Chi è Matteo Renzi e perché ci perseguita?

fotoRenzusconidi PAOLO BALDESCHI, da Eddyburg, 07 Agosto 2013.

Matteo Renzi, battuto da Bersani come candidato premier, si ripresenta come unico candidato in grado di portare il Pd alla vittoria nelle prossime elezioni. Autorevoli opinionisti, inizialmente ostili, hanno cambiato idea e lo vedono ora come l’estrema possibilità di salvezza di un partito lacerato e perdente: Matteo Renzi, in grado di recuperare voti sul fronte moderato e in effetti assai più gradito agli elettori di destra che di sinistra; una candidatura a premier – in stile Pdl – fatta sul personaggio e non sulla politica. Questa è appunto la domanda: quale è la politica di Matteo Renzi, ovverosia quali sono i valori e gli obiettivi che propone al paese? Domanda cui non è facile dare risposta, data l’evasività di Renzi su questo punto e dato il fatto che il suo programma per le primarie è collocato su un piano quasi esclusivamente efficientista, fatto di ricette come ‘snellire’, ‘semplificare’, ‘ridurre la burocrazia’, e simili.

Tuttavia, spesso ci si dimentica che Renzi è da quattro anni Sindaco di Firenze e che i suoi valori, la sua politica, possono essere valutati su quanto ha fatto o non ha fatto per la città. Ricordiamo solo quattro casi significativi: l’approvazione del Piano Strutturale, la pedonalizzazione di piazza del Duomo e dintorni, l’avviso pubblico affinché che le nuove destinazioni del Regolamento Urbanistico siano proposte dai privati piuttosto che dall’amministrazione, la previsione di parcheggi sotterranei nelle piazze del centro storico, costruiti e gestiti in project financing. Queste operazioni ci raccontano molto di Renzi: la pedonalizzazione dell’area centralissima di Firenze (di per sé una buona idea) è avvenuta senza alcuna considerazione su cosa sarebbe accaduto in altre parti di città, ora ancora più invivibili per il traffico ed è contraddittoria con la scelta sciagurata di portare e radicare nuove macchine nelle piazze medievali.

Il piano strutturale, falsamente dichiarato a volumi zero, ha gli stessi difetti di quello del Sindaco Domenici, non adottato. Viceversa, in questi anni si è ancor più rafforzato l’appiattimento dell’economia fiorentina sulla ‘rendita medicea’. Il centro – pedonalizzato e non – è ormai un osceno suk (sia detto senza offesa per i suk) in cui si vende ogni genere di paccottiglia e il Comune stesso è entrato da protagonista nel mercato, offrendo l’uso dello spazio pubblico al migliore offerente. Il filo che unisce questi provvedimenti è l’idea che la progettualità privata si identifichi con l’efficienza, anche quando è fatta da iniziative individuali scollegate e senza un disegno complessivo.

Ed è proprio questo ciò che manca alla politica del Sindaco Renzi: una visione complessiva dei problemi, un’idea strategica di città fatta di scelte coraggiose, innanzitutto a favore dei residenti – cittadini stanziali o provvisori. Analogamente a livello nazionale: Renzi piace per la battuta pronta, perché spicca fra le cariatidi politiche e pare che faccia breccia anche nelle elettrici. E’ furbo, perché approfitta dell’orribile governo delle larghe intese per presentarsi strumentalmente come campione dell’antiberlusconismo. A giudicare dalla performance di Sindaco e dalle dichiarazioni, la sua politica da premier si baserà su efficienza, liberalizzazioni e privatizzazioni. L’unica speranza sarebbe se mantenesse fede alla promessa (nel programma delle primarie) di rivedere alcune grandi opere, inutili e costose, a favore di quelle piccole e diffuse sul territorio. L’abbandono della Tav in Val di Susa e delle tante autostrade in progettazione, ma in generale di scelte infrastrutturali e urbanistiche fatte per mettere al sicuro i finanziamenti degli istituti di credito, la rottura del cartello banche-grandi imprese-cooperative-mondo politico-casta, questa sì che sarebbe una svolta a sinistra. Dubitiamo però che raccoglierebbe gli stessi consensi dagli opinionisti che stravedono per Renzi: in grado di riavviare il sistema, quello attuale, non di proporne uno diverso.

