Paesaggio, alle radici della sovranità

Paolo Maddalena

Paolo Maddalena

 

di Paolo Maddalena, intervista su Altreconomia.it, 19 settembre 2014.

Il diritto a costruire non esiste, e i beni demaniali appartengono a tutti, sono inalienabili, anche se oggi in Italia esistono leggi che ne permettono la vendita.
Quando parla Paolo Maddalena, giudice costituzionale dal 2002 al 2011, lo fa in punta di diritto, citando la Costituzione e le sentenze della Consulta.  Le riflessioni di Maddalena, che dal 1971 al 2002 è stato magistrato della Corte dei Conti, sono raccolte nel libro Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014), nel quale il vice presidente emerito della Corte Costituzionale sposta la riflessione sui “beni comuni” sfruttando un lavoro di ricerca decennale sugli istituti proprietari, a partire da quelli del diritto romano.

«I romani considerarono tutte le res in publicu usi, le cose di uso comune, come beni appartenenti al popolo, ed extra commercium. Essi ci hanno insegnato che per tutelare un bene di uso comune, cioè in proprietà collettiva del popolo, occorre porlo fuori commercio. L’esempio moderno di questa concezione è dato dai beni demaniali, che sarebbero pertanto inalienabili, inusocapibili e inespropriabili. Questo principio è tuttavia oggetto di una serie di travisamenti, fino ad arrivare al decreto legislativo 85/2010, il cosiddetto “federalismo demaniale”, che ha trasferito i demani statali, idrico, marittimo, minerario e culturale alle Regioni, e disposto che queste -dopo aver valorizzato i beni- li possano vendere a privati. Quanto disposto è oggi in via d’attuazione, e noi vediamo che sono state vendute a privati quasi tutte le isole della Laguna veneta, che è in vendita il monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo, che in Umbria è in vendita la tenuta di Caicocci. Questo provvedimento è palesemente incostituzionale, ma nessun soggetto deputato a farlo (le Regioni) ha fatto ricorso alla Corte ‘in via principale’».

In che modo il diritto romano può rafforzare la “dottrina dei beni comuni”? 
Il territorio dal punto di vista fenomenico è un luogo, dal punto di vista della qualificazione giuridica se ne è parlato invece in dottrina di “bene comune”. La teoria dei beni comuni, che ha avuto un forte impatto sull’immaginario collettivo, non prende tuttavia in considerazione il fenomeno giuridico essenziale dell’appartenenza del bene, e si preoccupa solo della sua destinazione ad uso pubblico, dichiarando che non è importante stabilire se è in proprietà pubblica o privata. A me sembra, invece, che occorra partire dall’idea che l’intero territorio appartiene al popolo, a titolo di “sovranità”, e che la proprietà privata è una cessione di parti del territorio che il popolo sovrano fa a singoli soggetti.

Che cosa comporta questa sovranità popolare? 
L’appartenenza del territorio al popolo implica che le leggi contribuiscano a una distribuzione equa dello stesso tra demanio diretto, ad uso pubblico della comunità, e territorio in proprietà privata. Oggi, invece, la proprietà privata è di gran lunga superiore a quella demaniale, e come se ciò non bastasse si provvede vorticosamente alla sdemanializzazione degli ultimi beni. Questo appare in contrasto con l’articolo 42 della Costituzione, che distingue la proprietà in pubblica e privata, intendendo con l’uso dell’aggettivo pubblico -come precisò l’illustre giurista Massimo Severo Giannini- proprio i beni demaniali.
Ciò significa che l’eventuale sdemanializzazione, riguardando un bene direttamente appartenente al popolo, potrebbe essere decisa volta per volta soltanto dal popolo, e non dovrebbe essere affidata in virtù di una legge al potere discrezionale della pubblica amministrazione. Esattamente come facevano i romani, che ponevano i beni comuni fuori commercio. Se non può esistere un matematico che non conosca Pitagora, non dovrebbe essere giustificato nemmeno un giurista che non conosce il diritto romano.
Esiste una connessione diretta, inoltre, tra appartenenza del territorio e sovranità popolare. Nel senso che la proprietà collettiva spetta al popolo a titolo di sovranità: questo si è realizzato in tutta la storia romana, ed anche in quella medievale, quando si distinse tra dominium eminens del sovrano, e dominium utile del coltivatore della terra. Si attribuì, cioè, al titolare della sovranità il potere di concedere l’uso del territorio a privati, mantenendo il potere sovrano di revocarlo attraverso l’esercizio di quel ‘dominio’ che il filosofo della politica tedesco Carl Schmitt definì la “superproprietà” del popolo.
In sostanza, il popolo conserva la proprietà diretta dei territori demaniali e la “superproprietà” sui territori ceduti in proprietà privata. Fu la rivoluzione borghese, con la restaurazione napoleonica, a operare la cesura tra sovranità e territorio: il Tomalis, che guidò la redazione del Code Civil del 1804, affermò il principio “al sovrano l’imperio, al privato la proprietà”. In questo modo, la proprietà sfuggì al dominium eminens, o alla “superproprietà” del popolo, e divenne diritto originario inviolabile del singolo proprietario.

