Apuane: penultimo atto

nocaveeambientalistiNUOVA MAGGIORANZA NELLA REGIONE TOSCANA?

di Paolo Baldeschi, da Eddyburg, 28 giugno.

Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione, sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe la sparizione di uno straordinario monumento paesaggistico, ambientale e geologico. L’importante – come si è anche accorta la famiglia Bin Laden che ora vuole entrare nel business – è di continuare a godere di colossale rendite inquinando sorgenti, fiumi e aria. Intanto, un passo in questo senso è stato fatto con l’approvazione nella Commissione ambiente e territorio della Regione Toscana, nonostante l’eroica resistenza dell’assessore Marson, di ulteriori emendamenti peggiorativi del Piano paesaggistico. Di cui, il più negativo è la possibilità di riaprire le cave dismesse da non più di 20 anni al di sopra dei 1200 metri, in aree vincolate. E non è improbabile che in fase di approvazione da parte del Consiglio regionale, qualche soldatino alle dipendenze di Confindustria proponga ulteriori codicilli per la distruzione della Montagna. Ma in attesa dell’assalto finale, si possono già fare alcune considerazioni. La prima è che, nonostante che le autorizzazioni di apertura di nuove cave dovrebbero ora essere inquadrate in “piani di bacino” soggetti al parere preventivo della Regione, saranno i Comuni a decidere e a dire l’ultima parola; e l’esperienza insegna che in Toscana l’osservanza dei piani sovraordinati è stata finora un’eccezione. Con l’aggravante, che qui l’osmosi fra amministratori, imprese e Parco delle Apuane ha creato un blocco di interessi che nessun meccanismo regolativo di piano può seriamente intaccare. Bisogna, perciò, cambiare politica e l’unica chance in questo senso è di mandare a casa gli attuali amministratori e sostituirli con persone che si preoccupino più della salute del territorio e dei cittadini che dei profitti delle imprese. Da qui alle prossime elezioni questo è il compito dei comitati. La seconda considerazione è che il grande sconfitto di questa prova di forza è il Presidente Enrico Rossi, il quale all’inizio e durante il suo mandato aveva ribadito che la sua era una maggioranza di sinistra. “Il nuovo piano garantisce insieme alla tutela ambientale, anche le legittime istanze di crescita e sviluppo economico”; non è un esponente della giunta a dichiaralo, ma la portavoce di Forza Italia che così sancisce la nascita di una nuova maggioranza. La Regione Toscana perciò si omologa alla politica di Matteo Renzi, il premier che intende sfasciare la Costituzione vigente in combutta con un corruttore di giudici e di minorenni, compratore di senatori, evasore fiscale, ma “votato da milioni di italiani”. Fine del modello toscano? Vi è da dire che questo modello, che significava uno sviluppo che non distruggesse paesaggio e ambiente, ma anzi ne facesse preziose materie prime da salvaguardare e riprodurre, è esistito solo come proposta politica e tecnica di minoranze fra cui la Rete dei Comitati per la difesa del territorio. E, tuttavia, il tentativo e in qualche caso la speranza erano che le istituzioni, sapessero raccogliere la sfida, in tale senso era stato possibile registrare qualche cauta apertura del Presidente della Regione. Ora, un Consiglio di nominati dai partiti, ignaro di quanto avviene nel mondo, culturalmente arretrato (e cattiva cultura fa cattiva politica) affonda questa speranza. Ribadisce che lo sviluppo si ottiene distruggendo un patrimonio che non appartiene ai cavatori, ma al mondo. Scavalca i sindacati, molto più cauti e consapevoli che la monocultura marmifera deve essere sostituita da un’economia più equilibrata che valorizzi tutte le risorse del territorio. Puntella le rendite dell’oligopolio dei cavatori senza accorgersi che la rendita storica del partito ex Pci, ex Pds, ex Ds, … “ex” si esaurirà definitivamente quando sulla scena elettorale prenderà posizione un partito degno di credibilità che faccia propri gli interessi dei cittadini.

E mentre attendiamo gli sviluppi della situazione, ecco il comunicato che annuncia la “serrata” delle imprese del marmo (in rosso), nonché l’ANSA del 27 giugno, che riporta l’opinione del presidente Enrico Rossi (in verde):

Blocco totale delle attività delle cave e dei laboratori Comunicato alla Stampa Il Coordinamento delle Imprese Lapidee Apuo-Versiliesi, Consorzio Cosmave, CAM, Assindustria Lucca, Assindustria Massa Carrara, LegaCoop Massa Carrara, LegaCoop Lucca, il Consorzio Marmi della Garfagnana, le aziende tutte del distretto lapideo della Versilia e di Massa Carrara lunedì 30 giugno e martedì 1 luglio attueranno il blocco totale di tutte le attività in segno di protesta per il Piano Paesaggistico che il Consiglio Regionale sta per adottare. La decisione è stata presa nelle assemblee che si sono svolte in questi giorni a Pietrasanta e Carrara organizzate dalle Associazioni Industriali e dalla Legacoop di Lucca e di Massa Carrara. Con questa prova, alla quale le associazioni di imprese notoriamente ricorrono solo in casi eccezionali, prende corpo il profondo senso di preoccupazione delle imprese sia per la netta avversione nei confronti delle attività estrattive alla base del Piano che per il mancato confronto su questo atto intenzionalmente teso a spezzare il primo e più importante anello (le cave) della catena di un settore che dà lavoro a migliaia e miglia di persone. Nei due giorni i protagonisti del settore faranno sentire la propria voce e spiegheranno i motivi della singolare protesta con iniziative e con una serie di striscioni appesi ai tetti dei laboratori.

