Grandi opere, corruzione e sprechi.

images (1)Due articoli sulle grandi opere, di Piero Bevilacqua e di Marco Ponti.

I topi ballano nel formaggio della Grande Opera.

Di Piero Bevilacqua, da http://www.controlacrisi.org/, 25 giugno 2014.

Corruzione. Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme

Vasto dibat­tito sulla cor­ru­zione dila­gante. Si cerca di distil­lare dalla melma quo­ti­diana i carat­teri di fondo della spe­ciale pesti­lenza che imper­versa sui cieli d’Italia. In una delle sue pasto­rali dome­ni­cali, Euge­nio Scal­fari, intimo ormai del nostro pon­te­fice, rife­riva il giu­di­zio di papa Fran­ce­sco sulle cause spi­ri­tuali: «cupi­di­gia di potere, desi­de­rio di pos­sesso». Il papa più radi­cale dell’evo moderno coglie nel segno. Ma certo l’accaparramento di beni e potere, feb­bre dell’individuo con­tem­po­ra­neo, è una costru­zione sto­rica, non il risul­tato della per­duta inno­cenza dell’Eden.

E’ il frutto dell’immaginario col­let­tivo sog­gio­gato dai valori domi­nanti, dro­gato dalle trombe quo­ti­diane di un lin­guag­gio pub­blico fatto di esor­ta­zioni, di inci­ta­zioni a cre­scere, a cor­rere, a pro­durre di più, a lavo­rare più a lungo, a con­su­mare oltre, a essere fles­si­bili, effi­cienti, più belli, più gio­vani, ad “entrare nel futuro” tra­mite l’acquisto di qual­che nuova auto o tele­vi­sore ad ampio schermo. E’ dun­que l’etica neo­li­be­ri­stica – per fare il verso a Weber – che anima l’attuale spi­rito del capi­ta­li­smo, a for­giare gli indi­vi­dui, pronti a qua­lun­que misfatto per ubbi­dire agli impe­ra­tivi dell’epoca. E i media, che ora ven­dono al pub­blico le notizie-merce sulla cor­ru­zione, sono gli stessi stru­menti che distil­lano cor­ren­te­mente gli impulsi ideo­lo­gici di cui essa si ali­menta. Ma la cor­ru­zione mostra anche dell’altro: lo stato nazio­nale, non solo va per­dendo la sua sovra­nità poli­tica, vede anche disfarsi i suoi col­lanti civili, per il venire meno di un’idea di società come pro­getto collettivo.

Tut­ta­via, il feno­meno di cui si parla in que­sti giorni – che certo in Ita­lia assume carat­teri spe­ciali – non può essere limi­tato agli epi­sodi di acca­par­ra­mento di denaro, aste e bilanci truc­cati, come fanno uni­ver­sal­mente cro­ni­sti e com­men­ta­tori. Gli scan­dali dell’ultimo mese, per essere affer­rati nella loro gigan­te­sca por­tata, vanno ripor­tati alla misura delle “grandi opere” e col­lo­cati nel con­te­sto italiano.

Nelle inten­zioni one­ste (e nella pub­bli­cità poli­tica) le grandi opere avreb­bero il fine di met­tere insieme inve­sti­menti pub­blici e capi­tali pri­vati per rea­liz­zare manu­fatti di gene­rale uti­lità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro tem­po­ra­neo, allar­gando il mer­cato dei mate­riali per alcune fasce di imprese. Osser­vate nella realtà esse appa­iono costru­zioni ben più com­plesse: costi­tui­scono un modo di ope­rare del capi­ta­li­smo del nostro tempo. Le grandi imprese non inve­stono nella pro­du­zione di un nuovo bene, ma nella crea­zione, in genere, di un ser­vi­zio. E uti­liz­zando una mate­ria prima non ripro­du­ci­bile: il ter­ri­to­rio. Le grandi opere si rea­liz­zano con­su­mando e mani­po­lando in modo più o meno irre­ver­si­bile il nostro habi­tat. Ed esse sono pos­si­bili, com’è noto, gra­zie al pro­ta­go­ni­smo del potere pub­blico. E qui si annida una prima e spi­nosa que­stione. Chi è il potere pub­blico? In genere un sin­daco, gli ammi­ni­stra­tori locali, par­la­men­tari, diri­genti di par­tito, vale a dire rap­pre­sen­tanti del ceto politico.

