se la città è una “public company”
di Urbanistica PUC, 22 novembre.
Il 29 novembre, presso l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna è in calendario l’approvazione della proposta di legge urbanistica regionale, ferale attacco alla pianificazione delle città e del territorio. In nome dell’interpretazione del Piano come atto autoritario, l’urbanistica viene oggi annientata. Autoritariamente, tuttavia.
Il disegno di legge, animato da spirito neocapitalistico, riprende e attualizza temi e linguaggio della cosiddetta, mai varata, legge Lupi (2005). La deregulation auspicata dagli industriali (coinvolti, del resto, nella redazione del testo normativo) si invera in ogni passo del testo di legge, accompagnato per mesi da una propaganda istituzionale a suon di slogan: stop al consumo di suolo, rigenerazione urbana etc.
Con gli “accordi operativi” il Ddl ricorre massicciamente alla contrattazione pubblico-privato, nel vuoto pianificatorio. Dietro il paravento della “rigenerazione urbana” nasconde un quadro di demolizioni, anche nei centri storici, e di dislocamento (displacement) dei residenti. A cinquant’anni dal decreto 1444/1968, la proposta legislativa annulla gli standard urbanistici che garantivano ai cittadini italiani l’accesso universale ai servizi e al verde urbano. Per un commento critico corale, approfondito e comparato, rimandiamo al libro “Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna” (Pendragon, 2017).
Ma, tecnica a parte, vogliamo qui sollevare la questione politica.
La proposta di legge si fonda su una struttura logico-interpretativa di stampo squisitamente economicista. La «città è una public company» affermano i funzionari regionali (cfr. la registrazione ufficiale del convegno tenutosi in Regione Emilia-Romagna il 15 novembre 2017[1]). E se la città è una società per azioni ad azionariato diffuso, se i cittadini sono i «proprietari della città» (ibidem), la rigenerazione urbana – abbandonato qualsivoglia carattere progressivo in senso sociale – diventa uno strumento di «convincimento» dei cittadini a «investire sul patrimonio di cui sono proprietari» (ibidem). Chapeau: la casa passa da diritto ad asset, a mero oggetto di investimento. La casa, sullo stesso piano di merci e di titoli finanziari. In questo facile sillogismo, l’urbanistica si trasforma in disciplina della negoziazione. Al macero dunque i cittadini in affitto e quelli che neanche si possono permettere regolarmente un tetto a pigione.
All’interno della logica mercantilista, si sa, qualunque forma di pianificazione contrasta con la libertà incondizionata, carattere fondante dell’economia di Mercato. E perciò la Regione che fu il faro dell’urbanistica italiana (e, per certi versi, europea) dà oggi guerra al Piano. In luogo dei «metodi predittivi» (ibidem) che «consegnano la rendita a chicchessia» (ibidem), è la “strategia” che «dà il comando». Dunque, contribuire all’annullamento delle diseguaglianze sociali e fornire un buon ambiente di vita – compiti costantemente sotto attacco da parte della speculazione fondiaria, immobiliare e finanziaria – sono ora in capo alla Strategia (art. 34), a un’arte militare.
Chi poi realmente sia destinato al comando sulle trasformazioni del territorio comunale è una questione che non trova risposta nell’articolato, se non nell’augurale espressione di un intento formulato tra i principi generali: «la presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). È sicuro invece che Comuni e (grandi) proprietari si produrranno in tavoli di “co-decisione” assai poco democratici – chi, come decide? in quali sedi? – e punto partecipati.
Se approvata, la legge sottrarrà ai Comuni la potestà normativa sulle trasformazioni edilizie e territoriali, contro il dettato costituzionale. Il Comune infatti, secondo il Ddl emiliano, «non può» quantificare le dimensioni volumetriche delle trasformazioni, né localizzarle (art. 33, comma 5). «Non può»: lo ripetiamo, è testo di legge. «Non può» redigere tavole, né disporre una disciplina di dettaglio: nessuno deve contrastare le presunte virtù autoregolative del Mercato.
È in questa visione normativa, basata su costi, rendita, produttività, profitability, che si inserisce lo sbarramento del 3% di suolo nuovamente consumabile (non riguardante però insediamenti produttivi e logistici che si ritengano “strategici”; art. 6, comma 5). Le previsioni edilizie dei comuni emiliani si configurano oggi come rendita passiva: 250 kmq di nuova edificazione, troppi in periodo di crisi (ma tali non erano prima del 2008…). Il 3%, che comporterà la cancellazione delle previsioni comunali inattuate, entra in vigore, si badi bene, non prima di tre/cinque anni di “interregno” che vedranno, crisi o non crisi, ulteriore cementificazione.
Nella ratio del Ddl, il Piano comunale rappresenta il retaggio di un passato da dimenticare, scomodo reperto di una «collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato» (C17). Ma i mezzi per impedire l’autogoverno della società locale, e la conseguente formazione del Piano come espressione del progetto collettivo di tutela e trasformazione della città e del territorio, hanno proprio il sapore di quella “violenza” che si vorrebbe ora obliterare. Eterogenesi dei fini o stalinismo al servizio del Capitale?
*Gruppo urbanistica perUnaltracittà
[1] La registrazione è consultabile, per novanta giorni dalla sua pubblicazione, al seguente indirizzo: http://videocenter.lepida.it/videos/video/3404/. Il convegno, intitolato “Privatizzare l’urbanistica? Commento alla proposta di legge urbanistica delle Regione Emilia-Romagna”, è stato organizzato dai gruppi consiliari: Altra Emilia Romagna, Gruppo Misto (Art. 1-MDP) e Sinistra Italiana.