Lupi perde il pelo ma non il vizio …

La strana alleanza in salsa verde.

Di Salvatore Settis, La Repubblica, 1 giugno.

LUPI in salsa ecologica: questo il senso della proposta di legge Ac/70, in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana». Bel titolo: peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2008 Maurizio Lupi propone una legge dove il suolo ha mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico.

Una concezione panurbanistica, in nome di “diritti edificatori” commerciabili; ma la proposta cade in un coro di proteste. Nel 2012 Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, presenta una legge sulla «Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo », che contiene due principi assai positivi: la riduzione del consumo dei suoli agricoli e la disciplina degli oneri di urbanizzazione (da destinarsi solo alle opere di urbanizzazione, secondo l’originaria norma Bucalossi, e non alla spesa corrente). Proposta caduta con la fine della legislatura. In che rapporto con questi “precedenti” è la proposta di legge Ac/70? Essa è totalmente dissociata non solo dal suo titolo, ma anche dalla relazione introduttiva. La relazione, infatti, richiama il ddl Catania e ricorda i dati terrificanti (Istat, Ispra, Wwf) sul consumo di suolo in Italia, le misure di contenimento di altri Paesi, la risoluzione europea che impegna

il governo a norme urgenti di analogo segno, il consenso dell’Ance (associazione dei costruttori) a un radicale cambio di rotta verso la riqualificazione degli immobili. Il testo della legge è fedele a queste premesse solo in minima parte ma per il resto non fa che rilanciare la legge Lupi. Dall’articolo 9 della proposta Lupi derivano, infatti, i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica», commerciabili senza limiti, nonché incrementati da ulteriori «premialità, compensazioni e incentivazioni». Targata Lupi è anche l’idea che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune.

Nella proposta Ac/70, «il suolo non edificato costituisce una risorsa il cui consumo (…) è suscettibile di contribuzione » (articolo 1), e infatti gli oneri di urbanizzazione restano tal quali, anzi basta moltiplicarli per quattro (se l’area è «coperta da superfici naturali o seminaturali») o per tre (se si tratta “solo” di suoli agricoli), e il miracolo è fatto: qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.

Ben lungi dal limitare il consumo di suolo, la norma lo consacra traducendolo in un sovraccosto. Infine, istituisce i «comparti edificatori», mostruosa neoformazione dell’articolo 5, una sorta di consorzio dei proprietari privati di un’area determinata, che presentano poi al Comune «il piano urbanistico attuativo riferito all’intero comparto»: una vera e propria privatizzazione della pianificazione territoriale.

Ecco i primi frutti dell’ascesa di Lupi al ministero- chiave delle Infrastrutture. Se questa legge da Lupi l’avesse firmata lui, tutto regolare; ma a presentarla è Ermete Realacci, lunga storia in Legambiente, oggi presidente della commissione Ambiente alla Camera. Tra i firmatari meraviglia trovare Mario Catania, autore di un ddl di segno opposto, e Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni culturali ed ex presidente del Fai. Intanto, è in dirittura d’arrivo un pessimo dpr sulle autorizzazioni paesaggistiche, “semplificate” d’ufficio anche nelle aree soggette a vincolo individuale. Per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, sfugge come gli attentati al paesaggio e all’ambiente di queste norme-inciucio possano stare insieme con le (buone) dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che alla Camera ha insistito su ben altre priorità: controllare il rischio idrogeologico, tutelare gli ecosistemi, ridurre il consumo di territorio, pianificare le risorse idriche come bene comune, «puntare sulla trasformazione del tessuto urbano esistente e non su nuove edificazioni».

Se questo fosse il programma non di un ministro ma del governo, la proposta Ac/70, che si scrive Realacci e si legge Lupi, andrebbe immediatamente cestinata. Molto meglio sarebbe ripartire dal ddl Catania, da migliorarsi parametrando la riduzione del consumo di suolo su serie previsioni demografiche e sul censimento degli edifici abbandonati o invenduti.

