due interventi su il manifesto del 14 luglio:
Paolo Berdini, Soldi e salute bruciati in città. Luca Fazio, Costruzioni, la follia costa 800 milioni l’anno
Soldi e salute bruciati in città
di PAOLO BERDINI
L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, continua lodevolmente a misurare gli effetti dell’espansione urbana. Nel rapporto presentato ieri, il coordinatore della ricerca Michele Munafò ha richiamato l’attenzione sul dato quantitativo impressionante (35 ettari di terreno viene cementificato ogni giorno) ed ha anche posto l’accento su due questioni che, se prese in carico dalle politiche nazionali, rappresenterebbero la chiave di volta per il rilancio economico dell’intero paese.
La prima questione riguarda il fatto che non è più vero che costruire significa aumentare la ricchezza pubblica. Afferma infatti il rapporto che per sostenere la cementificazione realizzata nel triennio 2012–2015 lo Stato nel suo complesso dovrà pagare 800 milioni ogni anno.
Cifre imponenti in tempi di crisi che potrebbero ad esempio servire per sostenere la riconversione energetica del patrimonio edilizio esistente e che invece vengono “bruciate” per sostenere l’abnorme crescita edilizia. Milano e Roma pagheranno la deregulation urbanistica con 43 e 39 milioni all’anno. Se si tiene conto che negli ultimi anni sono stati tagliati i trasferimenti ai comuni per 17 miliardi, si comprende come siano avviati verso il fallimento economico o -nel migliore dei casi- a dover ridurre la qualità urbana. Teniamo dunque ancora acceso il motore di una macchina che sta minando la nostra civiltà urbana e credo sia necessario assumerne tutte le implicazioni.
In primo luogo si dovrebbe avviare una sistematica politica di riqualificazione delle periferie urbane che rappresentano i luoghi in cui si manifestano maggiormente le patologie sociali. Occorre dunque chiudere per sempre l’espansione urbana e indirizzare ogni risorsa al miglioramento di quanto è stato costruito.
Per farlo occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici anche in zone di elevata qualità.
La legge approvata sembra dunque risentire di una cultura derogatoria che ha provocato soltanto degrado urbano. E’ invece evidente che potremo rendere migliori le nostre città solo se ricostruiremo un sistema di regoli semplici e immediatamente applicabili: con la deregulation degli ultimi 25 anni abbiamo addirittura ampiamente utilizzato nello scacchiere urbano la legge «Obiettivo» del 2001, definita «criminogena» dal presidente dell’Autorità sugli appalti, Raffaele Cantone. La crisi in cui ci dibattiamo dimostra che l’unico modo per far ripartire la filiera urbana è recuperare il profilo etico invano atteso dall’intero paese. E infine il secondo dato preoccupante.
Afferma l’Ispra che a causa della cementificazione la temperatura aumenta di 0,6 gradi ogni venti ettari di terreno cementificato. Sono più dieci giorni che le temperature delle città si attestano intorno ai 40 gradi e ogni attività umana, dal lavoro alla normale vita degli anziani, risente oltre modo di questo fenomeno.
Per combattere il cambiamento climatico in atto occorre coraggio e siamo certi che il ministro competente sarà in grado di trovarlo: invece di espandere ancora le città occorre avviare una gigantesca opera di riforestazione urbana e potremo pensarla soltanto se prenderemo atto culturalmente che l’espansione urbana è un meccanismo inservibile. Continuare sarebbe un errore strategico imperdonabile.
Costruzioni, la follia costa 800 milioni l’anno
di LUCA FAZIO
Uno. In questo momento, trascorso un secondo, in Italia sono già spariti quattro metri quadrati di suolo sotto una colata di cemento. Fanno circa 35 ettari al giorno, una calamità non naturale ma inesorabile che in soli due anni ha ricoperto 250 chilometri quadrati di territorio. E non è stato nemmeno il biennio peggiore, visto che la crisi ha rallentato l’aggressione all’ecosistema Italia.
Solo per restare sui terreni agricoli, in meno di venti anni le superfici edificate hanno “bruciato” oltre 2 milioni di ettari coltivati: il 16% delle campagne è sparito. E continua a sparire al ritmo di 55 ettari al giorno (per ogni cittadino si “erodono” 350 metri quadrati di aree agricole all’anno). Questa follia suicida figlia di uno sviluppo insostenibile che non si arresta – è come continuare a segare allegramente il ramo su cui si sta seduti – ha un costo annuale che è possibile quantificare in oltre 800 milioni di euro.
