Dibattito sul Consumo di suolo

 

nonameROMA, 19 GIUGNO 2013. COMUNICATO STAMPA

 

Si è svolto il 18 Giugno 2013 il Dibattito “Consumo di suolo: a un passo dal baratro” , sulle proposte di legge sul contenimento del consumo di suolo, a cui hanno partecipato Paolo Berdini, Roberto Della Seta, Vezio De Lucia, Massimo De Rosa, Domenico Finiguerra, Stefano Lenzi, Paolo Maddalena, Domenico Cecchini, Edoardo Zanchini e il moderatore Giuseppe Pullara del Corriere della Sera.

 

Il confronto, organizzato dalla “Conferenza Urbanistica Partecipata”, promossa dalle Reti, dai Comitati,dalle Associazioni e dai Forum, ha raccolto un’ampia e qualificata adesione di cittadini. Più di duecento persone hanno gremito la sala della Casa dell’Architettura per seguire l’acceso dibattito sulla questione della difesa del territorio da ulteriori colate di cemento. La discussione continuerà nel merito, a partire dal nuovo DDL presentato dal Governo il 15 giugno scorso su proposta dei Ministri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Nunzia De Girolamo, per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Andrea Orlando, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, che si aggiunge alle proposte di legge Realacci, Movimento 5 Stelle e a quelle di altri partiti, associazioni e gruppi.

 

Le realtà sociali unite nella “Conferenza Urbanistica Partecipata” seguiranno gli sviluppi delle proposte di legge e continueranno il loro percorso per allargare la consapevolezza delle grandi questioni che riguardano la tutela del territorio, facendole uscire dalle stanze degli addetti ai lavori per coinvolgere tutti i cittadini. Solo così si possono creare le condizioni culturali per fare attecchire le radici di leggi che possono avere ricadute positive sul dramma che stanno vivendo le città ed i territori non urbanizzati.

 

La Conferenza Urbanistica Partecipata intende inoltre indirizzare l’azione della nuova Giunta comunale verso una moratoria e una revisione del Piano Regolatore Generale di Roma, per una Variante Generale di Salvaguardia promossa e discussa insieme alle comunità locali, quadrante per quadrante, della nostra bella, ma martoriata metropoli romana.

 

C.A.L.M.A., Carteinregola, Cittadinanzattiva Lazio Onlus, Consiglio Metropolitano di Roma, Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio, No a Roma Capitale del cemento

 

L’anello mancante

Anello-mancante-ISG-12di Alberto Asor Rosa, Il manifesto, 18 giugno 2013.

E ora? Ora mi pare che le cose siano andate esattamente nel senso enunciato e previsto dal “piano”. Non parlo neanche, almeno non prevalentemente, del “governo delle larghe intese”. Mi limito da questo punto di vista a esprimere l’opinione, di carattere generalissimo, secondo cui non esiste, non è mai esistito, un governo al di sopra delle parti: un governo è sempre di parte; è per qualcuno, contro qualcuno. Da questo punto di vista è di solare evidenza che questo governo si muove prevalentemente nel solco di parole d’ordine enunciate in passato, e oggi ripetute e rivendicate con strafottenza sempre maggiore, dal cosiddetto centro-destra (italiano, s’intende): e questo sia dal punto di vista politico-istituzionale sia dal punto di vista delle misure economiche.

All’interno di questo quadro è lampante, per fare un solo esempio, la preminenza della deriva presidenzialista (o semipresidenzialista: la differenza non è chiara nemmeno a tutti quelli che disinvoltamente ne cianciano; in un libro di qualche anno fa, La quinta repubblica da De Gaulle a Sarkozy, 2009, Umberto Coldagelli ha messo in luce con rara efficacia gli innumerevoli equivoci su cui si fonda l’idoleggiamento del presunto modello francese). L’abbandono dell’ipotesi, enunciata nel programma elettorale del centro-sinistra e del Pd, dell’eventuale miglioramento e perfezionamento del sistema politico-istituzionale in favore, invece, di una sua radicale riforma (o stravolgimento), fa del “governo delle larghe intese”, se va avanti così, un punto di non ritorno nella dinamica politica italiana. O non doveva anch’esso, come il “governo tecnico”, essere un governo di breve durata, inteso ad affrontare i nodi più critici, soprattutto economici, dell’emergenza? Si delinea invece come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 a oggi.