(ANSA) – CARRARA (MASSA CARRARA), 27 GIU – ‘Serrata’ alle cave di marmo di tutto il distretto apuo-versiliese lunedì e martedì prossimi per protestare contro il piano di indirizzo territoriale in discussione alla Regione Toscana. Lo ha annunciato il presidente di Assindustria di Massa Carrara Giuseppe Baccioli. La protesta interesserà circa 3.300 lavoratori di cave, segherie e laboratori. Il governatore della Toscana Enrico Rossi difende il piano definendolo ‘una rivoluzione’ per la tutela del paesaggio.

Ancora sulla questione Apuane.

downloadDopo l’articolo di Tomaso Montanari del 23 giugno, pubblichiamo le schede preparate per la Conferenza stampa di oggi mercoledì 25, nonché il successivo Comunicato stampa.

Per quanto riguarda gli emendamenti al Piano Paesaggistico, introdotti per precisare e articolare meglio la disciplina delle attività di cava, vale la pena di leggere il testo presentato dall’assessore Anna Marson alla Sesta Commissione consiliare “Territorio e Ambiente” lo scorso 11 giugno:

Emendamenti alla proposta di PIT con valenza di Piano Paesaggistico approvati dalla giunta regionale con delibera n. 485  del 10 giugno 2014.

A seguito della richiesta di revisione della disciplina del piano, da parte della Sesta commissione consiliare “Ambiente e Territorio”, relativamente al rapporto tra attività estrattive e tutela del paesaggio con particolare riferimento al contesto delle Alpi Apuane, la proposta approvata dalla giunta il 17 gennaio è stata riconfigurata in modo più articolato. Il divieto generalizzato al rilascio di nuove autorizzazioni nelle aree di cava intercluse nel territorio del parco è stato sostituito da una lettura di maggior dettaglio di ciascun Bacino estrattivo, e da norme più specifiche.  

Al tempo stesso è stato introdotto per tutti i bacini estrattivi delle Apuane, interni ed esterni al Parco, l’obbligo di piani attuativi che facciano propri gli obiettivi di qualità paesaggistica definiti dal Piano paesaggistico, individuando quantità sostenibili, promuovendo le lavorazioni del materiale escavato in filiera corta e tutelando i beni e i valori paesaggistici presenti.

Più nel dettaglio, la proposta approvata dalla giunta il 17 gennaio contemplava una disciplina unitaria per le diverse categorie di beni paesaggistici formalmente riconosciuti (e dunque vincolati), differenziando la norma riferita ai “parchi e riserve nazionali e regionali” soltanto fra “aree contigue di cava intercluse” all’interno del parco e aree contigue non intercluse. Per le autorizzazioni all’escavazione in essere all’interno delle aree contigue intercluse era previsto che, alla relativa scadenza, non vi fosse alcuna possibilità di rinnovo, mentre nelle aree contigue non intercluse le stesse erano state condizionate alla non interferenza con vette e crinali e alla valutazione paesaggistica.

In generale l’autorizzazione all’apertura di nuove attività estrattive, l’ampliamento dell’attività in essere nonché il recupero dei fronti di cava abbandonati e/o dismessi era stata subordinata, all’art.7 delle norme generali, al preventivo parere favorevole di conformità al PIT.

La nuova proposta del 10 giugno è basata su specifici approfondimenti del quadro conoscitivo e interpretativo delle aree Apuane interessate dalle attività di cava, nonché sull’esigenza di codificare, relativamente all’attività di escavazione e ai suoi riflessi sugli aspetti paesaggistici, dispositivi di tutela delle Alpi Apuane maggiormente unitari, rivolta anche alle aree esterne ai beni paesaggistici formalmente riconosciuti, coinvolgendo attivamente i Comuni, enti responsabili del rilascio dell’autorizzazione all’escavazione a valle del procedimento istruttorio, nel perseguimento degli obiettivi di tutela.

E’ stato pertanto prodottoinnanzitutto un nuovo elaborato di piano (Allegato 5 alla Disciplina di piano “Schede Bacini estrattivi Alpi Apuane”), che approfondisce lo stato di fatto per ciascuna delle 21 aree interessate dall’attività estrattiva. A tal fine sono state prese a riferimento le diverse Aree contigue di cava individuate dalla LR 65/1997 istitutiva del Parco delle Apuane, oltre all’area estrattiva di Massa e Carrara (esterna al Parco), identificate come “Bacini estrattivi”.

L’allegato 5 contiene, per ciascun Bacino, una scheda che evidenzia la presenza dei diversi beni paesaggistici formalmente vincolati, nonché dei valori paesaggistici riferiti alla struttura idrogeomorfologica, ecosistemica/ambientale, antropica e percettiva/fruitiva, individuando le criticità paesaggistiche specifiche e i relativi obiettivi di qualità da perseguire, oltre a dettare eventuali ulteriori prescrizioni (rispetto a quelle contenute nella disciplina generale). Queste ultime prevedono, in alcuni casi specifici, la non ammissibilità di ulteriori autorizzazioni all’attività di cava.

