di Roberto Barzanti, 21 novembre 2017
Talvolta realizzazioni destinate a durare nel tempo e a modificare spazi storici di enorme rilevanza sono avviate sull’onda di improvvise, non programmate sollecitazioni. E così l’effimero origina opere che mutano per sempre l’articolazione di ambienti ritenuti noti in ogni dettaglio. Oggi i cosiddetti Magazzini del sale del Palazzo Pubblico sono mutevole teatro, sebbene di difficile gestione, di esposizioni le più diverse. Non si può dire che abbiano assunto con gli anni una ben definita identità. È, pertanto, utile ripensare il processo che li fece nascere una quarantina d’anni fa. Il seminario di aggiornamento professionale promosso dall’Ordine degli architetti per il prossimo 24 novembre nella Sala delle Lupe sarà una buona occasione per ripercorrere una vicenda poco conosciuta e trarne anche qualche conclusione di metodo e di merito. Carlo Nepi e Massimo Carmassi hanno il compito di svolgere un’impegnativa relazione di apertura (“Riflessioni sul restauro contemporaneo”) e sarà interessante ascoltarla, interloquire, o leggerla, anche per i non addetti ai lavori (tra i quali chi scrive). A conclusione dell’incontro coordinato da Nicola Valente è prevista una visita guidata da Mario Terrosi, che spiegherà il progetto a sua firma facendo rivivere un momento cruciale del dibattito sulla cultura e le sue potenzialità. La mostra recente di circa 150 pezzi della collezione Salini (“Siena dal ’200 al ’400”) ospitata nei Magazzini è stata una dimostrazione esemplare di uso corretto di spazi che richiedono una lettura strutturale attenta e rispettosa, di volta in volta modulata secondo gli oggetti prescelti. Non sarebbe male che la bellissima mostra costituisse una specie di nuovo inizio. Se il seminario si soffermerà anche sulle molte questioni che portarono a inventare un ambiente così singolare contribuirà a toccare temi spinosi e attuali. Ad esempio ci si può chiedere fino a che punto si potesse parlare in senso stretto di restauro per quelle che le delibere adottate dal Comune a partire dal 1977 individuavano piuttosto come carceri. L’uso di questo stacco, una sorta di trascurata e occultata appendice che lo separava dal corpo del Palazzo Pubblico, era triviale, se non dimenticato. Per ricavare «un insieme al tempo stesso cupo e fantasioso – annotò Cesare Brandi commentando la mostra inaugurale dedicata al ‘suo’ Rutilio Manetti – con improvvisi alti soffitti come baratri, volte poderose, archi massicci» si riportarono alla luce le parti che l’interramento aveva cancellato. Furono riscoperti i fondamenti della Torre del Mangia e l’inaccessibile cisterna di raccolta delle acque. Fu eseguita, insomma, a tempo di record, una strategia finalizzata in effetti alla creazione di una sintassi del tutto nuova, ad un’articolazione che guardava ad un futuro non frenato dalla timorosa fedeltà al passato. Adottando i principi sanciti dalla Carta del restauro, ma adeguandoli spregiudicatamente a coraggiose soluzioni. Il rapporto tra restauro storico e reinvenzione funzionale contemporanea è – credo – uno dei temi essenziali che emergono quando si mette mano a imprese del genere. Il tema è stato uno dei più travagliati anche per il Santa Maria della Scala. Un punto di carattere storiografico viene in primo piano. Sono state molte le situazioni nelle quali sono affiorate insoddisfazioni su un modo ellittico e monco di affrontare questo tipo di problemi. Nelle (troppe) polemiche sul Santa Maria si parlò di un progetto Brandi-Previtali non seguito negli scopi per i quali era stato concepito. Ma non c’è mai stato un progetto vero e proprio che potesse accomunare i due insigni maestri. E Brandi giunse infine alla locuzione simile a quella oggi acquisita di “Centro polivalente per l’arte” a seguito di un confronto aperto. E la committenza fece la sua parte. Per capire la fisionomia assunta dai Magazzini non sarà sufficiente istituire una linea diretta tra disegno e realizzazione. Un’idea, o una proposta divengono progetto e si concretizzano sulla base di una serie di interferenze, contaminazioni, modifiche senza evidenziare le quali ogni discorso critico resta monco. La dimensione politico-amministrativa è importante quanto, se non più, del lavoro propriamente tecnico e creativo di chi è incaricato di mettere su carta quanto si deve – si può – fare. Se si rilegge la delibera del 14 febbraio 1977 si constata che le iniziali preoccupazioni dominanti erano attivate dalla volontà di trovare nuove ubicazioni per il Museo civico. E la scintilla che accese il fuoco fu un esiguo finanziamento regionale, al quale si accoppiò successivamente un’iniziativa che, lì per lì, parve bislacca: organizzare una mostra nel quadro di una manifestazione dedicata a “Arte e vino in Toscana”. I tempi stringevano ed ecco confluire una bella fetta di utili del Monte dei Paschi verso un’idea che si sarebbe sviluppata sotto la guida di un comitato scientifico presieduto da Brandi e comprensivo di una quantità impressionante di esperti: da Briganti a Cairola e Carli, da Previtali a Sricchia e Torriti, e non mancavano presenze internazionali di spicco. Nel consiglio comunale le cose non andarono affatto lisce. Le procedure furono accelerate. L’approvazione fu faticosa. L’assessore all’urbanistica Fabrizio Mezzedimi ne sa qualcosa: senza la sua entusiastica tenacia non si sarebbe arrivati in porto. L’elaborazione stessa del progetto coinvolse gli uffici tecnici del Comune in termini molto incisivi. Sicché fu, come ogni progetto architettonico di così delicata complessità, il risultato di un lavoro collegiale e interdisciplinare, nel quale chi aveva responsabilità di governo non stette a guardare. Ebbene: per ricostruire e approfondire qualità dei risultati è essenziale coinvolgere tutti i protagonisti, in modo da leggere le carte, cogliendo in controluce propositi e revisioni, i fini non raggiunti e il destino del dopo. Se si vuol far sì che tra architettura, committenza, energie intellettuali e domande sociali si riattivi un dialogo che, guardando al passato prossimo, intervenga su un presente non delegabile a gestioni esterne pressoché autoreferenziali.
Roberto Barzanti