La natura cogente del “governo delle larghe intese”, – quella predisposizione a cambiare in profondità il sistema della rappresentanza in Italia, predisposizione che, ad esempio, non era né poteva essere di “governo tecnico”, – risulta dal fatto che, sempre più chiaramente, si va formando al centro, fra governo e partiti, una nuova e inedita articolazione, più visibile e percepibile da un punto di vista ideologico e culturale che strettamente politico, la quale vede uomini del centro-sinistra e uomini del centro-destra solidamente affiancati allo scopo di procedere a lungo (ripeto: a lungo) verso questa medesima, comune direzione. Il “governo delle larghe intese” potrebbe diventare, a quel che si sente e si vede, l’incubatore, se non di una nuova formazione politica, di una comune cultura politica, destinata a determinare anche in futuro l’orientamento di ambedue le formazioni.

Potrebbe cioè orientare il centro-destra a liberarsi progressivamente dell’ossessiva subalternità al Padre Padrone? Può darsi (e questo potrebbe essere uno degli obiettivi reconditi del “piano”). Quel che è certo è che lo sviluppo di tale tendenza renderebbe ancor più irreversibile lo svuotamento politico e sociale del centro-sinistra e del Pd, cui il “grande piano”, messo in opera pazientemente e intelligentemente nella fase di costruzione del “governo delle larghe intese”, aveva dato l’avvio.

Ma non è questo il punto, per lo meno non quello decisivo. Il punto decisivo è se e come il Pd riuscirà a uscire dalla morsa in cui è stato gettato e si è gettato. Dico subito che non condivido le danze macabre che qualcuno, molto sollecitamente, ha iniziato, e con grande entusiasmo, intorno al suo presunto cadavere. Se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio. Dunque, finché non è perduto, bisognerà sforzarsi di evitare che lo diventi.

Certo, detto questo, il quadro è desolante. Il risultato soddisfacente delle elezioni amministrative dimostra soltanto che, risalendo talvolta a fatica lo tsunami dell’astensionismo, il Pd gode ancora, nonostante tutto, e il centro-sinistra con lui, di un elettorato di appartenenza, che ne cede anch’esso qualcosa all’astensionismo, ma meno, talvolta molto meno, di altri. Ma il dato impressionante è l’incremento esponenziale dell’astensionismo, frutto di una crisi di sfiducia nei confronti di tutto il sistema, a cui sarebbe vano pensare che il risultato elettorale amministrativo del centro-sinistra come il frutto della politica delle “larghe intese”. Questo risultato va letto invece, esattamente come una smentita alla linea della “normalizzazione”, che è stata dominante nei mesi passati. Da qui, se mai, deve ripartire una nuova riflessione su natura e destino del Pd e conseguentemente del centro-sinistra (inteso come motore dell’intero processo).

Il documento Barca enuncia una serie di procedure utilissime a invertire la tendenza: va seguito con attenzione questo tentativo. Da parte mia enuncerei una serie di punti e di modi, – non temo smentite, nel senso più assoluto del termine, – nessuno parla dentro questo partito; e pochi fuori.

1) Do per scontato che debba esserci un “partito”, organizzato democraticamente, e non grillinamente (o berlusconiamente) liquido. Ma: chi rappresenta questo partito? Quali interessi difende e tutela (al di là o al di sopra di quell'”interesse nazionale”, che è da sempre il simulacro appariscente di un qualche “interesse particolare”)?