In questo senso, va la proposta presentata ieri da nove deputati del M5S (tra cui De Rosa e Zaccagnini), mirata a ridurre senza trucchi e senza inganni il consumo del suolo. Ma il tormentato iter di queste norme non avrà mai fine, se non ci decideremo a separare la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, sottoponendo questi ultimi a una rigorosa pianificazione pubblica che non può limitarsi all’ambito meramente comunale.

Un ultimo punto: alcuni firmatari della proposta Realacci, interrogati privatamente, confessano di aver firmato sulla fiducia, senza capirne bene il senso. C’è dunque da chiedersi come, nel buio delle “larghe intese”, lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum. E se sia legittimato non dico a varare, ma anche solo a sognare una qualsiasi riforma della Costituzione.

Per scaricare il testo:  Proposta di legge Realacci e altri

Svendere immobili e terreni con risparmi dei cittadini

Il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti.

Due articoli di Marco Bersani, di Attac.

Nel dicembre 2011 Deutsche Bank presentò direttamente alla Troika il rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, con cui proponeva per una serie di paesi europei un gigantesco piano di dismissioni, proporzionale a quello che coinvolse la ex Germania Est dopo la riunificazione del 1990. Alcuni passaggi relativi al nostro Paese sono senz’altro significativi: “ (..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. Attualmente, si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL); ma una particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici, il cui valore totale corrente arriva a 421 miliardi di euro, con un 10% attualmente non in uso, che potrebbe essere messo in vendita con relativamente poco sforzo o spesa”.

Deutsche Bank, nel rapporto rimasto a lungo segreto, si richiama direttamente al Treuhandanstalt tedesco, l’Istituto di Gestione Fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994, garantì la dismissione di circa 8.000 aziende dell’ex DDR a vantaggio delle imprese dell’ovest, per un valore patrimoniale di 600 miliardi di marchi tedeschi (307 miliardi di euro attuali). “La situazione difficile sui mercati finanziari non è un ostacolo – afferma il rapporto – Una modalità consisterebbe nel trasferire gli attivi ad un’agenzia incaricata esplicitamente di privatizzazione. Questa potrebbe in seguito, a seconda della congiuntura dei mercati, scaglionare la vendita nel tempo”.

Sembra esattamente il ruolo che Cassa Depositi e Prestiti si sta ritagliando verso gli enti locali con il nuovo Fondo Investimenti per la Valorizzazione degli immobili comunali (Fiv), che ormai da mesi propaganda attraverso un tour nelle maggiori città italiane.

Tra patto di stabilità, fiscal compact, spending review e drastica riduzione dei trasferimenti erariali, gli enti locali sono prossimi al collasso e impossibilitati ad assolvere alla propria funzione sociale : quale miglior occasione per tirare un po’ il fiato di una bella svendita del patrimonio pubblico? E quale miglior beffa del realizzarla utilizzando il risparmio postale dei cittadini?

Cassa Depositi e Prestiti si propone all’ente locale come consulente per la definizione del valore degli immobili, assegnandogli un prezzo. Da quel momento, l’ente locale potrà metterli in vendita e, se riuscirà a farlo ad un prezzo superiore, avrà fatto un buon affare; in caso contrario, gli immobili verranno acquistati da Cdp al prezzo fissato e messi successivamente sul mercato.

In pratica, si utilizza la drammatica situazione di difficoltà finanziaria nella quale sono stati scientemente condotti gli enti locali dopo anni di politiche liberiste, per permettere loro di “fare cassa” una tantum, deprivando i cittadini di beni pubblici che potrebbero a ben altri scopi essere riutilizzati. Con il paradosso di un’espropriazione di beni collettivi fatta utilizzando i risparmi postali dei cittadini stessi.

