Di Ilaria Agostini, La città invisibile, 13 aprile 2015.
A dispetto di quanto affermano gli scomposti attacchi del partito unico delle cave e del cemento, che aggrega Forza Italia al PD, siamo dell’opinione che l’assessorato di Anna Marson lascerà di sé, in Toscana, perlomeno un “buon ricordo”: in effetti, per l’intero quinquennio 2010-2015, l’operato dell’assessore regionale all’urbanistica ha fattivamente opposto resistenza al disfacimento che da anni caratterizzava il governo del territorio toscano. Ma quale ne sarà il destino?
Ricordiamo in breve com’è andata. Una corposa percentuale di voti “di protesta” in favore di un partito (ormai defunto) radicalmente diverso dal PD ma ad esso coalizzato, impone a Rossi un personaggio “di rottura” in giunta: Anna Marson, prof di urbanistica allo IUAV, si trova così a prendere – con soddisfazione dei comitati – il posto che fu del piddìno Riccardo Conti (assessore decennale di cui sì, è serbata pessima memoria, basti rammentare l’inqualificabile campagna divulgativa dell’autostrada tirrenica). È un cambio epocale, ma su di esso grava dal primo istante l’ombra lugubre della scissione dell’assessorato contiano: le infrastrutture e i trasporti vanno a Ceccobao (sindaco di Chiusi, comune del senese distintosi allora per non aver redatto il proprio piano strutturale) che, in seguito alle indagini sul Monte dei Paschi, sarà sostituito dall’aretino Ceccarelli; alla prof restano le competenze dell’urbanistica, della pianificazione del territorio e del paesaggio.
Temi – territorio e paesaggio – al centro degli strumenti normativi che la Marson lascia in eredità alla regione: la legge regionale di governo del territorio e il piano paesaggistico.
La LRT 65/2014, Norme per il governo del territorio, assumendo come non più ecologicamente e socialmente sostenibile la crescita dell’urbano, e prendendo atto della disfatta dei sindaci plenipotenziari di fronte alla bolla edilizia, blocca l’espansione urbana e concentra l’attenzione sulla cura della città e del territorio, sull’incremento delle pratiche partecipative alla definizione delle scelte di governo territoriale, sull’interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Il contenimento del consumo delle terre fertili è garantito dall’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate che definisce con perentorietà città e campagna: ogni nuova edificazione residenziale al di là della “linea rossa” sarà interdetta, e ulteriori progetti per insediamenti produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del Piano di Indirizzo Territoriale (art. 25). Attualmente, nell’anno internazionale del suolo, la legge è ferma, impugnata (proprio sull’appena citato articolo che impedirebbe la libera concorrenza commerciale) dalla direzione legislativa della presidenza del consiglio. Ne abbiamo già scritto, ma dovremo tornarci in conclusione.
Il Piano Paesaggistico nasce dalla revisione del precedente piano (firmato Conti) la cui evidente inefficacia fu stigmatizzata dal ministero dei beni culturali che, nel settore paesaggio, copianifica con la Regione: a fine 2010 se ne rende necessaria la riscrittura. Il piano del paesaggio, come prevede il Codice dei Beni Culturali, è sovraordinato alla pianificazione generale: ciò lo rende uno strumento tanto importante quanto temibile. Redatto dalle università toscane con il coordinamento scientifico di Paolo Baldeschi, il nuovo piano avrebbe potuto essere un dispositivo normativo all’avanguardia se la squadra PD-FI non ne avesse stemperato la cogenza a colpi di emendamenti e «imboscate», anche personalmente dirette all’assessore Marson, che rendevano possibile la riapertura delle cave in aree protette sopra i 1200 m, la costruzione edilizia non temporanea sugli arenili, e che rendevano opzionale la prescrittività delle “criticità” (ossia: se il PP segnala come criticità l’edificazione in aree a rischio idraulico, il comune può decidere, oppure no, di seguire la prescrizione regionale a non edificarvi). Il cosiddetto “maxiemendamento” – stilato di gran fretta, a Roma, da Rossi e dal ministro Franceschini – ha riportato il piano, approvato in maniera rocambolesca e all’ultimo tuffo, a un livello di civile qualità pianificatoria seppur abbia perso di incisività ad esempio riguardo all’escavazione industriale del marmo apuano.
Al di là degli indeboliti disposti normativi, si tratta di un atto di pianificazione che, finalmente, non contrappone ambiente a lavoro, ma interessi collettivi a interessi privati «finalizzati al profitto mascherato da occupazione e sviluppo», come afferma l’assessore. Il piano paesaggistico, costituito anche da un apparato conoscitivo ricco e articolato che potrà riversarsi nei piani strutturali, assicura perciò, in futuro, un diffuso incremento qualitativo nella pianificazione comunale. Il documento dà adito inoltre a una progettualità che crediamo sia necessario mettere a frutto localmente (e dal basso, magari) nei prossimi anni.
In entrambi gli atti – la legge e il piano – il superamento dell’idea meccanicista del territorio come supporto inerte risulta compiuto: il paradigma adottato dai due strumenti è di chiara matrice ecologista. L’attribuzione, “territorialista”, di valore culturale all’ambiente rurale è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (LRT 64/15, art. 3). Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio» e dei paesaggi regionali, quale bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.
All’orizzonte, tuttavia, molti sono gli ostacoli. Da una parte, un panorama legislativo nazionale avverso, che mira all’erosione degli spazi democratici nel governo del territorio: basti citare lo “Sblocca Italia” i cui contenuti deformano irrimediabilmente la materia urbanistica che peraltro la riscrittura dell’art. 117 della Costituzione trasferirà in potestà esclusiva allo Stato. Dall’altra, entra invece in gioco l’«asse Firenze-Roma» (l’ombrosa citazione è tratta dal programma elettorale di Nardella). A Roma, Renzi impedisce l’avvio della legge toscana, la prima in Italia contro il consumo di suolo, riconfermando la scelta miope di un’economia nazionale fondata sul mattone e sulla speculazione finanziaria nell’edilizia. Localmente, il partito unico del cemento mira alla privatizzazione dei beni territoriali più rari, Rossi essendo sempre meno autonomo rispetto alla Firenze-Roma e sempre più debole nelle gestione dei suoi (come è stato evidente nella questione paesaggio). E poi: il sottoattraversamento TAV di Firenze, la questione portuale e aeroportuale (l’aeroporto che scardina il progettato Parco della Piana Firenze-Prato), gli inceneritori, la geotermia, i rigassificatori, i quattro ospedali in project financing etc.
Insomma, in mezzo a questa «furia iconoclasta», cui gli assessorati della giunta Rossi (certamente quello all’ambiente) hanno dato il loro valido contributo, i prodotti del quinquennio Marson rappresentano un’importante costruzione civile e disciplinare dal carattere di eccezione; in merito alla loro applicazione o, addirittura, alla loro futura conservazione, tocca tuttavia affidarsi alla buona sorte. O perseverare nel far collettivamente pressione affinché essi restino, appunto, più di un “buon ricordo”.