La Disciplina del Piano è stata contestualmente rivista introducendo un nuovo Capo VIII bis, Compatibilità paesaggistica delle attività estrattive, che detta norme unitarie per l’intero territorio regionale in materia di valutazione paesaggistica, prevedendo anche l’applicazione delle Linee guida per la valutazione paesaggistica delle attività estrattive di cui all’Allegato 4,. 

Sono state altresì previste specifiche Norme per i Bacini estrattivi delle Alpi Apuane Queste ultime, in considerazione del fatto che le Alpi Apuane costituiscono un valore paesaggistico unico, al quale concorrono sia i caratteri geomorfologici naturali che la cultura delle popolazioni insediate caratterizzata nella lunga durata dall’attività di cava, assumono come elemento identitario anche dal punto di vista paesaggistico questo nesso, ammettendo pertanto l’attività di cava come eccezione alla tutela del bene solo se e in quanto essa contribuisca al mantenimento della popolazione insediata e della sua cultura specifica.

In considerazione di ciò, le attività estrattive sono subordinate a un Piano attuativo, a scala di Bacino, che individua le quantità sostenibili dal punto di vista paesaggistico, coerentemente con gli obiettivi di qualità definiti per ciascun Bacino, garantendo al tempo stesso lavorazioni di qualità in filiera corta del materiale lapideo ornamentale estratto con riferimento all’obiettivo di raggiungere al 2020 almeno il 50% delle lavorazioni in filiera corta.

E’ altresì previsto che, laddove i Piani attuativi interessino beni paesaggistici, la Regione convochi apposite conferenze di servizio con la partecipazione di tutti gli altri soggetti istituzionali interessati allo scopo di verificare in via preliminare il rispetto della specifica disciplina paesaggistica.

La revisione della disciplina per le attività estrattive presenti nei territori di protezione esterna del Parco (art.11 Allegato B), esclude inoltre la possibilità che le attività estrattive interessino aree integre o rinaturalizzate,  oltre a porre ulteriori condizioni più specifiche per le montagne sopra ai 1200 metri e i circhi glaciali.

A seguito delle revisioni e integrazioni fin qui descritte sono state apportate alla Disciplina d’uso delle schede d’ambito n. 1 (Lunigiana), n. 2 (Versilia e costa apuana) e 3 (Garfagnana e val di Lima) le modifiche strettamente necessarie a renderle coerenti con la nuova disciplina generale.

Sugli emendamenti si è comunque scatenato il coro delle proteste degli industriali (vedi la rassegna stampa: dossier Apuane n. 3), e sono state espresse critiche anche dai settori ambientalisti: così l’articolo di Franca Leverotti su Eddyburg, che alleghiamo a completamento dell’informazione.

Le Alpi Apuane: vent’anni di errori e cattiva politica

di FRANCA LEVEROTTI,  da Eddyburg, 25 Giugno 2014.

Nel 1994 il Presidente del Consiglio dei Ministri impugnava la legge della Regione Toscana “Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara” per violazione dell’art. 117 della Costituzione (le cave devono essere normate dalla Stato e non dalle Regioni sosteneva), e in particolare perché prevedendo la Regione la temporaneità e l’onerosità delle concessioni, perpetue in base alla legge vigente, incide sui diritti reali immobiliari preesistenti, disciplinati con normativa speciale risalente alla legislazione preunitaria (Editto di Maria Teresa 1751 e Decreto di Francesco V 1846).
La Regione, che aveva legiferato costretta anche dall’“allarmante fenomeno delle rendite parassitarie” e in considerazione dell’enorme importanza economica dello sfruttamento degli agri marmiferi e della loro rilevanza anche dal punto di vista paesaggistico ambientale , aveva dettato criteri, che andavano, a parere del governo Berlusconi, a danno dei concessionari di cava. La Corte Costituzionale (488/ 1995) non solo confermava la validità della legge “rivoluzionaria” regionale, ma riaffermava la valenza dell’art. 32 comma 8 (L. 724/1994) e cioè che a decorrere dal 1 gennaio 1995 i canoni annui sarebbe stati determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato. E precisava: “A questa regola i Comuni di Massa e Carrara devono fin d’ora uniformarsi, indipendentemente dall’entrata in vigore dei regolamenti più volte ricordati”.
Che cosa è successo in questo ventennio?

A Carrara il regolamento è stato svuotato dalle amministrazioni succedute alla Fazzi Contigli; a Massa si è scelto di continuare con il decreto del 1846. Il canone rapportato al valore di mercato del marmo estratto, imposto (“devono”) dalla Corte Costituzionale, è stato dimenticato, con il vantaggio dei pochi concessionari di cave, anche percettori di rendite, che a queste rendite improprie e ai guadagni mostruosi non vogliono rinunciare. A Massa, il Comune riscuote 8,30 euro ogni tonnellata di marmo che passa dalla pesa pubblica (e molto non passa dalla pesa), indipendentemente dal valore del marmo (che oscilla da qualche centinaia di euro  ad alcune migliaia di euro)

