di Vittorio Emiliani, su Il fatto quotidiano, 8 Marzo 2019
Caro direttore, pur non condividendo per tanti versi programmi e comportamenti dei 5 Stelle, credo che il dialogo con essi vada inaugurato (sarebbe stato fondamentale non fare andare al governo un soggetto pericoloso per la democrazia costituzionale come Salvini) su alcuni punti essenziali. Uno è senz’altro quello della secessione delle Regioni “ricche” e di una sorta di frantumazione dello Stato unitario nato nel 1861 e reso democratico e repubblicano nel 1946. Stato regionale dal 1970 con alcune antecedenti regioni a statuto speciale la cui vita (vedi Sicilia soprattutto) è costellata, impregnata quasi di situazioni e di abitudini negative, se non nefaste e che oggi (a parte la Provincia autonoma di Bolzano che nel 1918 ci prendemmo impropriamente invece dell’Istria) non hanno più il senso che avevano nel dopoguerra.
Se andasse in porto la richiesta della Lega per Veneto e Lombardia e quella (caudataria, politicamente poco spiegabile) dell’Emilia-Romagna, con deleghe in esclusiva di materie fondamentali, avremmo uno Stato dal vestito arlecchinesco e non uno Stato regione che evolve verso uno Stato federale voluto, pensato, strutturato con un centro “forte” alla tedesca. Dove nessuno si sogna di contestare Berlino e le materie rimaste al Bund (tutte quelle di portata davvero nazionale e internazionale). Avremmo 4 Regioni a statuto speciale e 2 Province Autonome, altre 2 Regioni con deleghe e poteri rinforzati e autonomi e una terza sulla stessa linea d’onda e le altre, compreso il Lazio dove – bizzarramente, diciamolo – Roma la capitale dipende dalla Regione, le quali aspirano (tutte per ora, tranne il Molise) ad avere poteri speciali rispetto al centro, a Roma. A quel punto Capitale “ornamentale” e poco più. L’opposizione dei 5 Stelle è benvenuta perché quella del Pd risulta alquanto dimessa dal momento che questo fracasso leghista è stato reso possibile dalla incredibile “riforma” del Titolo V della Costituzione voluto in fretta e furia da alcuni giuristi del Partito democratico (c’era ancora Franco Bassanini, mi pare) che così sperava ingenuamente di captare simpatie e voti leghisti. Invano. Ma la natura “orizzontale” dello Stato regionale è rimasta. Foriera di caos.
Fra le materie che Lombardia, Veneto e, in parte, Emilia-Romagna, pretendono ci sono i beni culturali, l’ambiente, il paesaggio. Il volto e la ricchezza del Belpaese sfregiato proprio da loro.
Infatti sono le tre regioni dove il consumo di suolo è stato sin qui pazzesco, il doppio delle medie europee, dove le cave per il cemento non si contano, dove la superficie coperta da cemento+asfalto raggiunge, a parte il
Napoletano, la Terra dei fuochi (non a caso), le percentuali più disastrose: a Milano il 54%, a Brescia, Monza e Bergamo poco meno. Così ad ogni pioggia battente il Seveso straripa. Come il Bacchiglione o il Brenta nel Veneto. Una bella gestione del territorio, non c’è che dire. Bisogna dire che Emilia-Romagna allora “rossa” e Veneto “bianco” furono fra le prime ad approvare i piani paesaggistici richiesti dalla legge Galasso nel 1985. La Lombardia no. Tante altre regioni nemmeno. La Sicilia, la più “abusata”, non si pose nemmeno il problema.
È cambiato qualcosa col Codice per il Paesaggio (Urbani e poi Rutelli) e la sua co-pianificazione Regioni-ministero? Macché. Tre sole Regioni hanno approvato i piani paesaggistici (Puglia, Toscana e Piemonte, in parte la Sardegna, in anticipo, ai tempi di Soru). Le altre sono in ritardo o addirittura immobili. Si sono meritate in questo modo l’autonomia in materia urbanistica (leggi contrattate coi privati), paesaggistica, ambientale? La Provincia di Trento ha di recente realizzato fulgidamente la propria autonomia riaprendo la caccia alla Marmotta, specie protetta. Per farne che? Nulla. Per il gusto di ammazzarla.