di Tomaso Montanari, La Repubblica Firenze, 22 ottobre.
Quando il terzo spirito gli mostra il futuro che lo aspetta, Ebenezer Scrooge si spaventa davvero, e promette di ravvedersi: ed è con la sua nuova vita che Dickens chiude il Canto di Natale. Ecco, lo spettro del tunnel Tav senza la stazione Foster può farci intravedere – con la forza che hanno le cose che ci riguardano direttamente – il futuro che ci aspetterebbe se il 4 dicembre vincesse il Sì, ed entrasse in vigore il nuovo titolo V della Costituzione.
Il nuovo articolo 117, infatti, esclude le Regioni dalla legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Enrico Rossi voterà Sì, e dunque voterà anche per questa norma, che toglierà a lui stesso (e, con lui, a tutti i toscani) la possibilità di opporsi al tunnel.
Il referendum sulle trivelle nacque dal fatto che la Corte Costituzionale riconobbe che lo Sblocca Italia aveva espropriato alcune Regioni del diritto di decidere: ora quel diritto viene espunto dalla Costituzione. Il ruolo delle comunità locali nel processo decisionale delle grandi opere è un nodo fondamentale. Nel 2015, il Tribunale Permanente per i Diritti dei Popoli (istituzione fondata da Lelio Basso, grande costituente e ‘padre’ del cruciale articolo 3) ha emesso una storica sentenza sul Tav in Val di Susa, raccomandando ai governo italiano di «rivedere la legge obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio».
Ma la riforma della Costituzione va nella direzione opposta: opposta anche a ciò che papa Francesco ha scritto nella Laudato sii, dove si legge che «nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di “interventi” sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate».
Si tratta di due modelli alternativi: costruire il consenso coinvolgendo le comunità e le istituzioni locali, o passare sopra la loro testa attribuendo la decisione al potere centrale. Entrambe hanno un rischio: il primo modello mette in conto la possibilità che quel consenso non si crei, e che dunque l’opera non si faccia; il secondo, invece, desertifica la democrazia, e può portare ad un clima da occupazione coloniale dei territori della Repubblica.
È quest’ultimo scenario quello che si è concretizzato di Val di Susa, e ora è Firenze a rischiare di trovarsi nella stessa situazione: quella di una comunità che si vede imporre un’opera pesantissima, dalla quale non trarrà alcun beneficio.
Comunque la pensiamo, è bene ricordare che il 4 dicembre voteremo aanche sul tunnel nel ventre di Firenze.