Mascalzonate sociali. Come rubare la casa alle famiglie.

images (1)di Paolo Berdini, il manifesto, 3.8.2014.

Per avere presentato una proposta di legge urbanistica che limitava il dominio della rendita immobiliare, il ministro dei lavori pubblici democristiano Fiorentino Sullo, fu sottoposto ad una inaudita campagna diffamatoria orchestrata dalla grande proprietà fondiaria e dai costruttori edili. Fu accusato di voler «togliere la casa agli italiani» e sulla base di questa menzogna la legge fu accantonata per sempre.

Era il 1963 e a distanza di cinquantuno anni si capisce il motivo della violenza della classe dirigente nei suoi confronti: le case degli italiani le volevano vendere loro. Per cinque decenni hanno dominato incontrastati il mercato della casa imponendo prezzi senza controllo; costruito periferie di bruttezza e disordine inimmaginabili nell’Europa occidentale; guadagnato fortune incalcolabili. Nel momento di crisi del loro modello di governo pensano che sia venuto il momento di compiere l’ultimo misfatto.

I tristi nipotini dei protagonisti della diffamazione di Sullo hanno infatti ideato – e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi l’ha prontamente presentata al Parlamento – una proposta di riforma urbanistica che mette per la prima volta nella storia dell’Italia contemporanea a rischio le case delle famiglie italiane.

La proposta, infatti, non dice nulla sui motivi che a partire dal 2007 hanno portato a una diminuzione dei valori immobiliari che nelle aree marginali del paese ha raggiunto il valore del 40% e si attesta sul 20% nelle periferie delle grandi città. Ci sono decine di migliaia di famiglie di lavoratori che si sono indebitate per acquistare una casa e oggi il valore dei loro alloggi è inferiore a quello di acquisto. Il crollo dei valori immobiliari è stato causato dalla crisi economica mondiale ma anche perché nel ventennio dominato dal neoliberismo si è costruito senza regole a ritmi folli e oggi tutti gli istituti di ricerca di settore parlano di almeno un milione di alloggi nuovi invenduti. I valori delle abitazioni sono crollati perché c’è troppo invenduto.


Anche una persona normale – non bisogna essere ministri – comprende che se si costruiscono altre case, il valore degli immobili esistenti diminuirà ancora e le famiglie italiane subiranno un ulteriore impoverimento dopo il taglio degli stipendi, delle pensioni e del welfare. La proposta cosiddetta «Lupi», ma che viene dalla potente associazione della proprietà immobiliare e dai costruttori italiani, è tutta pensata per favorire un’ulteriore costruzione di nuove case senza prendere atto del fallimento dalla politiche seguite fino ad oggi.


Al di là di vuoti richiami alla prospettiva di fermare il consumo di suolo, essa si basa infatti sullo stesso pilastro che ha favorito la cementificazione, e cioè il diritto edificatorio riconosciuto per legge in eterno e – addirittura – afferma nei principi della legge (art. 1) che «ai proprietari di immobili è riconosciuto il diritto di iniziativa (…) anche al fine di garantire il valore degli immobili». Pensano alla grande proprietà, gli altri cittadini non contano.

Ma oltre che con un ulteriore deprezzamento, vogliono rubare realmente la casa agli italiani anche con il recupero del patrimonio edilizio esistente. Nei brevi articoli dedicati a quello che dovrebbe invece essere il pilastro dell’edilizia del futuro, si trova infatti un meccanismo inammissibile e odioso. Si dice che se ci sono proprietari contrari ad iniziative edilizie si potrà agire in loro danno spostandoli in un’altra parte della città senza il diritto a rientrare dopo le opere nella casa in cui sono vissuti.

Così gli speculatori «valorizzano» le loro immense proprietà e i più poveri dovranno sottostare una volta di più alle ragioni del più forte. Una vera mascalzonata sociale.