Vent’anni dopo (2014) è ancora la politica, la cattiva politica, anche di sinistra, che scende in appoggio degli industriali e di fronte ad un piano paesaggistico che cerca di tutelare l’ambiente, le acque, i profili dei monti, i circhi glaciali, le grotte carsiche, geotopi e geositi, le aree di Rete Natura 2000 (SIC-ZPS), un patrimonio che non è solo italiano, ma del mondo intero, un piano paesaggistico che suggeriva di portare a progressiva chiusura le cave all’interno di un Parco, modificando e stravolgendo i diritti della cittadinanza.
Due soli esempi: è sopravvissuto un paragrafo nella disciplina del piano paesaggistico in cui si precisa che l’apertura di nuove cave (che cadranno in zona SIC/ZPS), l’ampliamento delle esistenti (che già ora sono entrate in zona SIC/ZPS) e ampliamenti e recuperi ambientali di cave dismesse (molte di queste sono già oggi in aree individuate come SIC e ZPS) non devono interferire in modo significativo con SIC, SIR, ZPS, emergenze geomorfologiche, geositi e sorgenti, linee di crinale, zone umide Ramsar (fatti salvi i diritti acquisiti di chi ha una attività in corso !).

Che cosa vuol dire “in modo significativo?”
Nel fascicolo Emendamenti, (pag. 7 punto 4) si scrive che si intendono “rinaturalizzate” solo le cave dismesse da almeno 30 anni: la politica dunque stabilisce che la natura si riappropria dello spazio che le è stato tolto…. solo dopo 30 anni.
La sostanza del comma ci dice che, grazie a questa precisazione, si potranno ri-aprire cave chiuse da 30 anni!
Ancora più sorprendente (pag. 8) l’art. 12 relativo alle aree boscate, aree dove sono ammessi interventi di trasformazione a condizione che non comportino alterazione significativa permanente del paesaggio. Il testo originario riportava semplicemente: alterazione significativa. La politica impone che l’alterazione significativa debba essere anche permanente: solo in questo caso non si ri-apriranno cave.
Per volontà politica il grande bacino marmifero di Carrara non è entrato nel Parco delle Alpi Apuane. Leggiamo sui quotidiani di questi giorni che la famiglia Bin Laden sta per comprare il 50% di una società che possiede 1/3 delle cave di Carrara per 45 milioni di euro. Che cosa rende così costoso quel bene? Certamente la materia prima che appartiene, come ha scritto la Corte Costituzionale, alla collettività carrarina. Quanti dei 45 milioni ricadranno nel territorio? Nessuno, ma questa cifra sarà divisa fra TRE famiglie, proprietarie appunto di quel 50%.
Siamo in Europa, ma in questa parte di Europa, nella Toscana da decenni amministrata dalla sinistra, si permette per il guadagno di pochi di tagliare a fette le creste, distruggere l’ambiente, inquinare le acque, e, per gli interessi economici di questi imprenditori, si rischia oggi che la materia paesaggistica dell’intera Regione, ancora una volta, non abbia norme e regole. E’ recente una sentenza del Consiglio di Stato (sez. IV n. 2222, 29 aprile 2014)che definisce il paesaggio un “bene primario e assoluto”, ma gli abitanti della Toscana sono costretti a ricorrere all’Europa perché ciò si realizzi.

Grandi opere, corruzione e sprechi.

images (1)Due articoli sulle grandi opere, di Piero Bevilacqua e di Marco Ponti.

I topi ballano nel formaggio della Grande Opera.

Di Piero Bevilacqua, da http://www.controlacrisi.org/, 25 giugno 2014.

Corruzione. Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme

Vasto dibat­tito sulla cor­ru­zione dila­gante. Si cerca di distil­lare dalla melma quo­ti­diana i carat­teri di fondo della spe­ciale pesti­lenza che imper­versa sui cieli d’Italia. In una delle sue pasto­rali dome­ni­cali, Euge­nio Scal­fari, intimo ormai del nostro pon­te­fice, rife­riva il giu­di­zio di papa Fran­ce­sco sulle cause spi­ri­tuali: «cupi­di­gia di potere, desi­de­rio di pos­sesso». Il papa più radi­cale dell’evo moderno coglie nel segno. Ma certo l’accaparramento di beni e potere, feb­bre dell’individuo con­tem­po­ra­neo, è una costru­zione sto­rica, non il risul­tato della per­duta inno­cenza dell’Eden.

E’ il frutto dell’immaginario col­let­tivo sog­gio­gato dai valori domi­nanti, dro­gato dalle trombe quo­ti­diane di un lin­guag­gio pub­blico fatto di esor­ta­zioni, di inci­ta­zioni a cre­scere, a cor­rere, a pro­durre di più, a lavo­rare più a lungo, a con­su­mare oltre, a essere fles­si­bili, effi­cienti, più belli, più gio­vani, ad “entrare nel futuro” tra­mite l’acquisto di qual­che nuova auto o tele­vi­sore ad ampio schermo. E’ dun­que l’etica neo­li­be­ri­stica – per fare il verso a Weber – che anima l’attuale spi­rito del capi­ta­li­smo, a for­giare gli indi­vi­dui, pronti a qua­lun­que misfatto per ubbi­dire agli impe­ra­tivi dell’epoca. E i media, che ora ven­dono al pub­blico le notizie-merce sulla cor­ru­zione, sono gli stessi stru­menti che distil­lano cor­ren­te­mente gli impulsi ideo­lo­gici di cui essa si ali­menta. Ma la cor­ru­zione mostra anche dell’altro: lo stato nazio­nale, non solo va per­dendo la sua sovra­nità poli­tica, vede anche disfarsi i suoi col­lanti civili, per il venire meno di un’idea di società come pro­getto collettivo.