Come si fa a non tentare neanche di rispondere a questa domanda? Ciò che non avviene più da anni, forse da decenni (Una ricostruzione storica dovrebbe risalire a l’89, o giù di lì). E in tempo di crisi, oggi, l’assenza di questa risposta tende a diventare drammatica. L’antipolitica non è il frutto di una generica condanna di comportamenti politici genericamente intesi: è il frutto della totale assenza di corrispondenza fra interessi e rappresentanza. Se questa corrispondenza esistesse e fosse praticata con assoluta chiarezza, deputati e senatori potrebbero persino aumentarsi gli stipendi, e nessuno troverebbe qualcosa da ridire.

2) È sempre più intollerabile l’assoluta autoreferenzialità di questo partito com’è e delle sue interne discussioni. Mai uno sguardo che si volga all’esterno delle stanze segrete del potere. L’Italia è piena di movimenti, comitati, centri di azione e di elaborazione, critica e proposta. Nulla che assomigli neanche da lontano agli scambi estremamente vitali di una volta: si pensi ad esempio, a Enrico Berlinguer e alle sue iniziative di consultazione di massa fuori dal partito. Altri tempi? Sì, ma dov’è allora oggi la diversità? Forse nel fatto che il partito si è supinamente adeguato alla civiltà dello spettacolo e della finzione? Le battaglie per il carattere pubblico dell’acqua, per i beni comuni, per nuove forme di partecipazione popolare, si arrestano, ignorate, alle soglie della macchina partitica. L’osmosi si è disastrosamente interrotta. Altro che “Italia bene comune”! Parola d’ordine vuota, se non riempita da diecimila contenuti.

3) E il lavoro? Possibile che nessuno noti, e faccia notare, che fra le tante anomalie italiane c’è anche l’assenza di un Partito socialista (salvo alcuni residui marginali)? Ora lasciamo stare, per amore di brevità e di chiarezza, la vecchia diatriba sulle etichette. Ma com’è possibile che la rinuncia all’etichetta abbia portato a questa colossale rinuncia alla rappresentanza dei ceti sociali legati alla produzione e del lavoro, e più necessariamente soggetti alla loro crisi, la quale in questo momento è il fattore discriminante per il destino del paese Italia? Se il Pd non assumerà di nuovo con chiarezza tale rappresentanza, non compirà il passaggio che può garantire non la stentata sopravvivenza ma una ripresa in grande nel sociale, e dunque (dico io) nel paese.

4) Esiste o no una “questione morale” in questo paese? Una “questione morale”, che riguarda singoli soggetti, gruppi organizzati e pezzi interi del sistema, e invade sempre più spesso le istituzioni, la politica e persino il senso comune? C’è un silenzio impressionante su tutta questa sfera dell’agire pubblico, che fa da sgabello alle operazioni più spregiudicate. Dalla risposta a questa domanda dipende una parte importante, anzi decisiva, dell’essere organizzazione politica di un certo tipo e non di un altro. Può un partito come il Pd non disseppellire la “questione morale” e farne la propria bandiera?

5) Il Pd vive meglio, è meglio, in periferia che al centro. Non penso agli scout toscani: penso alle scelte amministrative, spesso fuori del controllo degli apparati, di città come Milano, Genova, Cagliari, oggi Roma, e con Roma la Regione Lazio. Metodologie di scelta degli apparati e dei candidati di tale natura andrebbero adottate anche a livello nazionale. Primarie generalizzate? Non solo, e non tanto: ma la verifica delle scelte, ogni qualvolta se ne fa una importante, in un quadro di trasformazione permanente. Un partito perpetuamente trasformativo, non fossilizzato.

6) Non c’è nuova politica in Italia se non c’è una nuova Europa in Europa: tutto quello che ho detto finora va proiettato su questo sfondo. Finora l’Europa è un insieme di vincoli elaborati e gestiti dall’oligarchia di Bruxelles. O si esce da questo ambito, recuperando capacità e possibilità di sviluppo diverse rispetto al presente, oppure dobbiamo rassegnarci a un futuro e a un ruolo di quarto o quinto grado. Qui si vede bene come l’interesse particolare (il lavoro, la partecipazione, la cittadinanza) è condizione, non remora o impedimento, dell’interesse generale (il bene del paese).