La proposta di legge Lupi è la dimostrazione amara delle teorie di Luciano Gallino sul trionfo di un revanscismo proprietario di classe che sembra non incontrare limiti. Una conferma delle reali intenzioni del governo Renzi che ha infatti confermato il ministro ex berlusconiano di ferro.

È ora di ricostruire uno schieramento alternativo al liberismo e idee per alimentarlo. A partire da una proposta che azzeri il dominio intollerabile della rendita parassitaria in Italia.

Urbanistica tossica. Lupi sulla città

imagesdi Ilaria Agostini, il manifesto 3.8.2014.

Controriforme. Privatismo selvaggio e zero pianificazione, il ministro ci riprova. Il settore immobiliare ristagna? La nuova versione del ddl, arricchita di autocrazia renziana, punta a rendere edificabile l’intera penisola.

«Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata […] e il suo godimento». L’art. 8 è il distillato della bozza di ddl (Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana) presentata dal ministro Lupi al Maxxi di Roma il 24 luglio scorso. A distanza di nove anni dal ddl 3519/2005 noto come “legge Lupi”, approvato dalla Camera nel Berlusconi III e poi fortunosamente bocciato in Senato col contributo della destra che lo ritenne antagonista alla tuttora vigente legge urbanistica n. 1150/1942, il ministro di rito ambrosiano ci riprova. Nella nuova versione, stagionata e arricchita di autocrazia renziana, restano fermi quei principi di «istituzionalizzazione del “privatismo” in urbanistica» – come ha scritto Sergio Brenna – allora stigmatizzati da urbanisti e giuristi in un volume curato da Maria Cristina Gibelli (La controriforma urbanistica, 2005), ma vi si aggiunge un colpo di reni da crisi globale, scoppiata in seguito proprio alle pesanti speculazioni immobiliari.

SPECULAZIONI IMMOBILIARI

Per Lupi infatti urbanistica coincide con edilizia e la riforma è dunque finalizzata a trovare linfa per il settore immobiliare, stagnante. La soluzione è semplice: rendere virtualmente edificabile l’intera penisola, per rafforzare la rendita fondiaria attraverso l’istituzione dei diritti edificatori «trasferibili e utilizzabili […] tra aree di proprietà pubblica e privata, e liberamente commerciabili» (art. 12). Il «registro dei diritti edificatori» sancisce la finanziarizzazione della disciplina: si profila uno scenario di urbanistica drogata, dove perequazione, compensazione, premialità ed esproprio (sì, esproprio, cfr. art. 11, c. 2) sono ripagati con titoli tossici come in un gioco di borsa. Tutto il contrario della pianificazione.

La proposta legislativa fluttua nel completo distacco dalla concretezza fisica del territorio e dell’ambiente urbano che tenta di governare; lo slittamento dall’oggetto della pianificazione (città e territorio) alle procedure, genera, in sede di presentazione, affermazioni eversive disciplinarmente, politicamente e socialmente, tra cui spicca, per duplice grossolana aporia, «la fiscalità immobiliare come leva flessibile [sic] del governo del territorio». Ma lungo l’articolato trapela la vera passione del ministro: le grandi opere. L’istituenda DQT, Direttiva Quadro Territoriale, quinquennale e direttamente approvata dal presidente del consiglio dei ministri (art. 5), è configurata come un piano nazionale delle infrastrutture (affinché non ci si debba più confrontare con ponti sullo Stretto «proclamati e mai realizzati») che sovverte l’ordine delle cose, subordinando il paesaggio al governo del territorio, in contrasto col Codice dei beni culturali.

La pianificazione comunale (che si confronterà con la DQ Regionale) sarà suddivisa tra parte programmatoria «a efficacia conoscitiva e ricognitiva», e parte operativa, dove «il cambio di destinazione d’uso […] non richiede autorizzazione» (art. 7, c. 10, che prosegue pudìco: «laddove la nuova destinazione d’uso non necessiti di ulteriori dotazioni territoriali rispetto a quelle esistenti»). Comunque sia, il piano comunale è travolto e annientato dagli «accordi urbanistici» (art. 15), ispirati agli strumenti criminogeni di contrattazione pubblico/privato che tanto lustro hanno dato all’urbanistica milanese e romana.