Se tutto ciò non bastasse, ci sono sempre i servizi pubblici locali da mettere in vendita, e anche in questo settore Cassa Depositi e Prestiti si sta velocemente attrezzando con Volano Utilities, proponendosi come partner ideale per accompagnare gli enti locali nella privatizzazione dei servizi a rete, nella fusione tra sociètà partecipate, nella messa sul mercato dei beni comuni.

Se questo è il quadro, diviene evidente come la riappropriazione della democrazia locale e di prossimità passi necessariamente per la socializzazione di Cdp e la restituzione alla stessa di un ruolo pubblico, sociale e partecipato dalle comunità territoriali.

 

CDP ALL’ASSALTO DEL DEMANIO AGRICOLO 

Secondo l’Agenzia del Demanio, che utilizza i dati del Censimento per l’ Agricoltura 2010, l’estensione dei terreni agricoli demaniali in Italia ammonta ad oltre 338.000 ettari, per un valore che oscilla fra i 5 e i 6 miliardi di euro.

Un patrimonio importante che, grazie alla sua equa distribuzione geografica, consentirebbe la messa a punto di un progetto nazionale per una diversa agricoltura, per una conseguente salvaguardia e manutenzione idrogeologica del territorio e per il rilancio di nuova occupazione, in particolare giovanile, durevole e di qualità.

Riflessioni che non sfiorano l’attuale Ministra dell’Agricoltura De Girolamo, che ha recentemente incontrato i vertici dell’Associazione bancaria italiana (Abi) e il presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, per mettere a punto un programma di “valorizzazione” e (s)vendita dell’immenso patrimonio agricolo demaniale.

Replicando quanto sta già proponendo agli enti locali in merito alla svendita del patrimonio immobiliare, Cassa Depositi e Prestiti avrebbe la funzione di assegnare un prezzo ai terreni demaniali, di acquisirli consentendo allo Stato di fare cassa e di metterli successivamente sul mercato.

Incredibile l’obiettivo dichiarato dalla Ministra De Girolamo : “(..) un’occasione per sbloccare la situazione e mettere nuovi terreni a disposizione soprattutto dei giovani, perché senza terra da lavorare non è possibile pensare ad un vero rilancio del comparto”.

Altrettanto incredibile è che per questo ulteriore processo di colossale espropriazione di patrimonio pubblico si utilizzino le risorse del risparmio postale affidato dai cittadini alla Cassa Depositi e Prestiti.

Davvero si pensa che i giovani disoccupati (oltre il 35%) siano provvisti di capitale e non attendano altro, per trasformarsi in futuri agricoltori, che divenire proprietari dei terreni da coltivare?

Davvero si pensa che privare la collettività del bene terra, di inestimabile valore pubblico e sociale, corrisponda a “servizio di interesse economico generale”, qualifica cui dovrebbe attenersi ogni investimento di Cassa Depositi e Prestiti (art. 10, D. M. Economia 6/10/1994) ?

Possibile che non si pensi ad un piano per un’agricoltura di qualità e per una nuova occupazione giovanile attraverso il mantenimento della proprietà collettiva del demanio agricolo, l’affidamento dei terreni ai giovani con affitti calmierati e l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti per il sostegno dell’avvio di attività (start up di impresa) e dei primi investimenti in mezzi, tecnologie, impianti e sementi per consentire alle diverse nuove aziende un funzionamento a regime?

Ancora una volta l’obiettivo è quello di consegnare patrimonio pubblico alle banche e beni comuni alla speculazione finanziaria, con il paradosso di renderlo possibile attraverso l’utilizzo dei risparmi dei cittadini. La socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti e la sua gestione territoriale, democratica e partecipativa diventa un obiettivo sempre più urgente, che da oggi dovrà vedere coinvolte in prima fila tutte le esperienze e reti dell’altra economia, dei gruppi di acquisto solidale, dell’agricoltura autogestita e di qualità, del commercio equo e solidale.

Marco Bersani (Attac Italia)

Riutilizzare l’Italia, riutilizziamo il Belpaese

Contro il consumo del suolo e l’inutile produzione edilizia, per la riqualificazione urbana.

