IL SILENZIOSO SIPARIO SUI PARCHI di Alessandro Rossetti

Cari amici,
si avverte uno strano clima di rassegnazione sul sipario che sta calando sui Parchi. Un silenzioso sipario reso ancor più invisibile dai nuovi fermenti che fanno invece sperare in un risveglio delle coscenze anestetizzate degli italiani.
Il crollo di un monumento di Pompei ha giustamente richiamato l’attenzione sui colpevoli tagli alla cultura. Sono scesi in piazza addirittura gli attori. E per loro si è mobilitato anche il Presidente della Repubblica. Pochi si sono chiesti se sia giusto che lo Stato finanzi Pompei (tra i siti archeologici più visitati al mondo!) o addirittura il cinema. Né tanto meno a qualcuno è venuto in mente di chiudere i siti archeologici o i musei che funzionano male o sprecano risorse. La risposta è stata corale e scontata: la cultura è ricchezza. Come lo sono l’istruzione e la ricerca. Ai tagli alla cultura sono stati dedicate intere puntate di programmi televisivi, come anno zero e vieni via con me.
Per i Parchi naturali, invece, le reazioni sono state finora molto, troppo timide (o moderate, come qualcuno preferisce definirle). Certo, a differenza dei siti archeologici, i parchi hanno, per ovvie ragioni, diversi nemici. Ma strani segnali e diffidenze giungono anche da parte del mondo ambientalista e, cosa ancor più singolare, da quello degli stessi Parchi. Dopo il taglio estivo del 50% delle risorse (già in precedenza ridotte al limite della sopravvivenza), lo scorso 9 novembre il ministro Prestigiacomo aveva pubblicamente dichiarato che il taglio era frutto di un errore, annunciando il reintegro di tali risorse da parte del parlamento. Ma così non è stato. Il reintegro approvato alla Camera e all’esame del Senato è inadeguato e, per giunta, assicurerebbe solo la copertura delle spese cosidette “obbligatorie”. Restano solo 7 milioni per attività strategiche di tutti e 23 i parchi nazionali. Alla fine del 2010 i Parchi si trovano ancora  senza alcuna certezza sui finanziamenti per il 2011 che, nella migliore delle ipotesi, potrebbero comunque coprire solo gli stipendi dei dipendenti e pochi altri contratti già in corso. Per non parlare dei tagli agli organici (in molti casi già inadeguati in relazione alla complessità dei compiti istituzionali) e alle continue norme che introducono sempre nuovi ostacoli alle attività degli enti.
In questo quadro, che sà molto di transizione verso la trasformazione dei Parchi in enti inutili, la beffa del reintegro fantasma ci viene presentato come una concessione, un importante risultato della politica moderata in tempi di crisi economica. E serpeggiano le ipotesi più fantasiose (o stravaganti) su possibili scenari, che vanno dall’autofinanziamento alla privatizzazione, dai biglietti alle entrate dei parchi alla modifica della legge quadro, a possibili introiti derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali, come nell’idroelettrico.
E’ strano come il tema dei Parchi entri ormai solo raramente nel dibattito sulle questioni ambientali. I riflettori sono puntati sulle catastrofi e sull’energia, troppo spesso solo all’esterno tinta di verde, anzi di “green”. Proliferano (fortunatamente) comitati di cittadini che si oppongono al consumo sfrenato e al degrado del proprio territorio e alla tutela dei beni comuni, come l’acqua. Ma sfugge la centralità che i Parchi dovrebbero avere nelle politiche ambientali, dimenticando che essi sono molte cose insieme: scrigni di biodiversità, cultura e beni comuni; laboratori privilegiati per sperimentare modelli economici alternativi; tutela della salute e prevenzione dei rischi ambientali.  Anche se l’estinzione di una specie vivente non fa rumore quanto il crollo di un monumento, un Parco è molto più di un museo, di un centro storico o di un sito archeologico. E una specie estinta non potrà essere restaurata, nemmeno nei periodi di massima prosperità economica. Nei Parchi si progettano speranze di futuro.  Sconfiggerli significa sconfiggere queste speranze. I Parchi rappresentano sacche di resistenza all’omologazione, allo sviluppismo senza regole e alla privatizzazione dei beni comuni. Quindi anche alle mafie, alle speculazioni come al Circeo e alle discariche di Terzigno. Resistenza fatta da gente che quotidianamente opera nell’ombra tra infinite difficolta. E da uomini come Angelo Vassallo. Discutere di ambiente senza parchi è come discutere di cultura senza teatri, di salute senza ospedali, di istruzione senza scuole.
Eppure, nell’Anno internazionale della biodiversità, il sipario continua a calare sui parchi italiani. Nel silenzio.
Alessandro Rossetti
socio dell’Associazione 394 del personale delle aree protette