La Lupi II punta sul «rinnovo urbano» realizzabile senza regola alcuna, «anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa previo accordo urbanistico» (art. 17). Assenti in tutto l’articolato i centri storici – privi di tutela come ormai è moda (si veda il piano strutturale fiorentino) – malgrado Vezio De Lucia, già a fronte del ddl 2005, avesse denunciato lo scorporo della tutela dall’urbanistica che si riduceva così «a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio». Assenza gravata da un sentore di deportazioni di regime: proprietari o locatari degli immobili soggetti al rinnovo urbano (fino a demolizione e ricostruzione) saranno ospitati in alloggi di nuova costruzione «per esigenze temporanee o definitive» (art. 17, c. 10, corsivo nostro). Questa la prospettiva: nuova edificazione provvisoria o definitiva nelle periferie, espulsione dei ceti sociali svantaggiati dalle zone urbane consolidate, o addirittura centrali, che diventano nuove aree di speculazione (ora che nella prima periferia anche le aree industriali dismesse diventano merce rara).

LE CONQUISTE SMANTELLATE

Esemplare la pervicacia esercitata nello smantellamento delle conquiste degli anni ‘60-‘70. Un esempio per tutti: la disapplicazione del dm 1444/1968 sugli standard urbanistici, che attribuisce ad ogni cittadino italiano, dalla Calabria al Veneto, una quantità minima di servizi e attrezzature. Il principio cartesiano di eguaglianza peninsulare verrebbe ora spazzato via e sostituito da «dotazioni territoriali», calcolate regione per regione e il cui soddisfacimento sarebbe garantito anche dai soggetti privati.

Una riforma urbanistica nazionale, anziché riassumere in un unico testo le peggiori esperienze urbanistiche italiane del dopo Bassanini (Roma, Milano, Firenze etc.), avrebbe potuto (anzi, dovuto) sussumere – per estenderne i benefici all’intero paese – gli esempi positivi, che pure esistono nel panorama legislativo regionale. A titolo d’esempio il ddl presentato dall’assessore Anna Marson al consiglio toscano, contenente una declinazione della “linea rossa”, auspicata dal dibattito disciplinare internazionale, da tracciare tra città e campagna. Ma anche il ribaltamento del paradigma territoriale da “risorsa” o “neutro supporto”, a “patrimonio” – ossia, da valore di scambio a valore d’uso – gioverebbe alla messa a punto di uno strumento sinceramente vòlto alla limitazione del consumo del suolo fertile. Misure cui potrebbe aggiungersi il ripristino dell’art. 12 della Bucalossi (L. 10/1977) che legava i proventi delle concessioni edificatorie alle opere di urbanizzazione, al risanamento dei centri storici, all’acquisizione delle aree da espropriare, e il cui travaso nelle spese ordinarie dei comuni è stato riconosciuto come principale causa dell’alluvione cementizia dell’ultimo quindicennio.

Siamo dunque di fronte alla bozza di un ddl bifronte, alfiere da una parte del liberismo senza freni in difesa della proprietà privata, e dall’altra di un autoritarismo statalista – o autocrazia? – che anticipa il riformando art. 117 della Costituzione secondo il quale le norme generali sul governo del territorio tornerebbero ad essere materia di «esclusiva competenza» dello stato. «8100 regolamenti edilizi comunali – affermava Lupi – non sono un segno identitario, ma un elemento di confusione». E al ministro, in luogo del Piccolo principe le cui citazioni hanno gettato nell’imbarazzo gli astanti di media cultura alla presentazione romana, proponiamo un’altra più edificante lettura, sul rapporto tra libertà di azione e vincolo: Lo sguardo da lontano di Claude Lévi-Strauss. «Ritengo – chiosava l’antropologo – che la libertà, per avere un senso e un contenuto, non debba, non possa, esercitarsi nel vuoto».