Oggi e domani a Roma convegno promosso dal WWF.
Di Alberto Ziparo, Il manifesto, 31 maggio 2013, rapporto scaricabile

«La vera ricchezza d’Italia – già Belpaese per antonomasia – sta nel suo patrimonio artistico e storico, paesaggistico e culturale»: sono ormai in molti ad individuare in questi beni comuni i possibili milestone di un prossimo riassetto sostenibile, non solo fisico, ma socio-economico e civile del paese.

Oggi, però, questo «tesoro» italiano – lascito delle molte civiltà stratificatesi nella nostra evoluzione spaziale e temporale – è sempre più obliterato, abbandonato al degrado, occultato, «affogato» dall’abnorme crescita urbana, dal pervasivo consumo di suolo che fa del territorio italiano la disastrosa, esasperata punta di un fenomeno, sprawltown, la città diffusa, che marca negativamente vaste regioni europee e occidentali.

Due cifre emblematiche di quella che sta diventando una catastrofe ci vengono dagli osservatori sul consumo di suolo, operanti presso diverse università, e riprese dal Coordinamento per la Difesa del Paesaggio: le rilevazioni satellitari restituiscono suoli urbanizzati pari a quasi il 20% dell’intera superficie territoriale nazionale, mentre le stime aggregate dall’ultimo censimento forniscono un numero di quantità di stanze vuote superiore ai 25 milioni, di cui circa un quinto localizzato nelle grandi città, e quasi altrettanto nelle villettopoli costiere e turistiche.

Tale sfracello di produzione edilizia se, paradossalmente, non risolve la domanda abitativa sociale – essendo determinata e dominata dai cicli della rendita speculativa, urbana e soprattutto finanziaria – ha prodotto ingenti quote di «urbanizzato contemporaneo abbandonato»; conseguente alla dismissione recente di attività produttive, industriali e agricole, commerciali, di servizio, o residenziali. O semplicemente, è stata dovuta dalla velleità di realizzare macrostrutture – infrastrutture, attrezzature – tanto gratificanti per il consenso suscitato dal loro annuncio, quanto spesso inutili e ingestibili per il contesto in cui si calavano.

Agli edifici storici abbandonati, di cui all’apertura, si è aggiunta così una quota ingentissima di cementificazione dismessa di recente. Il Wwf, con le sue migliori competenze tecnico-scientifiche, insieme ad una decine di sedi universitarie nazionali, sta realizzando una ricerca in tutte le regioni del paese su caratteristiche e potenzialità delle aree abbandonate, storiche e recenti, e sulle loro prospettive in termini di riutilizzo ambientale e sociale. Oggi e domani presso l’aula magna dell’Università Roma Tre, nel complesso, appunto recuperato, dell’ex Mattatoio – verrà presentato il primo rapporto della ricerca.

Sono state censite circa 600 aree, corrispondenti ad altrettante «situazioni territoriali» (individuate anche perché rappresentative di categorie più vaste), in tutte le regioni italiane, suddividendole per caratteri tipologici e funzionali e per contestualizzazioni funzionali; in modo tale da prefigurare per ciascuna di esse non solo un progetto di recupero – pure importante di per sé -, ma la costituzione di «elementi forti» per strutturare e sostanziare processi di blocco di consumo di suolo e deterritorializzazione negli ambiti interessati.

Le categorie tipologiche individuate vanno dai manufatti storico-culturali in abbandono, anche se talora già vincolati per la tutela, alle aree archeologiche abbandonate, alle architetture di prestigio, alle infrastrutture dismesse o mai completate, alle fortificazioni militari, alle aree industriali in disuso, a macrostrutture realizzate e mai utilizzate o ingestibili, a spazi aperti da rinaturalizzare nella città consolidata, a vastissime porzioni di patrimonio residenziale da recuperare.