Questo è quanto gli italiani potrebbero pagare a partire dal 2016 solo per fronteggiare le conseguenze del consumo di suolo del triennio 2012-2015. Le stime dei costi, non solo economici, sono state pubblicate ieri durante la presentazione del rapporto Ispra 2016 sul consumo di suolo in Italia (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). «Nonostante questo rallentamento – ha spiegato Michele Munafò, responsabile del rapporto – il consumo di suolo continua e questo ha delle conseguenze gravi anche i termini economici. E’ importante ricordare che oltre alle aree colpite direttamente l’impatto riguarda anche quelle vicine coinvolgendo ormai oltre la metà del territorio nazionale, provocando la perdita dei servizi ecosistemici che il suolo ci fornisce gratuitamente».
Secondo una stima dei “costi occulti” – quelli non percepiti nell’immediato perché si rivelano tali solo nel calcolo delle conseguenze – ogni ettaro di terreno consumato presenterebbe un conto per la collettività che può arrivare a 55 mila euro. Dipende dal tipo di suolo e dalla sua utilità per l’ecosistema: produzione agricola (400 milioni), stoccaggio di carbonio (circa 150 milioni), mancata protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), danni provocati per la mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni), assenza di insetti impollinatori (3 milioni).
Ma far di conto non basta per dare l’idea della catastrofe in corso su scala globale: «Azzerare le perdite di suolo e migliorare lo stato di salute di quello fertile – ha detto Michele Pisante, commissario del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) – rappresentano due direttrici ineludibili per il pianeta nei prossimi anni. Vincere o perdere questa sfida rappresenterà la differenza tra la vita e la morte per milioni di persone e porrà i presupposti per nuovi equilibri sociali, politici ed economici».
Nelle aree urbane il consumo di suolo altera anche la regolazione del microclima (un aumento di 20 ettari per Km2 di suolo sacrificato provoca un aumento di 0,6 gradi della temperatura), e questo ha un costo. Le tre città campione messe peggio sono Milano (45 milioni), Roma (39 milioni) e Venezia (27 milioni). Inoltre, spiega il rapporto, gli impatti negativi della sottrazione di suolo si producono non solo nelle aree direttamente coinvolte ma fino a 100 metri di distanza.
Le regioni meno virtuose, con più del 10% di territorio consumato nel 2015, sono Lombardia, Veneto e Campania (ma Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche non si sono certo distinte visto che si attestano su valori compresi tra il 7 e il 10%). Si distingue solo la Valle d’Aosta, che comunque ha consumato il 3% del suo territorio. Il fenomeno, curiosamente, riguarda sia i grandi centri abitati, che hanno visto aumentare la popolazione, che i piccoli paesi dove la popolazione non cresce.
A commento del rapporto Ispra, le associazioni dei coltivatori hanno voluto sottolineare altri due aspetti fondamentali per la tenuta del “sistema Italia”. La sicurezza alimentare e il dissesto idrogeologico. «Il consumo di suolo coltivato – ha spiegato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino – rischia di riflettersi sulle cifre dell’approvvigionamento alimentare in Italia, dove a oggi si arriva a coprire il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro. Dovendo ricorrere alle importazioni per coprire questo deficit produttivo».
Su un territorio reso più fragile, scrive Coldiretti, si abbattono i cambiamenti climatici con precipitazioni intense impossibili da assorbire: «Il risultato è che sono saliti a 7.145 i comuni italiani, l’88,3% del totale, che sono a rischio frane e alluvioni” (le regioni con il 100% dei comuni a rischio idrogeologico sono Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata»).
La politica, interrogata, oggi non può far altro che rispondere come Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente del governo Renzi: «Il tema è al centro dell’agenda politica». E’ vero invece che le strategie e le normative in discussione per considerare il suolo un bene comune per anni sono rimaste lettera morta. «Per questo – ha detto Damiano Di Simine della segreteria nazionale di Legambiente – chiediamo al Parlamento di approvare in questa legislatura e in tempi brevi il ddl contro il consumo di suolo, in ballo da quattro anni e ora in discussione al Senato. All’Unione europea invece chiediamo di approvare una direttiva europea sul suolo».
Legambiente, con altre associazioni, a settembre lancerà una petizione popolare europea che coinvolgerà oltre 300 organizzazioni. Obiettivo: raccogliere un milione di firme per spingere le istituzioni comunitarie a legiferare per la tutela del suolo in Europa.