Il governo Renzi va all’assalto dei beni comuni.

14620090691_3fccc1e50f_zdi ALBERTO ASOR ROSA, Il Manifesto, 30 Luglio 2014. Quando si scrive di politica… quando io scrivo di politica, mantengo sempre, per quanto mi riesce, un atteggiamento di dubbio formale e sostanziale. Sì, è così, mi sembra che sia così, però… Delle affermazioni e conclusioni contenute in questo articolo sono invece assolutamente certo. Verrebbe voglia di dire: allarme, cittadini, sono in pericolo la vostra esistenza e il vostro futuro, e quelli dei vostri figli. Levate la testa prima che sia troppo tardi. Mi riferisco agli atteggiamenti e alle promesse che il governo Renzi dispensa a piene mani in materia di ripresa economica e, contestualmente, di ambiente, territorio, beni culturali, paesaggi italiani. Non c’è in giro il minimo straccio di piano industriale. Ma in compenso c’è, a quanto sembra, un piano ormai pensato ed elaborato, anche nei suoi particolari dispositivi di attuazione, per quanto riguarda il già troppo martoriato volto del nostro paese, cui si continua a ricorrere, in mancanza di altro, tutte le volte in cui si deve dare l’impressione di rimettere in movimento la macchina. Qui il più spregiudicato nuovismo coincide con il più arretrato vecchismo: come, per l’appunto, rischia di essere sempre più naturale in questo nuovo contesto. Il discorso potrebbe, anzi dovrebbe, essere assai lungo. Io invece mi liniterò a disegnare una traccia del possibile, anzi, ormai facilmente prevedibile percorso che ci sta davanti. Bisogna infatti, in questo caso più che in altri, essere pronti a prevenire, piuttosto che aspettare, come sempre più spesso accade, che i giochi siano fatti. Le mie fonti sono esclusivamente quelle parlamentari (dibattito, decreti legge e disegni legge, ecc.) e quelle rappresentate dalla grande stampa d’informazione: le une e le altre, mi pare, attendibili. Si leggano, ad esempio, se ancora non lo si è fatto, gli articoli apparsi recentemente in rapida successione su “la Repubblica”. Già i titoli esprimono con sufficiente eloquenza di cosa si tratti: «Entro fine luglio arriva “SbloccaItalia” » (2 giugno); Renzi: «sbloccheremo 43 miliardi» (24 luglio); «Arriva lo SbloccaItalia: permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate, fuori le imprese in ritardo» (28 luglio); le anticipazioni non fanno molta differenza fra le opere in ritardo per motivi burocratici o altro, e quelle nei confronti delle quali si è manifestata la consapevole opposizione dei cittadini in nome di una vivibilità che fa tutt’uno con il rispetto del territorio e dell’ambiente. Anzi: facendo intenzionalmente (ripeto: intenzionalmente) di ogni erba un fascio, si adotta la parola d’ordine dello sviluppo a tutti i costi, lanciando anatemi contro tutti i coloro che vi si oppongono in nome di sacrosante pretese. In un’intervista al «Corriere della sera» (13 luglio) il nostro leader tira fuori la parte più consistente della sua personalità etico-politica: «Nel piano SbloccaItalia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario… Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni fra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini.…». È noto che il disprezzo che cala dall’alto si esprime sempre attraverso un tentativo di ridimensionare la portata degli eventuali antagonisti: «comitatini», appunto, come Minzolini? ecc. ecc.