Le situazioni urbane e territoriali interessate nelle diverse regioni sono molteplici: da interi comparti interni alla città storica e consolidata, a mancate recenti «nuove centralità» che dovevano segnare le ex periferie, alla campagna urbanizzata da riqualificare, a molte aree costiere o collinari, o di elevata suscettività paesaggistica cui riattribuire senso ecologico tramite blocco della nuova cementificazione e strategie di restauro ambientale; utile anche per il riuso delle aree non solo industriali dismesse.

Il riutilizzo sociale e paesaggistico dei luoghi e degli intorni interessati presuppone anche la capacità di leggere i contesti, oltre i singoli siti: su questo spesso sono di ausilio i piani paesaggistici recenti – i cui progetti di riqualificazione ambientale vanno assumendo sempre più spesso i profili guida di prossime economie verdi territorializzate dei territori coinvolti- che, per dettato strategico-normativo, analizzano gli spazi regionali per ambiti locali e comprensoriali e spesso ne prospettano «scenari di tutela, riqualificazione e valorizzazione sostenibile», non solo ecoterritoriale, ma socio-culturale. In questo quadro, i cluster spaziali individuati dalla ricerca per il riuso possono giocare ruoli decisivi.

Il Report tocca anche un’altra questione sostanziale: chi può mettere in pratica queste «interessanti politiche» in un momento di profonda crisi della «Politica»? la ricerca recupera il concetto di «Laboratorio Territoriale», coordinamento di abitanti, ambientalisti, difensori del territorio, istanze di restauro civile e costituzionale, già presenti in alcune esperienze di difesa e recupero del territorio recenti, come le Reti del «Nuovo Municipio» o dei «Comuni Solidali», e mira a ricontestualizzarli sui paesaggi, anche sociali, individuati.

Il rapporto Riutilizziamo l’Italia è scaricabile anche direttamente da QUI

 

Vi ricordate di Bagnaia?

Bagnaia

Ecco i primi risultati del progetto

Vi ricordate di Bagnaia, uno dei casi sui quali la Rete dei Comitati ha richiamato l’attenzione fin dal 2008: dove l’intreccio di interessi fra privati (Monti Riffeser) e amministratori pubblici (al tempo di Riccardo Conti) aveva prodotto un mostruoso piano di espansione turistica sostenuto perfino da un Protocollo d’intesa istituzionale, che impegnava i tre Comuni coinvolti, la Provincia di Siena e la Regione stessa a fare tutto il possibile per facilitarne la realizzazione. L’argomento decisivo fu che non si trattava di speculazione privata, perché quelle lottizzazioni che si vogliono realizzare a Bagnaia non sono residenze più o meno mascherate, che diamine, ma fanno parte di un progetto di Comunità turistica, per il quale tutte le istituzioni interessate manifestano un genuino “interesse pubblico”.

Ma le previsioni intanto cambiavano: le stanze d’albergo, oltre a rimanere vuote, non si vendono: meglio costruire villette magari in stile toscano, camuffate da Residenze Turistico-Alberghiere. I Comuni di Sovicille e di Monteroni hanno provato in qualche modo a resistere (per ora) alla concessione dei volumi completamente nuovi, mentre quello di Murlo ha autorizzato le costruzioni che si vedono nella fotografia, proprio accantoal nucleo principale con la villa-fattoria di Bagnaia (ribattezzata “borgo la Bagnaia”, schifezza anche linguistica).

Chi vuole ricostruire l’intera vicenda, può rileggersi quanto scrivevamo nel dossier della Rete (Il caso di Bagnaia). Ma di fronte alla foto che vediamo qui, non resta che fare una considerazione: una volta i signori si sapevano circondare dai paesaggi più godibili, che poi si potevano godere soltanto loro. Questi di oggi, invece, sembra che pur di guadagnarci sopra sono disposti a sacrificare anche lo scenario della propria esistenza, o di quella di chi frequenta il loro Centro congressi. Non c’è che dire: la porcata se la sono fatta proprio addosso!