Tut­ta­via, il feno­meno di cui si parla in que­sti giorni – che certo in Ita­lia assume carat­teri spe­ciali – non può essere limi­tato agli epi­sodi di acca­par­ra­mento di denaro, aste e bilanci truc­cati, come fanno uni­ver­sal­mente cro­ni­sti e com­men­ta­tori. Gli scan­dali dell’ultimo mese, per essere affer­rati nella loro gigan­te­sca por­tata, vanno ripor­tati alla misura delle “grandi opere” e col­lo­cati nel con­te­sto italiano.

Nelle inten­zioni one­ste (e nella pub­bli­cità poli­tica) le grandi opere avreb­bero il fine di met­tere insieme inve­sti­menti pub­blici e capi­tali pri­vati per rea­liz­zare manu­fatti di gene­rale uti­lità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro tem­po­ra­neo, allar­gando il mer­cato dei mate­riali per alcune fasce di imprese. Osser­vate nella realtà esse appa­iono costru­zioni ben più com­plesse: costi­tui­scono un modo di ope­rare del capi­ta­li­smo del nostro tempo. Le grandi imprese non inve­stono nella pro­du­zione di un nuovo bene, ma nella crea­zione, in genere, di un ser­vi­zio. E uti­liz­zando una mate­ria prima non ripro­du­ci­bile: il ter­ri­to­rio. Le grandi opere si rea­liz­zano con­su­mando e mani­po­lando in modo più o meno irre­ver­si­bile il nostro habi­tat. Ed esse sono pos­si­bili, com’è noto, gra­zie al pro­ta­go­ni­smo del potere pub­blico. E qui si annida una prima e spi­nosa que­stione. Chi è il potere pub­blico? In genere un sin­daco, gli ammi­ni­stra­tori locali, par­la­men­tari, diri­genti di par­tito, vale a dire rap­pre­sen­tanti del ceto politico.

Que­sta nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispi­rarsi, al momento di entrare in con­tatto con le grandi imprese, subi­sce una meta­mor­fosi incon­te­ni­bile. I mode­sti poli­tici locali e nazio­nali, immersi nella nor­male rou­tine, di colpo si ritro­vano deten­tori di un potere enorme, quello di con­ce­dere una por­zione del ter­ri­to­rio nazio­nale all’uso del capi­tale pri­vato. La poli­tica entra in con­tatto con le grandi imprese e tale pas­sag­gio le squa­derna davanti pos­si­bi­lità impen­sa­bili: danaro, potere, con­tatti impor­tanti con le éli­tes della finanza, visi­bi­lità media­tica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cro­na­che e nei com­menti di que­sti giorni è il potere di for­ma­zione di opi­nione pub­blica che hanno le grandi imprese, attra­verso i media locali e nazio­nali. Quanta nasco­sta cor­ru­zione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?

E’ evi­dente che da que­sto con­tatto tra grande impresa e poli­tica sor­ti­sce un risul­tato ormai costante: sco­lo­ri­sce sem­pre più il pro­po­sito di rea­liz­zare il bene pub­blico e nasce una con­ver­genza di inte­ressi tra due distinti poteri, in cui soc­combe l’interesse collettivo.

Sorge dun­que una prima rile­vante que­stione: com’è pos­si­bile che dei sin­goli cit­ta­dini, in quanto sem­pli­ce­mente eletti (sin­daco, par­la­men­tare, ecc) si inte­stino la pote­stà di deci­dere sul destino di aree a volte vaste e deli­cate del nostro paese? A chi appar­tiene la Laguna di Vene­zia, all’ex sin­daco Orsoni, all’ex mini­stro Galan e ai suoi pre­de­ces­sori o, per caso, agli abi­tanti di Vene­zia? Se non altro per­ché la Laguna, e la stessa città che noi ere­di­tiamo, sono il frutto di un’opera seco­lare di con­ser­va­zione, rea­liz­zata con ingenti sforzi da innu­me­re­voli gene­ra­zioni di vene­ziani. E la Val di Susa — già col­le­gata alla Fran­cia con un fer­ro­via inter­na­zio­nale, con una auto­strada e con altre due strade minori — che si vuole scon­vol­gere con un tun­nel di ben 57 km? A chi appar­tiene la Val di Susa, al sin­daco di Torino, a Prodi a Ber­lu­sconi, al mini­stro Alfano, che l’ha messo sotto asse­dio con una ope­ra­zione di guerra di posi­zione? O non per caso alle popo­la­zioni che da secoli l’hanno resa pro­dut­tiva con­tri­buendo alla ric­chezza nazio­nale, che l’hanno curata e man­te­nuta per noi e per le gene­ra­zioni che ver­ranno? E dov’è il supe­riore fine nazio­nale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sot­to­suolo di Firenze, dov’è in corso una dis­sen­nata opera di esca­va­zione per costruire una sta­zione sot­ter­ra­nea desti­nata alla Tav? Appar­tiene all’ex sin­daco Renzi o agli attuali mini­stri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte supe­riori rispetto a una sta­zione di super­fi­cie ? Senza dir nulla dei peri­coli di dis­se­sto che corre la città, patri­mo­nio dell’umanità. Sono affari degli ita­liani o del ceto poli­tico, alcuni rap­pre­sen­tanti dei quali sono già sotto inchie­sta per que­sti lavori?