Il miracolo della bozza Ma le ultime anticipazioni indicano con chiarezza ancora maggiore in quale direzione si muove questo nuovo-vecchio grande piano di sviluppo. Il giornalista di Repubblica (in questo caso Roberto Petrini, 28 luglio) spiega infatti che «secondo una bozza del testo… si andrebbe incontro a una piccola rivoluzione nel rilascio delle concessioni edilizie…». E cioè: «Con la riforma ci si potrà rivolgere direttamente allo sportello unico, muniti di autocertificazione con le caratteristiche essenziali del progetto, realizzata da uno studio professione, che testimonia il rispetto del piano regolatore e delle altre norme urbanistiche. A quel punto lo sportello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispondere, nel caso contrario si potrebbe procedere ai lavori…». Sembra di avviarci a stare nel paese di Bengodi. Lo sportello unico! Trenta giorni di tempo per rispondere! Non sarebbe più semplice dire che in Italia si potrà intraprendere qualsiasi iniziativa edilizia (e consimili, naturalmente), senza che vi sia più la possibilità di entrare nel merito? L’appello, contemporaneo e conseguente, che il Premier ha rivolto ai Sindaci affinché presentino la lista delle loro opere incompiute o non iniziate mira a costituire una imponente galassia di interventi, mediante la quale premere sull’opinione pubblica per ottenere il più largo consenso. Parallelamente al profilo d’interventismo attivo delineato da progetto di Sbloccaitalia si è mosso il disegno di legge «per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo» che di fatto è una vera riforma del Ministero dei Beni culturali ed è stato votato dalla Camera dei Deputati il 9 luglio scorso. Le idee basilari mi sembrano due: (1°. Innanzi tutto l’idea che il patrimonio culturale e artistico, di cui gode l’Italia, vada considerato nei suoi aspetti di massa economica potenziale da sfruttare fino in fondo più che come un bene universale umano, innanzi tutto da tutelare e (2°, conseguente al primo, il tentativo di sbarazzarsi il più possibile delle competenze e, sì, anche delle resistenze del personale tradizionalmente investito dallo Stato italiano del compito, innanzi tutto, di difendere e preservare quel patrimonio da ogni possibile offesa, comprese quelle che potrebbero provenire da una prevalente prospettiva di sfruttamento turistico-monetario.

Annientare le resistenze La lettura ragionata di questo disegno legge richiederebbe quattro pagine intere del manifesto (ne ha ragionato a lungo Francesco Erbani sul «manifesto» del 16 luglio). Scelgo il punto che, secondo me, per le sue possibilità di generalizzazione, presenta il valore simbolico più elevato. All’art. 12 della Legge suddetta è stato inserito in Commissione un emendamento (da chi? Non lo so), che suona in codesto modo: «Al fine di assicurare l’imparzialità (!) e il buon andamento dei procedimenti autorizzativi in materia di beni culturali e paesaggistici, i pareri, i nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, rilasciati dagli organi periferici del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, possono essere riesaminati d’ufficio o su segnalazione delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento, da apposite commissioni di garanzia per la tutela del patrimonio culturale, costituite esclusivamente da personale appartenente ai ruoli del medesimo Ministero»… Trovo stupefacente questo passaggio. Se lo si dovesse applicare fino in fondo, e a questo mira il disegno di legge — verrebbe affermato il principio secondo cui un altro funzionario dello Stato, e tale è il cosiddetto Soprintendente — potrebbe legittimamente essere sospettato di svolgere la propria funzione non obiettivamente e in vista d’interessi terzi. In base a tale visione del mondo, si potrebbero allo stesso modo prevedere commissioni di garanzia destinate a rivedere ed eventualmente sanzionare i presidi e i professori che portano a termine uno scrutinio scolastico o un gruppo di medici e di sanitari nell’atto di pronunciare una diagnosi o di compiere un’operazione. Allo stesso atteggiamento (o analogo) va condotto il principio secondo cui i grandi poli museali del paese non possono essere retti da Soprintendenti collocati nelle strutture dello Stato, e andrebbero invece demandati a manager non pubblici, la cui formazione e scelte dipenderebbero unicamente dalla capacità loro di fare fruttare il patrimonio culturale, che si sono trovati a gestire (con criteri inevitabilmente politici).

