di Tomaso Montanari, La Repubblica, 21 dicembre.
Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale sono state rigidamente separate dalla riforma Franceschini. Ad unirle, ormai, è un orizzonte egualmente nero. Pochi giorni fa un emendamento (il 174bis) alla legge di stabilità ha attribuito al ministro per i Beni culturali la facoltà di accorpare con un suo decreto le soprintendenze archeologiche a quelle già miste per le belle arti e il paesaggio, e di fare altrettanto con le direzioni centrali. Potenzialmente questa facoltà riguarda anche gli archivi e le biblioteche. Sconcertante è innanzitutto il metodo: all’indomani di una riforma radicale, si torna ad intervenire, ma non lo si fa con un dibattito nel Paese e nel Parlamento, bensì con poche righe infilate in corsa. Siamo al limite della costituzionalità, visto che ad essere investita è una funzione (la tutela) garantita dalla Carta al rango più alto, quello dei principi fondamentali.
Nel merito, infatti, si va verso una compressione estrema della componente essenziale della tutela, quella tecnica. Ed è un passo funzionale alla sottomissione delle soprintendenze, così unificate, alle prefetture: l’obiettivo indicato dalla legge delega Madia.
Sul fronte della valorizzazione la notizia è che la politica prende direttamente il controllo dei musei, procedendo verso un modello che inizia ad assomigliare a quello del cda della Rai.
La riforma ha coinvolto direttamente gli enti locali: Comuni e Regioni nominano ora parte dei comitati scientifici dei musei nazionali. Un federalismo museale evidentemente incostituzionale: perché l’articolo 9 parla di patrimonio «della nazione» proprio per evitare quella che, in Costituente, Concetto Marchesi bollò come una pericolosa «raffica regionalista». Perché il sindaco di Firenze e il presidente della Toscana devono mettere bocca nella conduzione scientifica degli Uffizi? Che d’ora in poi Maroni abbia il diritto di influenzare la politica culturale di Brera, Brugnaro quella dell’Accademia di Venezia, De Luca quella di Capodimonte non è una buona notizia: è un altro passo verso la balcanizzazione di quell’unità culturale che è il più importante collante della nazione.
Se a questo si somma l’appello con cui Dario Franceschini ha supplicato le grandi imprese di «adottare» i venti supermusei (evidentemente orfani dello Stato), promettendo esplicitamente un posto nella governance, è chiaro che stiamo andando verso la trasformazione dei grandi musei pubblici in fondazioni di partecipazione, con enti locali e privati alla guida. È facile prevedere che questo aumenterà la mercificazione del patrimonio, con ulteriore asservimento delle ragioni della conoscenza agli interessi del mercato, e all’invadenza delle oligarchie locali.
Ma la politica si fa invadente anche al centro: la riforma dà al ministro il potere di scegliere i direttori chiave, e nominare interamente i cda dei musei. E Franceschini sta nominando i suoi fedelissimi. Nel cda degli Uffizi ha collocato il suo vero braccio destro, e autore materiale della riforma, il giurista Lorenzo Casini. Nessun dubbio sulla sua preparazione, ma Casini è stato il membro chiave nella commissione che ha scelto i superdirettori, e con lui entra nel cda degli Uffizi un’altra componente di quella commissione, Claudia Ferrazzi: un intreccio come minimo assai inopportuno.
Non basta: Franceschini ha nominato un altro suo consigliere (Stefano Baia Curioni) nel cda di Brera, oltre che in quello del Piccolo di Milano. E prima aveva nominato gli stessi Ferrazzi e Baia Curioni nel Consiglio Superiore dei Beni Culturali, il cui regolamento prevede che i membri del Consiglio stesso «non possono essere membri del Consiglio di amministrazione di istituzioni o enti destinatari di contributi o altre forme di finanziamento da parte del Ministero», quali evidentemente i musei. A
Ancora più inquietante è la notiza, apparsa sul Corriere del Mezzogiorno e mai smentita, secondo la quale Franceschini avrebbe chiesto e ottenuto dal presidente della Campania di recedere dalla nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel comitato scientifico di Capodimonte. E il motivo era la dichiarata contrarietà di Spinosa alla riforma dei musei attuata da Franceschini. Davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una sorta di maccartismo contro gli storici dell’arte non allineati: queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla guida del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Nella stessa direzione si può ora leggere la determinazione con cui Franceschini ha voluto direttori stranieri. Il punto non è certo la nazionalità, ma l’estraneità ai nostri ranghi tecnici: la politica — questa politica — preferisce servirsi di moderni capitani di ventura pronti a render conto solo al potere che li ha nominati. Espulsione dei saperi tecnici e invadenza della politica: ad essere rottamato è il progetto della Costituzione.