Ora, la domanda con cui concludere il discorso è: serve ancora in epoca post-moderna riflettere sulle coordinate generali dell’azione politica oppure no? Se si risponde no, l’azione politica sarà ridotta, come sempre più lo è, a gesto, improvvisazioni, spettacolo, battuta, gioco di potere, gutturale richiamo della foresta e, soprattutto, agli interessi personali e di carriera da difendere: in tal caso non ci interessa più, la lasciamo volentieri agli altri, a tutti coloro cui Mitridate ha insegnato bene la lezione. Se sì, bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare. Infatti, mettere insieme tutte queste cose (e altre, naturalmente) – l’organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro, l’osmosi fuori-dentro, il rapporto centro-periferia, un nuovo europeismo, – significa costruire un “progetto”. Ce l’ha un “progetto” il Pd? No, non ce l’ha; o se ce l’ha, nessuno finora se n’è accorto.

Bene, il “progetto” è l’anello mancante, che serve a tenere insieme critica e moralità, azione politica e partecipazione, consenso e dissenso, proposte concrete e futuro lontano possibile. Daremo fiducia a quel gruppo dirigente che ci metterà sotto gli occhi l’anello mancante. Se nessuno farà vedere l’anello mancante, non daremo fiducia.

 
NB: l’illustrazione de l’anello mancante, piuttosto curiosa, è tratta da: http://www.trattidimare.it/filippo-sassoli/. Si ringrazia l’autore per l’involontaria collaborazione.

L’Ilva toscana si chiama Solvay

Il più noto produttore di bicarbonato al mondo è indagato per scarichi abusivi: Solvay, a cui non sono mancate le certificazioni per l’impegno ambientale, ha disperso tonnellate di chimica e mercurio in mare e sulle spiagge. La domanda che rimbalza da Taranto a Livorno, passando per molti altre città, è: come possono i cittadini dare senso agli articoli della Costituzione che parlano esplicitamente di «utilità sociale» della proprietà privata e di possibile esproprio quali strumenti di resistenza al dominio del profitto?

di Alberto Zoratti, su comune-info.net.

Sembra di essere tornati nell’Ottocento. O forse no, non è questione di epoche, ma di chilometri. Sono quelli che separano quei luoghi che cercano per quanto possibile di tutelare ambiente e persone dall’invadenza del profitto e quei Paesi, condannati dallo sviluppo a rimanere la sentina della storia, che per attirare investimenti e produzioni venderebbero anche l’anima al diavolo, trasformandola in zona franca dove la tutela ambientale e sociale diventano variabili dipendenti dalla fame di profitto di aziende. E le sentine, come i capitali, non sono fisse ma molto mobili e dipendono dalle condizioni storiche in cui si trova un Paese e se di zone franche si parla per il Pireo, il nostro Paese, certamente più solido della Grecia, può avere altre armi per rimanere “competitivo” sui mercati degli investimenti diretti esteri.

Ad esempio attraverso politiche accomodanti o poco assertive verso chi si distrae sugli obblighi sociali od ambientali. “Sbagliato”, “sproporzionato” sono gli aggettivi che il presidente di Federacciai Antonio Gozzi ha riservato sulle agenzie al commissariamento dell’Ilva. Perché creerebbe “un pericolosissimo precedente” per “tutta la media e grande impresa nazionale”. Dopotutto la questione andrebbe affrontata “con il necessario e doveroso equilibrio istituzionale e senza una così palese violazione dei diritti della libera impresa”. Già, la libera impresa e la proprietà privata. Ampiamente citate persino in Costituzione, soprattutto all’articolo 41, dove si sottolinea come la libera impresa non possa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. O l’articolo 43 che ricorda come per preservare l’utilità generale è possibile l’esproprio di determinate imprese o categorie di imprese “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

