a proposito del Testo Unico sulle foreste
di Claudio Greppi, 13 marzo
Nelle scorse settimane si è prodotta nelle maglie della rete, fra ambientalisti e addetti ai lavori, una animata polemica intorno al testo di un decreto legislativo recante testo unico in materia di foreste e filiere forestali, passato in Consiglio dei Ministri il primo dicembre e successivamente approvato con alcune modifiche dalle Commissioni Agricoltura e Ambiente del Senato e della Camera, che a quanto pare attendeva soltanto la firma del Presidente della Repubblica. Poi sono venute le elezioni e il capo dello Stato ha altri grattacapi. Credo tuttavia che valga la pena di cogliere l’occasione per fare chiarezza su alcuni aspetti della cultura ambientalista in Italia che rischiano di passare come scontati e molto “ecologicamente corretti”, mentre non è detto che lo siano. L’appello lanciato sul sito Salviamo il paesaggio, e poi rimbalzato su tanti canali di informazione, pare abbia raccolto migliaia di adesioni, dopo quelle di oltre duecento studiosi di discipline naturalistiche in tutta Italia. Troviamo ecologi, botanici, zoologi, persino entomologi, e poi anche oncologi, fra i quali non pochi amici personali: pochi, invece, i docenti delle discipline forestali, il che stupisce trattandosi del Testo unico che dovrebbe regolare proprio la gestione sostenibile delle foreste: i quali forestali rispondono infatti con un contro-appello che invita il Presidente della Repubblica a firmare senza indugi
Ma anche un profano, che si occupa di paesaggio, può restare colpito quando trova nell’appello un’affermazione come la seguente: “Il Decreto assume, contro ogni evidenza scientifica, la necessità di una gestione selvicolturale del patrimonio forestale per la prevenzione del dissesto e degli incendi e la tutela del paesaggio. Se è innegabile che la selvicoltura è un’attività economica di enorme importanza, che non può certamente essere esclusa da tutti i nostri boschi, dobbiamo con forza sottolineare come sia infondato e paradossale attribuirle aprioristicamente, in modo generalizzato, capacità di tutela contro eventi come le frane o l’erosione.” E ancora di più quando l’appello se la prende con il fatto che il decreto “contempla l’eliminazione del bosco al fine di conservare paesaggi agrari in abbandono, azione scientificamente discutibile, che contrasta le naturali tendenze dinamiche degli ecosistemi, utili alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla tutela idrogeologica. Solo in situazioni di paesaggi storici di particolare rilievo o di comunità secondarie di elevata importanza ecologica (e a seguito di approfondite ricerche) si può pensare di contrastare la naturale evoluzione a bosco.”
L’abbandono del patrimonio forestale a se stesso ha sicuramente i propri sostenitori, per i quali esistono anche evidenze scientifiche che proverebbero che solo così si ricostituisce la biodiversità. Per quanto mi riguarda conosco piuttosto ricerche, come quelle di ecologia storica, che dimostrano proprio il contrario, e cioè che la presenza umana favorisce la diversificazione specifica e la manutenzione degli habitat. Forse i sostenitori dell’appello si inalberano – metafora quanto mai appropriata! – quando leggono “selvicoltura” e pensano soltanto a giganteschi caterpillar intenti a mangiare quel che resta del “povero patrimonio boschivo” (il quale costituisce quasi il 40 % della superficie italiana, e in Toscana oltre il 50 %, e cresce annualmente, spontaneamente, di circa 100.000 ettari). Nel decreto si insiste invece molto puntualmente sul concetto di gestione sostenibile dei boschi: che non è detto che debba essere affidata alle imprese, ma riguarda più in generale le comunità che ancora vivono nelle aree interne.
Proprio di recente è stato pubblicato dalla LEF un libretto dal titolo Coltivare e custodire. Per una ecologia senza miti. L’autore è Sandro Lagomarsini, parroco di Càssego in alta Val di Vara, fra Liguria, Emilia e Toscana: qui il destino della montagna è affidato ai suoi abitanti, alle conoscenze che si sono formate nel tempo, alla capacità di reagire all’abbandono con risposte adeguate. Un esempio fra i tanti: quello del mirtillo, una risorsa che può avere anche un valore economico nel rilancio della montagna. Lagomarsini spiega molto chiaramente che se gli alberi vengono lasciati crescere questa preziosa piantina non trova più luce a sufficienza per produrre i suoi frutti.
“Anticamente compariva nei certificati catastali – è sempre il Lagomarsini che parla – la sigla che stava per ‘pascolo alberato’, uno dei tanti tipi di sfruttamento soffice e flessibile del terreno. La dicitura è stata cancellata, prima dall’idea che il bestiame danneggi il bosco (…), poi dal censimento dei pascoli, fatto in estate con le foto aeree. In questo modo il sottobosco, proibito l’uso artigianale di foglie e sterpi, diventa una coltre spessa, esca per il fuoco nei periodi di siccità. (…) La seconda grave ‘malattia’ dei boschi è la mancanza di cure finalizzate a un ritorno economico. In alcune zone l’alto fusto è un investimento, ma richiede molti interventi di ripulitura. In molte aree è conveniente un taglio più frequente. In ogni caso, il bosco maturo va tagliato: anche il legno che marcisce produce anidride carbonica.”
L’autore sa benissimo che ci sono situazioni molto diverse sia dal punto di vista ambientale che da quello storico ed economico. Sta alle Regioni e ai piani forestali – previsti nel Testo unico – trovare le soluzioni più adatte alle condizioni locali. E nel testo del decreto compare anche un riferimento esplicito – una volta tanto – al Codice del paesaggio per quanto riguarda la definizione delle ‘Aree assimilate a bosco’, ovvero “le formazioni vegetali di specie arboree o arbustive in qualsiasi stadio di sviluppo, di consociazione e di evoluzione, comprese le sugherete e quelle caratteristiche della macchia mediterranea, riconosciute dalla normativa regionale vigente o individuate dal piano paesaggistico regionale” (art.4).