Ma c’è, nel caso delle grandi opere ita­liane, un aspetto che getta su di esse un’ombra di discre­dito uni­ver­sale e irri­me­dia­bile, sotto cui biso­gnerà sep­pel­lirle. E si deve par­tire dalla domanda: ma in Ita­lia abbiamo dav­vero biso­gno di grandi opere? Abbiamo biso­gno di tra­sfor­mare la Sta­zione Cen­trale di Milano in un labi­rinto di bou­ti­ques che ral­len­tano l’accesso al metro, di costruire una son­tuosa opera da archi­star nella sta­zione di Reg­gio Emi­lia, cat­te­drale nella cam­pa­gna per pochi treni e per pochi pas­seg­geri? Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pen­do­lari, lavo­ra­tori che ten­gono in piedi il Paese, ser­viti da treni in con­di­zioni degra­date. E i treni merci? Il tra­sporto su merci arriva oggi a coprire un misero 6% del totale dei flussi, men­tre cre­sce di anno in anno il tra­sporto su gomma e le auto­strade sono al col­lasso. E’ così che si sostiene il sistema-paese?

Tali con­si­de­ra­zioni val­gono come pre­li­mi­nari per una situa­zione di para­dosso ormai esplo­siva della vita ita­liana: noi abbiamo davanti una gigan­te­sca e igno­rata que­stione ter­ri­to­riale, fonte di costi con­ti­nui e cre­scenti che dis­san­guano le finanze pub­bli­che. Il nostro ter­ri­to­rio, che per secoli è stato siste­ma­ti­ca­mente curato e posto in equi­li­brio dalle popo­la­zioni con­ta­dine e dagli inge­gneri idrau­lici, oggi non ha più manu­ten­tori, è asse­diato dal cemento, viene anzi pro­get­tual­mente deva­stato dal potere pub­blico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricor­dato di recente gli stu­diosi che hanno col­la­bo­rato a un volume dell’ Isti­tuto Nazio­nale di Geo­fi­sica (ne ho scritto sul il mani­fe­sto del 19 giu­gno), per i disa­stri idro­geo­lo­gici degli ultimi 50 anni noi sop­por­tiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equi­va­lente spen­diamo nel ripa­rare i danni pro­dotti dai ter­re­moti che con impla­ca­bile perio­di­cità ogni 4–5 anni col­pi­scono qual­che nostra città o cen­tro abitato.

Dun­que quale etica civile può esserci nel pro­getto di grandi opere che, a pre­scin­dere dalla cor­ru­zione, distrag­gono danaro pub­blico in opere di dub­bia neces­sità a fronte dei biso­gni dram­ma­tici del nostro ter­ri­to­rio? Men­tre le scuole dei nostri ragazzi sono insi­cure? Men­tre le vere “Grandi opere”, quelle che ere­di­tiamo dal nostro pas­sato, da Pom­pei alla necro­poli feni­cia di Tuvi­xeddu in Sar­de­gna, rischiano la degra­da­zione per assenza di cure? Ecco un vasto campo ege­mo­nico che la sini­stra radi­cale e popo­lare può occu­pare: pro­pu­gnando un vasto pro­getto di pic­cole opere, poco costose e ad alta inten­sità di lavoro, dif­fuse, mirate a creare un sistema effi­ciente di tra­sporti su ferro, a valo­riz­zare le aree interne con agri­col­tura e fore­sta­zione di qua­lità, a curare i fiumi e uti­liz­zare le acque interne. Ren­diamo per­ma­nente nell’immaginario nazio­nale l’identificazione fra grandi opere e la casta cor­rotta e impo­niamo la nostra supe­riore progettualità.

Il Paese delle grandi opere costruite al buio

Di Marco Ponti, Il fatto quotidiano, 25 giugno 2014.

SPRECO GARANTITO. Solo in Italia non c’è obbligo di sottoporre i progetti finanziati dallo Stato, come Mose o Expo, a valutazioni economiche di esperti indipendenti.

In Italia si costruiscono grandi opere, ma nessuno spiega perché. Il 6 giugno, al Politecnico di Milano, si è svolto un convegno sulla valutazione economica dei grandi investimenti nei trasporti. L’Italia è un paese peculiare: non ha mai valutato seriamente nulla, nonostante diverse norme lo prevedessero, in particolare quelle ambientali. O meglio, sono state fatte ma sempre con risultati positivi. Trovare tecnici e accademici “non eccessivamente pignoli” non è difficile, soprattutto se retribuiti dai promotori degli investimenti stessi. In Italia, al contrario di quel che avviene negli organismi internazionali e nei paesi sviluppati, non è richiesta alcuna “terzietà” alle analisi: ci si limita a chiedere all’oste se il vino è buono. Solo da pochi tecnici indipendenti, e di rado, sono arrivati dei “no” basati su analisi economiche e finanziarie. I risultati di queste iniziative isolate si sono visti. Ma a danno delle carriere di quegli incauti che hanno fatto le analisi.