Un precedente pericoloso

Che l’attività dell’Ilva abbia recato danno alla sicurezza pare sia dimostrato da tonnellate di documenti e da un’Autorizzazione Integrata Ambientale spinta dall’ex ministro Clini che seguita non proprio pedestremente dai vertici aziendali. Parlare però di esproprio è, purtroppo, fuori luogo. Perché di commissariamento si tratta, per giunta affidato all’ex Commissario Bondi (persona di fiducia degli stessi Riva) con la chiara clausola che dopo 36 mesi di risanamento (a spese di chi? Solo dell’azienda?) la proprietà rimarrà saldamente nelle mani della famiglia Riva.

E allora, di cosa parliamo? Di un pericoloso precedente, certamente sì. Ma per le ragioni opposte a quelle sostenute da Federacciai. Una comunità che non riesce a mettere limiti all’invadenza dell’impresa e della proprietà privata si mette su un crinale molto pericoloso che parla di deroghe su deroghe e di una qualità della vita, del lavoro e dell’ambiente costantemente a rischio sotto la spada di Damocle di un capitale salterino. Basterebbe dare un’occhiata al notiziario del nostro ministero degli esteri, datato ottobre 2012, per capire cosa significa per il sistema Italia attirare investimenti produttivi: “Il gruppo (formato tra gli altri dalla Cassa depositi e prestiti e da Confindustria) dovrà contribuire a individuare gli ostacoli alla realizzazione di investimenti esteri in Italia e le azioni nonché le priorità di intervento per la rimozione degli stessi”, concentrandosi sui “problemi di natura amministrativa o di controllo giudiziario che ostacolano la realizzazione di investimenti esteri in Italia”. Si pensava che il maggiore ostacolo oltre alla burocrazia fosse il controllo mafioso, non certo quello giudiziario.

Gli imprenditori chiedono che l’azione sull’Ilva si riferisca solo allo stabilimento tarantino, non in modo generale a tutto il mondo dell’impresa. Anche se il testo recita che il commissariamento (e purtroppo non parliamo di esproprio) è possibile per un’impresa “la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza dell’autorizzazione integrata ambientale”. Leggendo le reazioni del mondo imprenditoriale viene da chiedersi se queste preoccupazioni siano dettate dall’ipotesi che ci siano altre Ilva in giro per l’Italia che abbiano comportato o comportino “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute”.

Livorno

Forse basterebbe spostare il cursore di Google Mappe passando dalla Puglia alla Toscana e specificamente a Rosignano, sede della Solvay, il più famoso produttore di bicarbonato (e di spiagge bianche) al mondo. La Procura di Livorno ha iscritto nell’albo degli indagati la direttrice uscente Michele Huart e quattro ingegneri ambientali per scarichi abusivi. L’azienda avrebbe collegato abusivamente alla fognatura gli scarichi di fanghi industriali in quattro punti diversi, per aggirare le rilevazioni dell’Arpat sugli scarichi a valle che, di conseguenza, sarebbero rientrati nei limiti di legge perché annacquati per diluirne la concentrazione. E se si pensa che un’interrogazione parlamentare del settembre 2010 faceva riferimento ad oltre 400 tonnellate di mercurio presenti in mare, dimostra quanto sia alta la sensibilità ambientale di parte del Gotha dell’imprenditoria moderna.

Eppure, a livello comunicativo, ce la mettono tutta: “Le società del Gruppo Solvay presenti nello stabilimento di Rosignano e nei Cantieri di S. Carlo e Ponteginori, in coerenza con i Valori del Gruppo e con l’adesione al Programma Responsible Care, intendono sviluppare il proprio impegno per il miglioramento continuo nella tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori per la prevenzione degli incidenti, degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, per la protezione ambientale e per la prevenzione dell’inquinamento”. Concetti e filosofie che ricordano molto quelle dell’Ilva di Taranto: “Lo stabilimento, consapevole dell’impatto ambientale delle proprie attività, si è dotato di un sistema di gestione ambientale in conformità ai requisiti previsti dalla norma UNI EN ISO 14001, norma per la quale ha ottenuto, nel 2004, la certificazione da parte di un accreditato ente esterno di certificazione”.