Poi, però, l’Assemblea costituente ha modificato questa situazione: in che modo?
Questa scissione, foriera di danni incalcolabili per la collettività, è stata ricomposta dalla Costituzione repubblicana, la quale all’articolo 42 riconosce la proprietà collettiva demaniale, e si preoccupa di condizionare alla funzione pubblica la proprietà di quei beni che producono utilità eccedenti le strette necessità individuali e familiari. Sicché, oggi, la Costituzione riconosce come inviolabili soltanto i diritti di proprietà privata cosiddetti personali, come il diritto ai vestiti, alle scarpe, ad una utilitaria, alla prima casa, alla minima unità colturale, alla coltivazione diretta, mentre la grande proprietà privata -quella dell’industria e quella agricola- che produce utilità eccedenti i bisogni individuali resta sottoposta a una “funzione sociale”, cioè alla necessaria redistribuzione di utilità fra tutti i cittadini. Ciò è ribadito anche dall’articolo 41, che afferma che l’iniziativa economica privata è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana.
È da sottolineare che l’articolo 42 si esprime con queste parole: «La proprietà privata è riconosciuta dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale». È il caso degli immobili abbandonati, dalle industrie che delocalizzano alla ricerca di maggiori profitti e poi pretendono il cambiamento di destinazione d’uso dell’area abbandonata in Italia, per trasformarla magari in una zona residenziale o commerciale. Dimenticano che l’articolo 42 concede tutela giuridica soltanto se si persegue la funzione sociale, e che venuta meno questa viene meno ogni diritto. Per cui, Costituzione alla mano, le aree in questione dovrebbero passare immediatamente al patrimonio comunale, senza nessuna possibilità di indennizzo, perché l’indennizzo espropriativo è dovuto ai diritti di proprietà che hanno una tutela giuridica, e non riguardano quelli che l’hanno persa.

La tutela giuridica, poi, non c’è per un “diritto a costruire” che non esisterebbe proprio. La maggioranza dei cittadini è convinta che la proprietà privata abbia come contenuto del suo diritto uno ius edificandi, che però è falso. Poiché il diritto di modificare un territorio costruendo, cementificando e impermiabilizzando spetta a chi ne è proprietario, cioè è uno dei poteri sovrani del popolo, di fronte alla distruzione del paesaggio ogni cittadino può opporre la propria azione popolare sovrana.
Si sono pronunciate in questo senso negli ultimi anni tre sentenze della Corte di Cassazione, tra cui una del 2011 sulle valli di pesca della Laguna veneta, che sono state considerate beni inalienabili anche se non formalmente classificate come demanio, nonché la Consulta, la quale con la sentenza numero 1 del 2014, quella relativa al “Porcellum”, ha riconosciuto la legittimazione ad agire di cittadini singoli e associati per far valere un diritto spettante a loro come “parti strutturali dell’intero popolo”. Il popolo italiano può far valere questi diritti indipendentemente dal diritto comunitario e dal diritto internazionale, poiché la tutela dei diritti umani resta propria dell’ordinamento giuridico italiano, e non può essere limitata o ceduta ad altri soggetti, come dimostra la “teoria dei contro limiti”, espressa in alcune sentenze della Corte Costituzionale che evidenziano come in materia di diritti umani è ferma la competenza della Consulta sulle materia cedute all’Ue.