Mi viene in mente un episodio che risale al 19 giugno del 1996: la disastrosa alluvione di Pruno e Cardoso in comune di Stazzema nelle Apuane, che fra l’altro provocò 14 morti. Ministro dell’ambiente era Edo Ronchi, verde irriducibile, che ebbe come prima reazione quella di attribuire la causa del disastro alla “eccessiva cementificazione”. Siamo nel profondo della valle del torrente Vezza, a monte di Ponte Stazzemese: perfino il ministro degli interni di allora (Giorgio Napolitano, che aveva la delega alla Protezione Civile nel governo Prodi) non poté fare a meno di far notare che l’ultima costruzione, da quelle parti, risaliva al 1950. La polemica rimbalzò anche in sede di Commissione sulla Protezione civile, come si legge nel verbale (seduta pomeridiana del 25 giugno 1996), quando venivano esaminate le responsabilità ‘umane’ oltre a quelle dell’evento che si riconosceva come eccezionale: “Tuttavia queste concause – recita il verbale – vengono identificate in termini abbastanza limitativi come rifacimenti viari non rispettosi delle pendenze trasversali, insufficiente ampiezza di talune luci di ponti, presenza soprattutto nel fondovalle di passerelle e costruzioni, nonché la scarsa manutenzione degli alvei nel tratto montano e la mancata potatura di alcuni boschi causa dell’appesantimento dei terreni”.
La causa principale va senz’altro vista nell’abbandono: non solo delle opere idrauliche, ma di tutte le pratiche agro-forestali e in particolare della manutenzione del bosco, che qui è in gran parte costituito da castagneti faticosamente arrampicati sui ripidi versanti grazie a sistemazioni con terrazzi retti da muri a secco. Da notare che questo tipo di bosco, che ha costituito almeno a partire dal Trecento la principale risorsa alimentare della montagna, oltre a offrire opportunità di pascolo e molti altri servizi, nelle ultime rilevazioni dell’uso del suolo, quelle fondate sul progetto europeo Corine Land Cover, non è più riconoscibile come tale, visto che viene compreso nella generica categoria delle latifoglie (per non parlare della scomparsa del pascolo alberato…). La mancata manutenzione dei castagneti, a monte di Cardoso, ha certamente la maggiore responsabilità nel disastro alluvionale del 1996: gli alberi e i loro sostegni in pietra sono precipitati insieme sotto la spinta di una pioggia torrenziale (è in questa occasione che è nata l’espressione ‘bomba d’acqua’).
Va segnalato che il Piano del paesaggio approvato quattro anni fa dalla Regione Toscana prendeva in considerazione questo aspetto, quando segnalava fra le criticità del versante marittimo delle Apuane: “Il fenomeno più preoccupante legato all’esaurimento delle pratiche agricole è il degrado delle sistemazioni idraulico-agrarie tradizionali (muri a secco, terrazzi, lunette) che sostengono i ripidi versanti del territorio montano, con conseguenze molto gravi sulla stabilità dei suoli e sull’equilibrio idrogeologico dell’intero ambito”. Per cui fra gli indirizzi per le politiche troviamo “Per la parte montana gli indirizzi sono relativi al mantenimento delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali, indispensabili per la conservazione dei paesaggi montani di alto valore naturalistico”. Questo il parere dei colleghi che facevano parte del gruppo di lavoro del Piano, tutti provenienti dalle università di Firenze, Siena e Pisa, e non del tutto sprovveduti.
Non tutta la “comunità scientifica” è schierata con l’ultra-ambientalismo dell’appello contro il Testo Unico forestale. E’ facile raccogliere firme contro “chi vuol distruggere i boschi”, se non si spiega come stanno veramente le cose. Proviamo a spostare i termini della questione: si tratta di scegliere non fra ecologia e selvicoltura, ma fra abbandono e presenza umana, fra inselvatichimento e domesticazione. L’equivoco nasce dall’espressione, largamente usata, “rinaturalizzazione”: come se nella storia naturale esistessero condizioni di equilibrio da raggiungere per poi godere di una presunta stabilizzazione. In gioco è il destino della montagna e di tutta la rete insediativa che si fonda sulle risorse da “coltivare e custodire”, come recita il titolo del testo di Sandro Lagomarsini. Nel maggio del 2015 si tenne fra Torino e la Val di Susa un convegno della Società dei territorialisti dedicato al “Ritorno alla montagna”: un tema che ritorna ad essere attuale, a condizione di non chiudersi dietro i miti dell’ultra-ecologia.
Claudio Greppi, marzo 2018.
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Condivido la posizione espresso da Claudio Greppi e vivo con sofferenza le tante prese di posizione (troppe, prive di analisi, infarcite di luoghi comuni) basate su una superficiale visione della conservazione che non tiene conto del fondamentale ruolo della gestione.
Ci sono aspetti della norma che sono discutibili, come l’equiparazione delle aree abbandonate ad evoluzione naturale delle zone montane con quelle delle zone rurali. Queste ultime costituiscono ambienti che hanno maturato condizioni di biodiversità completamente cancellate su ampie zone pressoché desertificate e non si può decretarne il ritorno automatico alla funzione produttiva, senza aver valutato lo stato delle reti ecologiche locali (in cui rappresentano spesso isole di recupero funzionale degli agroecosistemi locali, da ampliare e collegare, non certo cancellare).
La discussione potrebbe essere molto articolata, ma ritengo che vada fatta sui contenuti e non su principi astratti. Così come nell’articolo controcorrente di Claudio Greppi.