Que­sta nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispi­rarsi, al momento di entrare in con­tatto con le grandi imprese, subi­sce una meta­mor­fosi incon­te­ni­bile. I mode­sti poli­tici locali e nazio­nali, immersi nella nor­male rou­tine, di colpo si ritro­vano deten­tori di un potere enorme, quello di con­ce­dere una por­zione del ter­ri­to­rio nazio­nale all’uso del capi­tale pri­vato. La poli­tica entra in con­tatto con le grandi imprese e tale pas­sag­gio le squa­derna davanti pos­si­bi­lità impen­sa­bili: danaro, potere, con­tatti impor­tanti con le éli­tes della finanza, visi­bi­lità media­tica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cro­na­che e nei com­menti di que­sti giorni è il potere di for­ma­zione di opi­nione pub­blica che hanno le grandi imprese, attra­verso i media locali e nazio­nali. Quanta nasco­sta cor­ru­zione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?

E’ evi­dente che da que­sto con­tatto tra grande impresa e poli­tica sor­ti­sce un risul­tato ormai costante: sco­lo­ri­sce sem­pre più il pro­po­sito di rea­liz­zare il bene pub­blico e nasce una con­ver­genza di inte­ressi tra due distinti poteri, in cui soc­combe l’interesse collettivo.

Sorge dun­que una prima rile­vante que­stione: com’è pos­si­bile che dei sin­goli cit­ta­dini, in quanto sem­pli­ce­mente eletti (sin­daco, par­la­men­tare, ecc) si inte­stino la pote­stà di deci­dere sul destino di aree a volte vaste e deli­cate del nostro paese? A chi appar­tiene la Laguna di Vene­zia, all’ex sin­daco Orsoni, all’ex mini­stro Galan e ai suoi pre­de­ces­sori o, per caso, agli abi­tanti di Vene­zia? Se non altro per­ché la Laguna, e la stessa città che noi ere­di­tiamo, sono il frutto di un’opera seco­lare di con­ser­va­zione, rea­liz­zata con ingenti sforzi da innu­me­re­voli gene­ra­zioni di vene­ziani. E la Val di Susa — già col­le­gata alla Fran­cia con un fer­ro­via inter­na­zio­nale, con una auto­strada e con altre due strade minori — che si vuole scon­vol­gere con un tun­nel di ben 57 km? A chi appar­tiene la Val di Susa, al sin­daco di Torino, a Prodi a Ber­lu­sconi, al mini­stro Alfano, che l’ha messo sotto asse­dio con una ope­ra­zione di guerra di posi­zione? O non per caso alle popo­la­zioni che da secoli l’hanno resa pro­dut­tiva con­tri­buendo alla ric­chezza nazio­nale, che l’hanno curata e man­te­nuta per noi e per le gene­ra­zioni che ver­ranno? E dov’è il supe­riore fine nazio­nale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sot­to­suolo di Firenze, dov’è in corso una dis­sen­nata opera di esca­va­zione per costruire una sta­zione sot­ter­ra­nea desti­nata alla Tav? Appar­tiene all’ex sin­daco Renzi o agli attuali mini­stri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte supe­riori rispetto a una sta­zione di super­fi­cie ? Senza dir nulla dei peri­coli di dis­se­sto che corre la città, patri­mo­nio dell’umanità. Sono affari degli ita­liani o del ceto poli­tico, alcuni rap­pre­sen­tanti dei quali sono già sotto inchie­sta per que­sti lavori?

Ma c’è, nel caso delle grandi opere ita­liane, un aspetto che getta su di esse un’ombra di discre­dito uni­ver­sale e irri­me­dia­bile, sotto cui biso­gnerà sep­pel­lirle. E si deve par­tire dalla domanda: ma in Ita­lia abbiamo dav­vero biso­gno di grandi opere? Abbiamo biso­gno di tra­sfor­mare la Sta­zione Cen­trale di Milano in un labi­rinto di bou­ti­ques che ral­len­tano l’accesso al metro, di costruire una son­tuosa opera da archi­star nella sta­zione di Reg­gio Emi­lia, cat­te­drale nella cam­pa­gna per pochi treni e per pochi pas­seg­geri? Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pen­do­lari, lavo­ra­tori che ten­gono in piedi il Paese, ser­viti da treni in con­di­zioni degra­date. E i treni merci? Il tra­sporto su merci arriva oggi a coprire un misero 6% del totale dei flussi, men­tre cre­sce di anno in anno il tra­sporto su gomma e le auto­strade sono al col­lasso. E’ così che si sostiene il sistema-paese?