Molte mazzette e poche analisi

Quello delle grandi opere pubbliche è uno dei pochi in cui il governo è autorizzato dalla normativa europea a trasferire risorse alle imprese nazionali. Infatti le gare per l’affidamento sono certo obbligatorie, ma sono sempre e solo vinte da imprese nazionali, e generalmente sempre le stesse. Poi, si sa, le imprese tendono a manifestare gratitudine. E quanto sia diffuso questo sentimento per gli appalti vinti lo vediamo quasi ogni giorno, dalle inchieste sul Mose di Venezia a quelle sull’Expo di Milano, alla stazione sotterranea Alta Velocità di Firenze. Tutte opere per le quali era stata da alcuni sottolineata l’eccessiva onerosità per le casse pubbliche. Ma se per molti attori non fosse esattamente l’economicità e l’utilità dell’opera l’obiettivo principale, si potrebbe leggere un nesso tra i fenomeni di corruzione e lo scarso interesse per valutazioni indipendenti. Oltre a un elevato tasso di corruzione, il settore ha ricadute occupazionali scarsissime per ogni euro pubblico speso (spesso si afferma il contrario, contro ogni evidenza fattuale). Secondo la Corte dei Conti, e viste le cronache giudiziarie, le grandi opere sono anche caratterizzate da straordinari livelli di penetrazione della malavita organizzata e da scarsa innovazione tecnologica (è un settore maturo).

Inoltre, forse anche in relazione all’assenza di valutazioni degne di questo nome, il settore ha dato uno straordinario contributo alla crisi del bilancio pubblico italiano, come dimostrato anche dal prof. Arrighi sulle pagine del Fatto. Ma per fortuna, questo disastro non riguarda tutti i modi di trasporto: le autostrade almeno in buona parte le pagano gli utenti con i pedaggi. Per gli investimenti ferroviari non è così: è tutto a carico dello Stato, e per importi straordinariamente elevati (in media tre miliardi di euro all’anno). Non certo per le linee minori: l’Alta Velocità, un eccellente progetto dal punto di vista degli utenti, ha scavato una voragine nei conti pubblici (si stima che sia costata tre volte di più di opere analoghe nel resto d’Europa). Alcune tratte sono ben utilizzate, altre semi-deserte (la tratta Roma-Milano è percorsa da circa 100 treni al giorno su 300 di capacità, che è un grado di utilizzazione discreto, ma le altre tratte molti meno). Gli utenti sono di categoria medio-alta, ma lo Stato, con straordinaria generosità, ha deciso di non caricare su di loro nemmeno un euro dei costi di investimento. La letteratura internazionale dimostra che l’impatto ambientale di opere ferroviarie di questi tipo varia dal modestissimo al negativo, considerando anche le emissioni in fase di costruzione.

E la festa non sembra affatto finita: sono alle viste una trentina di miliardi di euro a carico dello Stato in nuovi progetti ferroviari, molti dei quali di nuovo analizzati indipendentemente da alcuni studiosi (si veda LaVoce.info), e alcuni con livelli di utilizzazione prevedibili persino inferiori di quelli già realizzati. Oppure invece questa volta la festa sta per finire? Qualche segnale positivo c’è: l’intervento al convegno di cui si è detto di uno dei consiglieri di Matteo Renzi (il deputato del Pd Yoram Gutgeld) ha fatto chiaramente intendere che se i soldi pubblici nel settore dei trasporti vengono buttati dalla finestra come si è fatto finora, difficilmente ne arriveranno altri. Panico tra molti studiosi del settore, abituati a sentire promesse mirabolanti provenienti dai vari governi, e ad assecondarle con analisi molto “benevole”.

È ora di smetterla con i soldi buttati.

Non ci sono più soldi pubblici da spendere con disinvoltura, e certo questa non è una motivazione che di per se possa rallegrare (rallegra però averlo sentito dire con forza da un consigliere di Renzi). E forse una motivazione che rafforza questa c’è: la nuova autorità indipendente per la regolazione dei trasporti sembra fortemente intenzionata a lasciare alla politica la scelta delle infrastrutture, ma senza consentire ai concessionari pubblici e privati chiamati a realizzarle, di sprecare soldi dello Stato o degli utenti, sia con opere sovradimensionate rispetto alla domanda, che con soluzioni irragionevolmente costose.

Apuane, le ruspe cancellano i monti.

10_pdfsam_Apuanedi Tomaso Montanari, Il fatto quotidiano, 23 giugno 2014.

Tra Bin Laden e i partiti.