Le case mobili diventano immobili

imagesdi EMANUELE MONTINI su Eddyburg, 01 Agosto 2013.

Un’altra perla nella collana di nequizie costituito dal decreto (dis)FARE. Mentre predicano la tutela dell’ambiente e del paesaggio e la lotta contro il consumo di suolo permettono ciò che nessun governo di destra aveva permesso. Ci sarà un senatore a Palazzo Madama?

Con il nuovo decreto del Fare, in discussione in questi giorni al Senato, si potranno realizzare case mobili, anche in aree vincolate, senza permesso di costruire.

E’ paradossale che, in un momento nel quale praticamente tutte le forze politiche dichiarano che una delle priorità di queste Paese è quella dievitare l’indiscriminato consumo di territorio, il Governo e l’attuale maggioranza facciano a gara per massacrare le nostre coste e le zone d’Italia più suggestive.

Il tutto è avvenuto, come di solito succede, in un comma (4) nascosto dentro l’art. 41 del decreto legge c.d. “del fare”, dal rassicurante titolo”Disposizioni in materia ambientale”, salvo poi rivelarsi una disposizione devastante per l’ambiente stesso.

Il tema è presto detto: le case mobili o “mobil house” si potranno realizzare senza più la necessità del permesso di costruire. Questa disposizione non viene neanche integrata con disposizioni limitative in ordine alle dimensioni e ai materiali, cosicchè potremmo trovarci palazzine viola costruite a pochi metri dalla costa. Già perché, ed è qui una ulteriore assurdità di questa disposizione, queste case-palazzine mobili potranno essere realizzate all’interno delle strutture ricettive all’aperto (i campeggi, per intenderci) e ben sappiamo che i campeggi hanno la caratteristica di essere posizionati proprio nei punti più suggestivi del nostro Paese, lì dove la speculazione edilizia, fino ad ora, aveva avuto più difficoltà ad entrare. Questo grimaldello permette di mettere le mani su queste zone e di decretare la fine dei campeggi come li abbiamo sempre immaginati. Infatti quale sarà il gestore di campeggi che deciderà, avendone ora la possibilità, di dedicare alle tende le aree per la sosta anziché a dei suggestivi chalet dove alloggiare i propri clienti? Quale gestore non correrà subito a ordinare le sue casette prefabbricate nella prospettiva di affittarle a decine di euro al giorno contro la possibilità di fare qualche misero euro per l’utilizzo delle piazzole per tende?

Ed ecco l’obiettivo raggiunto: i campeggiatori si trasformeranno in fittavoli, i gestori si trasformeranno in albergatori e le nostre coste ed i campeggi si trasformeranno in piccole lottizzazioni.Se qualcuno ha cercato di difendere il provvedimento invocando il fatto che si tratterebbe di case-palazzine ma pur sempre mobili è stato smentito clamorosamente dalla modifica apportata in sede di conversione alla Camera, dalla maggioranza e dal Governo. Infatti una “manina” nella seduta notturna di commissione (Affari costituzionali e Bilancio) ha tolto la parola “posizionati” riferita a queste case prefabbricate, con la parola “installati”, tanto se a qualcuno fosse rimasto qualche dubbio sulla vera intenzione di questa disposizione.

A nulla sono valsi gli emendamenti soppressivi e gli ordini del giorno (n. 9/1248 AR/160 Basilio – M5S) tutti inesorabilmente respinti.Ora il provvedimento è al Senato fino alla fine di questa settimana e speriamo che sia corretto eliminando questa dannosa disposizione, è l’ultima occasione per evitare l’ennesimo sfregio al territorio del Paese e la fine di quella che viene definita “la filosofia del campeggio”, almeno in Italia.

 

 

Tutela del paesaggio.

