Di Guido Viale, il manifesto, 12 marzo 2019.
Come mai un moscerino come il Tav (“ma è solo un treno!” diceva Bersani) è diventato un elefante intorno a cui si giocano le sorti di governo, sviluppo, benessere e buon nome della nazione? Difficile capirlo da giornali e Tv.
Sono tutti in mano all’Union sacrée SìTav tra Meloni, Salvini, Zingaretti e Berlusconi; più Confindustria, sindacati, bocconiani e madamine. Un’Unione sacra si fa per andare in guerra; e infatti, sul Tav Torino-Lione c’è una guerra dei Trent’anni: dai ’90 del secolo scorso a oggi.
Tre precisazioni: il Tav è un treno; così lo chiamano i valsusini, i loro amici e i documenti tecnici, che loro conoscono bene; la Tav lo dicono invece i suoi supporter, per mancanza di rapporti sia con i valligiani che con i documenti tecnici. Poi il Tav Torino-Lione non è un treno ad alta velocità, ma ad alta capacità, per il trasporto di merci e, in subordine, passeggeri: ma alla velocità di convogli merci lunghi un chilometro e con 2000 tonnellate di carico. Eppure, tra i giornalisti di Repubblica c’è chi sostiene che i 5Stelle non vogliono “la Tav” perché sono contro la velocità, cifra irrinunciabile della modernità. Infine, il Tav Torino-Lione non è solo una galleria di 57 chilometri, cuore di quella guerra: è anche la tratta dalla galleria a Lione, che non sarà progettata prima del 2038 né realizzata prima del 2050, rendendo del tutto inutile la galleria superveloce, se mai verrà ultimata prima; e la tratta verso Torino, che non si sa ancora da dove dovrebbe passare. Effetto analogo: rende inutile la galleria.
In questa guerra gli avversari si sono costruiti nel corso del tempo. Trent’anni fa, all’idea di far attraversare da una nuova ferrovia ad alto impatto una valle lunga e stretta, già gravata da una strada statale, un’autostrada, una linea ferroviaria e un elettrodotto ad altissima tensione, la popolazione era insorta. Nel conflitto –cariche, arresti, denunce, calunnie non sono mai mancate: tutte da parte dei “galleristi” – si sono andati costituendo cultura e vita quotidiana di una vera comunità; anche grazie a una capillare informazione: non solo su quel treno, ma sull’intero futuro del pianeta. Per questo oggi i valsusini sono la popolazione più acculturata d’Italia. Cultura diffusa vuol dire democrazia, scelte consapevoli; proprio quello che ha scatenato governi e opposizioni contro la valle.
Unica eccezione, i 5Stelle, che ne hanno sostenuto le lotte. Ma la democrazia colta e radicata di una comunità in lotta non è quella di un comico un po’ bollito.
Molti hanno spinto perché il movimento si identificasse con i seguaci di Grillo, che, dopo la sua prima affermazione elettorale, ingiungeva ai NoTav di abbassare le loro bandiere, perché da quel momento la bandiera della valle sarebbero state le 5Stelle. Per fortuna non è andata così. Dietro bandiere e striscioni NoTav erano andate nel frattempo raccogliendosi tutte le mobilitazioni in atto nel paese. NoTav è diventato il riferimento di tutte le lotte contro le Grandi opere, i Grandi eventi, i Grandi sprechi: una minaccia mortale per un capitalismo che ormai vive quasi solo di queste cose. Ecco perché alla fine il moscerino è diventato elefante.
Poi c’è la storia dell’altro fronte di questa guerra: l’idea di un Tav Torino-Lione era nata per i passeggeri, auspice la Fiat che con Impregilo, allora sua controllata, si era già accaparrata senza gara la tratta AV Torino-Milano. Ma era subito apparso chiaro che per riempire quel treno i passeggeri non c’erano né ci sarebbero mai stati; così, pur di farlo, il progetto era stato convertito al trasporto merci. Che bisogno ci fosse di una galleria da alta velocità per trasportare merci che se hanno fretta viaggiano in aereo, e se viaggiano in treno non hanno fretta, non è chiaro. Per spiegarlo erano state inventate quantità esorbitanti di merci in attesa di andare in Francia dall’Italia (o viceversa): stime sballate e poi rimangiate dagli stessi promotori. Che nel frattempo erano però riusciti a inserire quel “Tav non più Tav” in una rete di trasporto (Tnt-T) disegnata con il pennarello dalla Commissione europea, non diversamente da come Berlusconi aveva presentato il suo programma di Grandi opere nel salotto di Bruno Vespa; e la tratta Torino-Lione era così entrata in un fantomatico “corridoio” Lisbona-Kiev che c’è solo nelle menti dei SìTav, perché 4/5 delle tratte per completarlo né ci sono né saranno mai progettate e lungo quel percorso non ci sono né mai ci saranno merci o passeggeri da trasportare.
Ma la Commissione ha stanziato un budget per coprire i costi di un pezzo di galleria (il resto è quasi tutto a carico del bilancio italiano, perché la Francia ne ha scaricato i costi sull’Italia, che pur di farla non bada a spese). Quei soldi europei sono ora l’unica ragione per cui il Tav Torino-Lione “si deve fare”: non la fretta dei passeggeri, che ormai viaggiano in aereo; non la quantità delle merci, che non giustificano una seconda linea ferroviaria (quella che già c’è basta e avanza); non l’ambiente (cioè la riduzione delle emissioni del trasporto su gomma: la tangenziale di Torino, con o senza Tav, ne produce e continuerà a produrne cinque volte più della Valle).
Peraltro, per dimezzare le emissioni del trasporto su strada, come calcolate dalla vituperata analisi costi-benefici del prof. Ponti, bisogna che il treno si sostituisca ai Tir non solo nel varcare le Alpi, ma dall’origine alla destinazione dei viaggi, per centinaia o migliaia di chilometri. Ma le merci dell’Italia non viaggiano in treno non perché manca una galleria ferroviaria veloce tra Bussoleno e Saint Jean de la Maurienne, ma perché, come ha spiegato Sergio Bologna – e il prof. Ponti, pontefice dei trasportisti, dovrebbe saperlo – mettere insieme il carico di un treno è molto più complicato che caricare cento camion: richiede competenze e organizzazioni che in Italia mancano; proprio ciò a cui dovrebbe dedicarsi un’imprenditoria intelligente che cerca invece di sopravvivere con Grandi opere. Ma non saranno certo le madamine dell’«andiamo avanti» a promuovere quel cambio di rotta.