Verrà un giorno in cui le Alpi Apuane saranno come i dinosauri: sparite. Con la differenza che dovremo spiegare ai nostri figli che siamo stati noi a distruggere un pezzo straordinario del nostro territorio e della nostra vita. Parlare delle Apuane vuol dire descrivere – attraverso un caso estremo, e dunque più comprensibile – la situazione di tutto ciò che la Costituzione chiama «paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione». Le Apuane sono cancellate da una industria che crea sempre meno occupazione; sono cancellate in violazione delle leggi vecchie e nuove (per esempio annullando le linee di cresta anche sopra i 1200 metri di altezza, in barba al Codice del paesaggio); sono cancellate inquinando acqua e aria, e abbassando la qualità della vita degli abitanti (si pensi solo ai 700 camion che attraversano ogni giorno Carrara); sono cancellate da una politica incapace (per ignoranza e corruzione) di comprendere che è possibile un’altra economia; sono cancellate dal silenzio mediatico. All’inizio del Novecento i cavatori era 14.000, oggi sono poco più di mille, ma la loro produttività è andata alle stelle. Ogni anno si estrae un milione e mezzo di tonnellate di marmo, distruggendone però quasi dieci milioni. Il professor Elia Pegollo, che viene da una famiglia di cavatori, ha calcolato che col materiale escavato ogni anno si potrebbe lastricare un’autostrada a quattro corsie di 2500 km: da Firenze a Stoccolma, per intenderci. Ma l’80% del volume che ogni anno sottraiamo alla montagna non finisce in opere di architettura o scultura, bensì in filtri per acquedotti, adesivi edilizi, vernici e sbiancanti, industria alimentare, dentifrici. Il che rende grottesco l’uso abusivo della retorica michelangiolesca: come ha scritto lo storico dell’arte Fabrizio Federici, «se davvero, come poetava Buonarroti, le figure portate alla luce dallo scultore fossero già racchiuse entro il blocco di marmo, si assisterebbe a una quotidiana mattanza di Madonne e Bambini, di Veneri, di atleti, ridotti in scaglie e in polvere». Le quantità necessarie ad una industria del lusso globalizzata e le potentissime e violentissime tecniche moderne rendono impossibile – anzi truffaldino – parlare ancora dell’estrazione del marmo nei termini romantici di un cimento tra l’uomo e la montagna. Ma non solo la propaganda, perfino le regole del gioco sono ancora ferme all’antico regime: nonostante alcuni severi pronunciamenti della Corte Costituzionale, il comune di Massa regola le concessioni usando ancora le leggi precedenti all’unità d’Italia (per l’esattezza una legge estense del 1846). Una situazione normativa intollerabile, quando si apprende che la famiglia saudita Bin Laden (sì, quella) sta trattando l’acquisto del 50% del gruppo Marmi Carrara, il più importante estrattore. Una notizia che ci pone di fronte alla situazione per quello che è: sulle Apuane abbiamo rinunciato alla nostra sovranità sul nostro territorio nazionale, il cui letterale sbriciolamento verrà deciso molto, ma molto lontano dai nostri confini. E mentre gli interessi speculativi sauditi sono accolti a braccia aperte, il Coordinamento imprese lapidee del Parco delle Apuane ha dichiarato una guerra santa contro il Piano Paesistico Regionale della Toscana, voluto dall’assessore Anna Marson (che è stata oggetto di pesanti attacchi personali). Il perché di una reazione così violenta lo ha chiarito bene l’urbanista Paolo Baldeschi: «Ma quale è il peccato mortale del Piano? La colpa è di cercare di frenare il taglio delle vette al di sopra dei 1200 metri e di limitare l’estrazione all’interno del Parco delle Apuane, facendo salve le concessioni esistenti, ciò che ha provocato la netta contrarietà del Presidente del Parco, (vicepresidente uscente, già segretario del Pd di Fivizzano), evidentemente più sensibile agli interessi dei cavatori che a quelli dell’ente da lui presieduto». D’altro canto, continua Baldeschi, «il Coordinamento dimentica di dar conto delle inadempienze sistematiche delle aziende impegnate nelle attività estrattive: la mancanza di raccolta delle acque a piè di taglio, l’assenza o il mancato utilizzo degli impianti di depurazione spesso esistenti solo sulla carta, i rifiuti abbandonati nelle cave dismesse, la mancata attuazione dei piani di ripristino, una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti e prescrizioni. Si dimentica, altresì, dell’inquinamento delle falde, delle sorgenti e dei torrenti, della diffusione di polveri sottili, degli innumerevoli danni ambientale e paesaggistici». Da una parte gli interessi dell’industria del marmo e una politica locale ad essi legata mani e piedi, dall’altra un movimento di opinione che guadagna terreno grazie alla forza delle proprie ragioni: nel mezzo un’opinione pubblica disorientata dall’eterna propaganda di chi oppone le ragioni dell’economia e del lavoro alle ragioni dell’ambiente. La sfida è quella di far comprendere che questa opposizione è un clamoroso falso, alimentato ad arte da chi ha interesse nella perpetuazione dell’attuale economia di rapina. Sabato scorso è tornato a riunirsi a Casola, in Lunigiana, il movimento Salviamo le Apuane, e martedì prossimo si occuperà dello stesso tema la Rete dei Comitati, convocata a Firenze. L’obiettivo non è solo quello di fermare la distruzione delle Apuane, ma anche e soprattutto dire che un’altra economia apuana è possibile, e che è tempo di mettere a punto un Piano Alternativo di Sviluppo per le Alpi Apuane. Il messaggio è quello contenuto nella Carta delle Apuane, redatta nel 2010: «Le Apuane sono sottoposte ad un regime monocolturale che mortifica ed impedisce uno sviluppo economico potenzialmente notevole: si afferma dunque che la monocoltura della cava è incompatibile con lo sviluppo economico ed occupazionale del territorio … Le Apuane possono diventare il cuore di un modello economico diverso, più equo e più fertile, che rifacendosi alle ricchissime quantità di risorse naturali, antropiche, idrogeologiche e paesistiche di questa catena, unica nel Mediterraneo e in Europa, possa estendersi alle colline e alle città costiere, nonché ai parchi limitrofi (Cinque Terre, Appennino, Magra, San Rossore) fino a costituire un formidabile complesso sociale ed economico, oltre la crisi e la bolla finanziaria». Con le Apuane, insomma, si può anche mangiare: se non ci divoriamo le Apuane.

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