In difesa del Sistema Ce n’è abbastanza, insomma, sull’uno come sull’altro versante, per prevedere e organizzare una vera e propria guerra contro questa spropositata pessima tendenza. Osservo semplicemente, a questo proposito, che, al di là delle molto spesso troppo arzigogolate discussioni in merito alle cosiddette riforme istituzionali (Senato, e tutto il resto), qui, appare con evidenza massima che non c’è differenza, non c’è davvero nessuna differenza su questo più concreto terreno fra ideologia e visione del mondo del Ministro Lupi e quella del presidente del Consiglio Renzi. Ambedue appartengono a pieno diritto al partito unico della presunta razionalizzazione del sistema, la quale si rivela contraria, anzi antitetica non solo alle buone idee della sinistra ambientalista e democratica ma persino alla perpetuazione del vecchio sistema statuale borghese, imperfetto ma in una certa misura garantista. Le associazioni ambientaliste e i Comitati hanno abbastanza voce per farsi sentire. Perché questo accada, non basta però la buona volontà. Bisogna avere la consapevolezza che questa è una battaglia decisiva, per organizzare la quale occorre preliminarmente una concertazione programmatica di grande serietà e intelligenza. Proviamoci.

Caro Ministro Lupi, ti scrivo…

imagesdi PAOLO BALDESCHI, su Eddyburg, 27 Luglio 2014.

Caro Ministro Lupi,

sollecitato dall’invito a partecipare a una futura consultazione pubblica sul suo disegno di legge “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”, mi permetto, in anteprima, di esprimere il mio pensiero Dopo avere letto, con una certa condivisione, nel primo articolo che “il governo del territorio consiste nella conformazione, nel controllo e nella ge­stione del territorio, quale bene comune di carattere unitario e indivisibile”, sono stato insospettito dal fatto che lo stesso articolo recita che “le politiche del «governo del territorio» garantiscono la graduazione degli interessi in base ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili.”

Di quali interessi si tratta? Il testo del disegno di legge lo chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio: sono gli interessi dei proprietari immobiliari che devono essere tutelati, sostenuti e promossi dagli enti locali, che – volenti o nolenti – devono assecondarli con accordi fuori o dentro gli strumenti urbanistici. Di più: al di là delle petizioni di principio, appare con tutta evidenza che il disegno di legge considera il territorio come supporto neutro e indifferenziato per l’attività edilizia; di fatto, l’articolato non si occupa di paesaggio, ambiente, territorio, intesi come patrimonio della collettività ma di quanta volumetria vi si possa spalmare, in forma di espansione urbana (soprattutto) o di “rinnovo urbano”, quest’ultimo usato come un grimaldello per aggiungere metri cubi a metri cubi. Che questa sia la finalità del legislatore Lupi, che non vorrei avesse come modelli culturali di riferimento le imprese dei vari Ligresti, Zunino e simili gentiluomini operanti nella sua Milano,  è chiarito già al comma 4 dello stesso primo articolo su “oggetto e finalità della legge: “Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà“.

Questo è il primo obiettivo della Legge; il secondo, complementare, è di sottoporre alla regia e ai voleri dello Stato (leggi: Governo) le eventuali Regioni che andassero contro corrente o reclamassero l’esclusività delle competenze in materia di pianificazione urbanistica; la legge introduce, infatti, un misterioso strumento di promulgazione statale, la Direttiva Quadro Territoriale (DQT), che “garantisce l’espressione della domanda pubblica di trasformazione territoriale che la pianificazione paesaggistica deve contemplare” Sì, avete capito bene: la DQT garantisce che la “domanda pubblica di trasformazione territoriale” (cioè alta velocità, grandi opere, e perché no, tutte le operazioni private battezzate in qualche modo di interesse pubblico) non sia ostacolata da fastidiosi intralci, come, ad esempio, i piani paesaggistici: con un rovesciamento dei valori e delle finalità sanciti nella Costituzione vigente che, non a caso, il duo Renzi-Berlusconi vuole stravolgere in senso autoritario.

