I beni culturali non sono «il nostro petrolio»

petroliodi VITTORIO EMILIANI, L’Unità, 18 Agosto 2013.

Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall’Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.

La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».

Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile… Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.

Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.

Balle. Sonore balle. I musei – a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre – non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.

Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.

Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?

A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?

Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.

Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.

Rassegna Stampa

21 – 31 luglio 2013

Approvata (con suspence) la “Variante al PIT della Piana fiorentina”: ora può partire l’iter della nuova pista dell’Aeroporto

La piana

Contro gli Ecomostri e gli abusi edilizi: a Livorno Rossi e Marson illustrano le nuove iniziative legislative

Le voci dei cittadini

SEGNALAZIONI

Tutela del paesaggio.

531785_Punta_Mesco_3Quello che insegnano le Cinque Terre,

di MAURO AGNOLETTI, Corriere della Sera,  22 Luglio 2013.

La firma dell’accordo fra Parco delle 5 Terre, ministero dell’Ambiente, Regione Liguria, Fai e comunità locali per il restauro dei terrazzamenti di Punta Mesco è un passaggio importante nei rapporti fra conservazione della natura e del paesaggio, avvenendo a seguito del dibattito iniziato con le frane del 25 ottobre 2011, per il 90% originatesi su terrazzamenti abbandonati. Capire l’importanza e il perché dell’intervento di tante istituzioni, richiede alcune riflessioni sul degrado del paesaggio italiano. Se molti conoscono l’avanzata del cemento, con circa 8.000 ettari l’anno negli ultimi 20 anni, è poco percepito l’abbandono dell’agricoltura e la successiva riforestazione, pari a 75.000 ettari all’anno. In 100 anni abbiamo perso quasi 9 milioni di ettari di aree agricole e i boschi sono passati da 4 a 10,5 milioni di ettari.

Ma se vi è consenso sul limitare l’urbanizzazione, diverso è l’atteggiamento circa l’abbandono, visto spesso come un positivo ritorno alla natura. Questa idea ha origine in nord Europa e in nord America alla fine dell’800, regioni con estese aree naturali ritenute superiori ai paesaggi culturali delle nostre latitudini, ma che in questo trovano la loro forza del punto di vista economico, ambientale e sociale. La reazione al degrado ambientale dell’ultimo secolo ha portato non solo a normative contro l’inquinamento, ma anche a un’idea di natura che ha trasformato i valori che dal XV secolo sono stati associati al nostro paesaggio, apprezzato perché finemente coltivato, arrivando a ricerche che considerano l’abbandono dell’agricoltura un fenomeno positivo. Il nostro sistema dei vincoli ambientali e paesaggistici si è adeguato a questa visione proposta da culture più forti, realizzando strumenti utili a conservare e favorire il ritorno della natura e frenare la speculazione edilizia, ma non a conservare il paesaggio storico. La rete «Natura 2000» vincola come habitat naturali più del 20% della superficie nazionale.

Qui e nelle altre aree protette, secondo la legge 394 che le ha istituite, si limita la possibilità di restaurare il paesaggio, favorendo la naturalità che però nel nostro paese non esiste più almeno dal periodo romano. Secondo la Fao solo l’1% dei nostri boschi è naturale essendo anch’essi un prodotto storico. La nostra biodiversità è infatti soprattutto bioculturale, risultato dei rapporti fra natura e cultura. Un eccesso di naturalità in cui l’uomo è assente non rappresenta né i valori del nostro paese, né un buon biglietto da visita per il futuro, considerando anche la nostra notevole importazione di cibo, fra cui il 50% dei cereali, che contribuisce alla nostra impronta ecologica, di quattro volte superiore alla terra disponibile. Per la Fao dovremo produrre il 50% di cibo in più di qui al 2050 ma ogni italiano ha a disposizione solo 5.000 mq di terra, di cui meno di un terzo coltivati. Il ministero dell’Agricoltura ha preso in carico il paesaggio varando politiche per la sua conservazione e valorizzazione, istituendo un inventario nazionale dei paesaggi storici e delle buone pratiche agricole e autorizzando il recupero produttivo di paesaggi storici, anche se coperti dalla vegetazione.

Ugualmente, fondazioni come Fai, Benetton, Florens, hanno capito che è urgente un’opera di restauro. Valorizzare il paesaggio vuol dire favorire una buona agricoltura e selvicoltura, non un’inutile competizione con Alaska e Scandinavia su fauna o foreste, come affermato in un incontro alla Camera sul turismo. Mettere insieme tutte le istituzioni interessate, come nelle Cinque Terre, significa tentare di fare sistema per valorizzare una risorsa notevole per la competitività del nostro paese e la nostra identità culturale.

 

 

 

Rassegna Stampa

11 – 20 luglio 2013

presunto abuso hotel la perla a procchio

Elba_20_07_13

ferrari in Ponte Vecchio

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