”. A organizzarlo è la Società dei territorialisti , l’organizzazione promossa da Alberto Magnaghi, che mette insieme una comunità di saperi esperti del nostro territorio davvero non comune: dagli urbanisti ai geografi, dagli storici agli agronomi, dai sociologi agli architetti.

Si spera che i media si accorgano dell’evento. Soprattutto si spera che quella frazione dignitosa del giornalismo italiano, che pure esiste, concorra ogni tanto a mostrare anche l’Italia che pensa, che non ha divi da esibire, o ciarle partitiche da rappresentare, che opera per pura passione, tentando di migliorare le sorti del nostro Paese