Tali con­si­de­ra­zioni val­gono come pre­li­mi­nari per una situa­zione di para­dosso ormai esplo­siva della vita ita­liana: noi abbiamo davanti una gigan­te­sca e igno­rata que­stione ter­ri­to­riale, fonte di costi con­ti­nui e cre­scenti che dis­san­guano le finanze pub­bli­che. Il nostro ter­ri­to­rio, che per secoli è stato siste­ma­ti­ca­mente curato e posto in equi­li­brio dalle popo­la­zioni con­ta­dine e dagli inge­gneri idrau­lici, oggi non ha più manu­ten­tori, è asse­diato dal cemento, viene anzi pro­get­tual­mente deva­stato dal potere pub­blico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricor­dato di recente gli stu­diosi che hanno col­la­bo­rato a un volume dell’ Isti­tuto Nazio­nale di Geo­fi­sica (ne ho scritto sul il mani­fe­sto del 19 giu­gno), per i disa­stri idro­geo­lo­gici degli ultimi 50 anni noi sop­por­tiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equi­va­lente spen­diamo nel ripa­rare i danni pro­dotti dai ter­re­moti che con impla­ca­bile perio­di­cità ogni 4–5 anni col­pi­scono qual­che nostra città o cen­tro abitato.

Dun­que quale etica civile può esserci nel pro­getto di grandi opere che, a pre­scin­dere dalla cor­ru­zione, distrag­gono danaro pub­blico in opere di dub­bia neces­sità a fronte dei biso­gni dram­ma­tici del nostro ter­ri­to­rio? Men­tre le scuole dei nostri ragazzi sono insi­cure? Men­tre le vere “Grandi opere”, quelle che ere­di­tiamo dal nostro pas­sato, da Pom­pei alla necro­poli feni­cia di Tuvi­xeddu in Sar­de­gna, rischiano la degra­da­zione per assenza di cure? Ecco un vasto campo ege­mo­nico che la sini­stra radi­cale e popo­lare può occu­pare: pro­pu­gnando un vasto pro­getto di pic­cole opere, poco costose e ad alta inten­sità di lavoro, dif­fuse, mirate a creare un sistema effi­ciente di tra­sporti su ferro, a valo­riz­zare le aree interne con agri­col­tura e fore­sta­zione di qua­lità, a curare i fiumi e uti­liz­zare le acque interne. Ren­diamo per­ma­nente nell’immaginario nazio­nale l’identificazione fra grandi opere e la casta cor­rotta e impo­niamo la nostra supe­riore progettualità.

Il Paese delle grandi opere costruite al buio

Di Marco Ponti, Il fatto quotidiano, 25 giugno 2014.

SPRECO GARANTITO. Solo in Italia non c’è obbligo di sottoporre i progetti finanziati dallo Stato, come Mose o Expo, a valutazioni economiche di esperti indipendenti.

In Italia si costruiscono grandi opere, ma nessuno spiega perché. Il 6 giugno, al Politecnico di Milano, si è svolto un convegno sulla valutazione economica dei grandi investimenti nei trasporti. L’Italia è un paese peculiare: non ha mai valutato seriamente nulla, nonostante diverse norme lo prevedessero, in particolare quelle ambientali. O meglio, sono state fatte ma sempre con risultati positivi. Trovare tecnici e accademici “non eccessivamente pignoli” non è difficile, soprattutto se retribuiti dai promotori degli investimenti stessi. In Italia, al contrario di quel che avviene negli organismi internazionali e nei paesi sviluppati, non è richiesta alcuna “terzietà” alle analisi: ci si limita a chiedere all’oste se il vino è buono. Solo da pochi tecnici indipendenti, e di rado, sono arrivati dei “no” basati su analisi economiche e finanziarie. I risultati di queste iniziative isolate si sono visti. Ma a danno delle carriere di quegli incauti che hanno fatto le analisi.