Ambiente e poteri forti nella città di Paolo Berdini

Da Il Manifesto: 21.11.2010

Alberto Asor Rosa nel delineare i caratteri di un nuovo ambientalismo (manifesto del 17.11) sottolinea «il conflitto inesauribile e insanabile con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento». Concordo, e la sua analisi permette di ridare spessore all’elaborazione della sinistra. Provo ad articolare il ragionamento nel campo delle città e del territorio, dove si possono misurare quattro novità che hanno mutato i contorni del conflitto e impongono dunque di mutare strategia.
Innanzitutto la lacerazione dello storico “patto” tra cittadini e forze economiche dominanti.
Lo sviluppo delle città era affidato ai piani regolatori e la tutela dell’ambiente ai vincoli previsti dalle prerogative costituzionali dell’Articolo 9. Nonostante scempi e violazioni, c’era comunque un sistema di regole che garantiva un quadro di legittimità. Il neoliberismo ha sostituito ogni regola con gli “accordi di programma” che mutano caso per caso il disegno delle città e azzerano i vincoli paesaggistici. La proprietà fondiaria, un ristrettissimo numero di persone, edifica dove e come vuole.
La seconda novità riguarda il carattere teoricamente infinito dell’offerta di nuove costruzioni. Si continua a ricoprire di cemento l’Italia perché “c’è mercato”. Uno dei pilastri dell’economia liberale classica sono le regole del gioco e nell’Europa civile le nuove costruzioni vengono programmate salvaguardando gli interessi pubblici. Non ci sono altrimenti dubbi che se si costruisse sulle colline ancora integre della Toscana, in ogni valle alpina o sulle coste ancora scampate dal cemento, si troverebbero potenziali acquirenti nei 50 milioni di ricchi russi, nei 200 milioni di nuovi ricchi cinesi. Poi verranno gli indiani e i brasiliani.
Non c’è chi non comprenda il baratro che si è aperto nell’aver supinamente accettato la favola del “mercato”: rischiamo la cementificazione del paese e non serve a fermarla neppure la tragica serie di alluvioni e frane. Oltre all’insipienza culturale dei gruppi dirigenti della sinistra, si dovrà mettere a fuoco l’intreccio perverso tra i proprietari delle aree da urbanizzare, le grandi banche e l’informazione (Messaggero, Mattino, Corriere della sera, Tempo, Gazzetta di Parma e un’infinità di giornali locali).
La terza novità è una diretta conseguenza della sinergia tra le due precedenti. Se non ci sono più regole e se non esiste più un limite all’ipertrofia urbana, si sta creando un corto circuito economico che porterà al collasso il tessuto produttivo del paese. La speculazione fondiaria ha davanti una comoda autostrada per rendere edificabili i terreni agricoli. Vengono comprati a 10 – 15 euro al metro quadrato e non appena l’accordo di programma li rende edificabili raggiungono il valore di almeno 200 euro. Con dieci ettari di terreno che cambia destinazione, la speculazione si mette in tasca 20 milioni di euro senza nessun beneficio per la collettività perché non si crea neppure un posto di lavoro. Il lavoro, la ricchezza per le città e per tanti lavoratori si crea costruendo. In Europa obbligano a farlo su terreni già edificati, dove i valori immobiliari sono elevati e chi costruisce guadagna soltanto sulle sue capacità imprenditoriali. Chi mai investirà nel difficile mestiere dell’imprenditore o dell’artigiano se stando comodamente seduti può mettersi in tasca una fortuna?
E veniamo infine all’ultima tragica novità italiana. I comuni non hanno più risorse per realizzare servizi sociali, parchi, trasporti scuole. Per tenere in piedi i bilanci, i comuni e le loro società strumentali hanno fatto ricorso all’indebitamento sottoscrivendo quei titoli spazzatura che hanno portato al tracollo l’economia occidentale. Roma ne ha sottoscritti per oltre un miliardo di euro. Milano un’altra valanga, e così via. Afferma Loretta Napoleoni che le pubbliche amministrazioni «invece di cercare di risparmiare, sono andate dalle banche d’affari. La banca dice: tu devi pagare queste fatture per i prossimi due anni? Bene: me le compro io, ti do subito i soldi, e intanto emetto obbligazioni che poi vendo in borsa».
Per tenere in piedi i bilanci, poi, tutti i sindaci, di qualsiasi colore politico, affermano che l’unico modo è quello di moltiplicare all’infinito nuove costruzioni. Ma se non ci sono più soldi sarebbe interesse di tutti bloccare l’espansione senza fine che ha interessato le città italiane nell’ultimi sedici anni. Come si può pensare di costruire nuovi quartieri quando non si hanno neppure i soldi per costruire l’illuminazione pubblica e quando ci sono infinite aree produttive dismesse e case vuote? Se questa è la diagnosi, non bastano vecchie ricette. Occorre cambiare gioco e provo ad elencare le mosse che dovremmo mettere in campo al più presto.
Primo. Occorre bloccare per legge ogni espansione urbana, vincolando i comuni a ricollocarle all’interno delle aree già edificate e in stato di abbandono. Il settore delle costruzioni è un pilastro dell’economia dei paesi europei, ma per aprire una fase virtuosa anche in Italia occorre rompere per sempre il circuito infernale della rendita assoluta. Questa legge potrebbe partire dal basso, seguendo la proposta di Guido Viale, raccogliendo firme in ogni angolo dell’Italia violentata dal cemento e contrastata dai mille comitati spontanei. Secondo. Concludere per sempre la criminale stagione degli accordi di programma: basta un semplice articolo. Strillerà (molto) il manipolo di speculatori che nel periodo del trionfo berlusconiano hanno conquistato le città e distrutto l’ambiente. Terzo. Occorre restituire ai comuni – in un quadro di rigoroso controllo della spesa- i soldi tagliati per metterli in grado di governare le città. Non so se questa proposta sia collocabile nel comoda casella “dell’estremismo”: lascio questo inutile esercizio alla fallimentare politica di questi anni, utilizzata ancora di recente dopo la splendida vittoria di Pisapia nelle primarie di Milano. So soltanto che è l’unica ricetta per ristabilire un futuro al nostro paese: ridare voce al popolo derubato in questi anni dei beni comuni per eccellenza, le città e l’ambiente.
Prosegue il dibattito sul “che fare” per invertire la devastante tendenza in atto, nel mondo e in Italia. Tre cose da fare per partire dalle città. Il manifesto, 21 novembre 2010