Con buona pace di parole come “ambiente”, “certificazione”, “gestione ambientale” e “sicurezza”. Parole vuote ma molto utili per confondere le carte. Come quella parola, “commissariamento”, che sostituisce in modo chiaro e inequivocabile l’unico concetto possibile: “l’esproprio”.

Ermete Relacci

Lupi + Realacci = Lupacci.

Per chi avesse ancora dei dubbi, Paolo Berdini ci propone questo confronto puntuale fra il testo della legge Lupi (2008) e quello presentato due mesi fa a firma Realacci ed altri.

Dalla legge Lupi alla legge Lupacci

di Paolo Berdini

La legge Lupi fu presentata il 29 aprile 2008 parla di “Principi fondamentali per il governo del territorio”. La legge Realacci è stata presentata il 15 marzo 2013 e contiene “Norme per il contenimento dell’uso del suolo e la rigenerazione urbana”.

La seconda, dal titolo della rubrica e dalla biografia del presentatore, sembrerebbe trattare temi differenti dalla famigerata Lupi. Invece no. Identici sono i pilastri culturali (diritti edificatori; incrementalità e premialità; perequazione). Identici sono gli obiettivo di distruggere definitivamente la concezione pubblica della pianificazione urbanistica. Addirittura, la legge Realacci peggiora il quadro normativo della Lupi. Se questa infatti citava ampiamente il concetto di diritto edificatorio (come noto inesistente nella legislazione italiana) il progetto di legge Realacci lo stabilisce solennemente, dedicandogli un apposito articolo, il 7.

Tra la presentazione delle due leggi sono passati cinque anni, In questo periodo di tempo è emerso in tutta la sua chiarezza il fallimento della concezione privatistica e derogatoria dell’urbanistica italiana. Deroga su deroga si è costruito dovunque anche in spregio dei vincoli paesaggistici mentre tutte le amministrazioni comunali si sono indebitate oltre misura, rischiando in molti casi il fallimento. Nonostante questo evidente fallimento, Realacci ripresenta a distanza di cinque anni gli stessi strumenti che hanno portato al collasso le città italiane. Di seguito riportiamo le formulazioni esattamente identiche contenute nei due provvedimenti legislativi (in corsivo la Lupi e in neretto la Realacci) a dimostrazione che sono state scritte dalla stessa mano. C’è dunque un evidente sintonia tra il Pd (o una parte di esso) e il Pdl: l’obiettivo è sempre lo stesso, quello di cancellare il governo pubblico del territorio.

DIRITTI EDIFICATORI E LORO COMMERCIABILITÀ

Art. 9, comma 3. La perequazione si realizza con l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari ricomprese in determinati ambiti territoriali, in percentuale dell’estensione o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso. I diritti edificatori sono trasferibili e liberamente commerciabili negli ambiti territoriali e tra di essi.

Art. 7, comma 1. I diritti edificatori di cui all’articolo 2643, numero 2-bis) del codice civile, generati dalla perequazione urbanistica, dalle compensazioni o dalle incentivazioni previste negli strumenti urbanistici dei comuni, afferiscono a proprietà immobiliari catastalmente individuate. Essi possono essere oggetto di libero trasferimento fra le proprietà immobiliari.

INCREMENTALITA’ E PREMIALITÀ DEI DIRITTI EDIFICATORI

Art. 9, comma 4. Anche allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, le regioni possono prevedere incentivi consistenti nella incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici vigenti.