Molte mazzette e poche analisi

Quello delle grandi opere pubbliche è uno dei pochi in cui il governo è autorizzato dalla normativa europea a trasferire risorse alle imprese nazionali. Infatti le gare per l’affidamento sono certo obbligatorie, ma sono sempre e solo vinte da imprese nazionali, e generalmente sempre le stesse. Poi, si sa, le imprese tendono a manifestare gratitudine. E quanto sia diffuso questo sentimento per gli appalti vinti lo vediamo quasi ogni giorno, dalle inchieste sul Mose di Venezia a quelle sull’Expo di Milano, alla stazione sotterranea Alta Velocità di Firenze. Tutte opere per le quali era stata da alcuni sottolineata l’eccessiva onerosità per le casse pubbliche. Ma se per molti attori non fosse esattamente l’economicità e l’utilità dell’opera l’obiettivo principale, si potrebbe leggere un nesso tra i fenomeni di corruzione e lo scarso interesse per valutazioni indipendenti. Oltre a un elevato tasso di corruzione, il settore ha ricadute occupazionali scarsissime per ogni euro pubblico speso (spesso si afferma il contrario, contro ogni evidenza fattuale). Secondo la Corte dei Conti, e viste le cronache giudiziarie, le grandi opere sono anche caratterizzate da straordinari livelli di penetrazione della malavita organizzata e da scarsa innovazione tecnologica (è un settore maturo).

Inoltre, forse anche in relazione all’assenza di valutazioni degne di questo nome, il settore ha dato uno straordinario contributo alla crisi del bilancio pubblico italiano, come dimostrato anche dal prof. Arrighi sulle pagine del Fatto. Ma per fortuna, questo disastro non riguarda tutti i modi di trasporto: le autostrade almeno in buona parte le pagano gli utenti con i pedaggi. Per gli investimenti ferroviari non è così: è tutto a carico dello Stato, e per importi straordinariamente elevati (in media tre miliardi di euro all’anno). Non certo per le linee minori: l’Alta Velocità, un eccellente progetto dal punto di vista degli utenti, ha scavato una voragine nei conti pubblici (si stima che sia costata tre volte di più di opere analoghe nel resto d’Europa). Alcune tratte sono ben utilizzate, altre semi-deserte (la tratta Roma-Milano è percorsa da circa 100 treni al giorno su 300 di capacità, che è un grado di utilizzazione discreto, ma le altre tratte molti meno). Gli utenti sono di categoria medio-alta, ma lo Stato, con straordinaria generosità, ha deciso di non caricare su di loro nemmeno un euro dei costi di investimento. La letteratura internazionale dimostra che l’impatto ambientale di opere ferroviarie di questi tipo varia dal modestissimo al negativo, considerando anche le emissioni in fase di costruzione.

E la festa non sembra affatto finita: sono alle viste una trentina di miliardi di euro a carico dello Stato in nuovi progetti ferroviari, molti dei quali di nuovo analizzati indipendentemente da alcuni studiosi (si veda LaVoce.info), e alcuni con livelli di utilizzazione prevedibili persino inferiori di quelli già realizzati. Oppure invece questa volta la festa sta per finire? Qualche segnale positivo c’è: l’intervento al convegno di cui si è detto di uno dei consiglieri di Matteo Renzi (il deputato del Pd Yoram Gutgeld) ha fatto chiaramente intendere che se i soldi pubblici nel settore dei trasporti vengono buttati dalla finestra come si è fatto finora, difficilmente ne arriveranno altri. Panico tra molti studiosi del settore, abituati a sentire promesse mirabolanti provenienti dai vari governi, e ad assecondarle con analisi molto “benevole”.

È ora di smetterla con i soldi buttati.

Non ci sono più soldi pubblici da spendere con disinvoltura, e certo questa non è una motivazione che di per se possa rallegrare (rallegra però averlo sentito dire con forza da un consigliere di Renzi). E forse una motivazione che rafforza questa c’è: la nuova autorità indipendente per la regolazione dei trasporti sembra fortemente intenzionata a lasciare alla politica la scelta delle infrastrutture, ma senza consentire ai concessionari pubblici e privati chiamati a realizzarle, di sprecare soldi dello Stato o degli utenti, sia con opere sovradimensionate rispetto alla domanda, che con soluzioni irragionevolmente costose.