E via via nell’articolato della legge è un crescendo di disposizioni dove l’urbanistica è intesa come contrattazione dei metri cubi  con l’iniziativa privata: “La legge regionale determina per ogni ambito territoriale unitario … i limiti di riferimento di densità edilizia” (art. 6). “Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica…. Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi” (art. 7). “La disciplina della conformazione della proprietà privata… rispetta il principio di indif­ferenza delle posizioni proprietarie”. “Le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati dalle operazioni” (art. 16). Fa da corollario l’abolizione degli standard di legge del DM 1444 del 1968, evidentemente per ridurne la quantità minima obbligatoria, dato che nessuno ne impedisce una dotazione più generosa. Il tutto in un testo che in non poche parti appare confuso e contraddittorio, ma da cui scompare non solo il governo del territorio “in tutte le sue componenti, culturali, ambientali, naturali, paesaggi­stiche, urbane, infrastrutturali” (art. 1), ma scompare anche la stessa urbanistica; l’evidente paradosso è che una legge che vorrebbe essere di modernizzazione non solo è culturalmente più arretrata della storica legge 1150 del 1942, ma sembra un tragicomico ritorno agli anni ’50 e ’60. E’ cieca e sorda al fatto che “lo sviluppo” e la “competizione urbana” in Europa, nel 2014, si gioca sulla valorizzazione dell’ambiente, del paesaggio, della qualità della vita, sul risparmio di suolo (per incentivare il quale la legge – udite udite – propone di diminuire gli oneri di urbanizzazione a chi costruisce con maggiori densità). Nella legge del Ministro Lupi i veri protagonisti sono i diritti edificatori creati artificiosamente attraverso i principi di indifferenza, perequazione, compensazione e premialità (gli enti pubblici possono attribuire agli attori della riqualificazione urbana ulteriori metri cubi). Diritti edificatori che volteggiano sul territorio per atterrare dove proprietari e Comuni si mettano d’accordo. Un ulteriore corollario: gli enti locali dovranno adeguare i loro strumenti urbanistici, in sostanza rifarli ex novo, sulla base di una disciplina paesaggistica e alla nuova legge fra loro conflittuali nella sostanza e incompatibili da un punto di vista giuridico.

Mi permetto, in conclusione, di dare un consiglio al Ministro Lupi. Getti il suo disegno di legge nel cestino della carta straccia. Si ispiri a delle buone leggi regionali di vero “governo del territorio”, ad esempio al disegno della nuova legge toscana. Sostituisca o integri il team che ha formulato la Legge, composto quasi esclusivamente di avvocati e di esperti di diritto con qualche vero urbanista, oltre al buon Franceso Karrer, in questi giorni da lei nominato Commissario dell’Autorità portuale di Napoli. E per gli amici di eddyburg un invito: partecipate numerosi alla consultazione promossa dal Ministro. Sperando che qualcuno nel governo si ravveda: il governo del territorio non è cosa che riguardi solo il Ministro delle Infrastrutture. Rifiutare la legge Lupi – più ancora che l’articolato il principio che lo ispira, la sacralizzazione di un diritto edificatorio ubiquitario – non è di “sinistra” o di ispirazione ambientalista, ma solo mossa di buon senso: vale a dire essere consapevoli che garantire e cristallizzare la rendita immobiliare e pensare all’edilizia come propellente dell’economia  è quanto meno di moderno e intelligente si possa fare in un paese dove (dati ISPRA 2013) si consumano annualmente quasi 22.000 chilometri quadrati di suolo. Ma evidentemente per Lupi & Co. questo non è ancora sufficiente.

Si veda anche l’intervento del 28 maggio, sempre su Eddyburg, di MAURO BAIONI.