Art. 6, comma 4. Possono essere previste ulteriori forme di compensazione e l’attribuzione di premialità con il trasferimento di edificabilità per gli interventi di rigenerazione urbana (…..)

Art. 3, comma 3. Per favorire gli investimenti negli ambiti di rigenerazione urbana i comuni possono (…) prevedere, in base alle leggi regionali, compensazioni e incentivazioni attraverso l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari pubbliche e private.

PEREQUAZIONE URBANISTICA

Art. 9, comma 2. Il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi secondo criteri e modalità stabilite dalla regioni

Art. 4, comma 1. Gli strumenti urbanistici possono perseguire la perequazione urbanistica, ovvero il pari trattamento delle proprietà di beni immobili che si trovano in analoghe condizioni di fatto e di diritto, da realizzare attraverso l’equa distribuzione, tra le proprietà immobiliari, dei diritti edificatori che essi attribuiscono e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali, compresa la cessione gratuita delle aree necessarie all’attuazione degli obiettivi del piano.

ACQUISIZIONE DELLE AREE PER PUBBLICI SERVIZI

Art. 9, comma 5. Nella ipotesi di vincoli di destinazione pubblica, anche sopravvenuti, su terreni non ricompresi negli ambiti oggetto di attuazione perequativa, in alternativa all’indennizzo monetario previsto per la procedura di espropriazione, il proprietario interessato può chiedere il trasferimento dei diritti edificatori di pertinenza dell’area su altra area di sua disponibilità, la permuta dell’area con area di proprietà dell’ente di pianificazione, con gli eventuali conguagli, ovvero la realizzazione diretta degli interventi di interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione dei servizi.

Art. 6, comma 1. Gli strumenti urbanistici possono definire misure volte a compensare i proprietari di beni immobili che il comune intende acquisire gratuitamente per la realizzazione delle dotazioni territoriali e per gli interventi di edilizia residenziale sociale, a incentivare i proprietari di manufatti da trasformare, recuperare o demolire in attuazione delle loro previsioni. Tali misure consistono nell’attribuzione alle aree interessate di quote di edificabilità da utilizzare in loco secondo le disposizioni degli strumenti urbanistici, ovvero da trasferire in altre aree edificabili, previo accordo per la cessione delle aree stesse al comune.

PEREQUAZIONE INTERCOMUNALE

Art. 9, comma 7. Le leggi regionali disciplinano forme di perequazione intercomunale, quali modalità di compensazione e riequilibrio delle differenti opportunità riconosciute alle diverse realtà locali e degli oneri ambientali su queste gravanti.

Art. 4, comma 4 La perequazione territoriale è la modalità con la quale sono istituiti le politiche e gli interventi di interesse sovra comunale al fine di garantire un’equa ripartizione tra i vari comuni interessati dei vantaggi e degli oneri che essi comportano.

DOTAZIONI TERRITORIALI

Art. 7, comma 1. Nei piani urbanistici deve essere garantita la dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici e di interesse pubblico o generale, anche attraverso la prestazione concreta del servizio non connessa ad aree e ad immobili. L’entità dell’offerta di servizi è misurata in base a criteri prestazionali, con l’obiettivo di garantire comunque il livello minimo anche con il concorso dei soggetti privati.

Art. 4, comma 3. Le aree cedute gratuitamente attraverso al perequazione urbanistica sono destinate all’attuazione degli standard urbanistici e delle dotazioni territoriali definiti dalle leggi regionali, nonché dalla realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale.

Questo è lo stato delle cose. Un accordo scellerato alle spalle degli interessi comuni. Un patto scellerato che può contare oggi, a differenza di cinque anni fa, della promozione a ministro delle infrastrutture di Maurizio Lupi e della presenza come viceministro del medesimo ministero di De Luca, noto amico del cemento. Una ragione in più per formulare una proposta legislativa sul blocco del consumo di suolo culturalmente alternativa, sperando che anche all’interno di Legambiente vengano fuori i dissensi verso la legge Realacci.

cemento