531785_Punta_Mesco_3Quello che insegnano le Cinque Terre,

di MAURO AGNOLETTI, Corriere della Sera,  22 Luglio 2013.

La firma dell’accordo fra Parco delle 5 Terre, ministero dell’Ambiente, Regione Liguria, Fai e comunità locali per il restauro dei terrazzamenti di Punta Mesco è un passaggio importante nei rapporti fra conservazione della natura e del paesaggio, avvenendo a seguito del dibattito iniziato con le frane del 25 ottobre 2011, per il 90% originatesi su terrazzamenti abbandonati. Capire l’importanza e il perché dell’intervento di tante istituzioni, richiede alcune riflessioni sul degrado del paesaggio italiano. Se molti conoscono l’avanzata del cemento, con circa 8.000 ettari l’anno negli ultimi 20 anni, è poco percepito l’abbandono dell’agricoltura e la successiva riforestazione, pari a 75.000 ettari all’anno. In 100 anni abbiamo perso quasi 9 milioni di ettari di aree agricole e i boschi sono passati da 4 a 10,5 milioni di ettari.

Ma se vi è consenso sul limitare l’urbanizzazione, diverso è l’atteggiamento circa l’abbandono, visto spesso come un positivo ritorno alla natura. Questa idea ha origine in nord Europa e in nord America alla fine dell’800, regioni con estese aree naturali ritenute superiori ai paesaggi culturali delle nostre latitudini, ma che in questo trovano la loro forza del punto di vista economico, ambientale e sociale. La reazione al degrado ambientale dell’ultimo secolo ha portato non solo a normative contro l’inquinamento, ma anche a un’idea di natura che ha trasformato i valori che dal XV secolo sono stati associati al nostro paesaggio, apprezzato perché finemente coltivato, arrivando a ricerche che considerano l’abbandono dell’agricoltura un fenomeno positivo. Il nostro sistema dei vincoli ambientali e paesaggistici si è adeguato a questa visione proposta da culture più forti, realizzando strumenti utili a conservare e favorire il ritorno della natura e frenare la speculazione edilizia, ma non a conservare il paesaggio storico. La rete «Natura 2000» vincola come habitat naturali più del 20% della superficie nazionale.

Qui e nelle altre aree protette, secondo la legge 394 che le ha istituite, si limita la possibilità di restaurare il paesaggio, favorendo la naturalità che però nel nostro paese non esiste più almeno dal periodo romano. Secondo la Fao solo l’1% dei nostri boschi è naturale essendo anch’essi un prodotto storico. La nostra biodiversità è infatti soprattutto bioculturale, risultato dei rapporti fra natura e cultura. Un eccesso di naturalità in cui l’uomo è assente non rappresenta né i valori del nostro paese, né un buon biglietto da visita per il futuro, considerando anche la nostra notevole importazione di cibo, fra cui il 50% dei cereali, che contribuisce alla nostra impronta ecologica, di quattro volte superiore alla terra disponibile. Per la Fao dovremo produrre il 50% di cibo in più di qui al 2050 ma ogni italiano ha a disposizione solo 5.000 mq di terra, di cui meno di un terzo coltivati. Il ministero dell’Agricoltura ha preso in carico il paesaggio varando politiche per la sua conservazione e valorizzazione, istituendo un inventario nazionale dei paesaggi storici e delle buone pratiche agricole e autorizzando il recupero produttivo di paesaggi storici, anche se coperti dalla vegetazione.

Ugualmente, fondazioni come Fai, Benetton, Florens, hanno capito che è urgente un’opera di restauro. Valorizzare il paesaggio vuol dire favorire una buona agricoltura e selvicoltura, non un’inutile competizione con Alaska e Scandinavia su fauna o foreste, come affermato in un incontro alla Camera sul turismo. Mettere insieme tutte le istituzioni interessate, come nelle Cinque Terre, significa tentare di fare sistema per valorizzare una risorsa notevole per la competitività del nostro paese e la nostra identità culturale.