Andrea Emiliani (1931-2019) è stato “un fedele servitore dello Stato, uno storico dell’arte e un museografo profondamente legato al territorio e al paesaggio”. Così hanno voluto ricordarlo i fratelli Vittorio e Rina: una definizione che contesta l’attuale stato delle cose dei Beni culturali italiani.
Emiliani è stato innanzitutto un funzionario che ha dedicato la propria intera vita al bene comune attraverso il servizio nei ranghi della, oggi tanto disprezzata, “burocrazia” delle soprintendenze e dei musei. La sua levatura di studioso (riconosciuta, tra l’altro, dalla Medaglia d’oro per la cultura del presidente della Repubblica, dalla Legion d’onore francese, dall’appartenenza all’Accademia dei Lincei) è stata messa al servizio del governo del patrimonio culturale. Ed è proprio qua che sta la grandezza del modello italiano, finché è esistito: l’autorevolezza e l’autonomia intellettuale, alimentate dalla pratica della ricerca, permettevano ai soprintendenti di tenere testa al potere politico, con sguardo felicemente presbite (cioè capace di vedere bene lontano, e disinteressato ai rapporti di forza contingenti).
Ricercatore e funzionario, dunque: senza poter dividere una personalità dall’altra. Anche la seconda parte del ricordo di Emiliani contiene una formula che, un tempo ovvia, oggi suona come un ossimoro, una contraddizione in termini: “museografo profondamente legato al territorio e al paesaggio”. Come scrivono ancora Vittorio e Rina, “uno dei suoi libri più significativi resta Dal Museo al territorio, una concezione che gli ha fatto giudicare nel modo più negativo la recente riforma Franceschini che ha tagliato al contrario il rapporto fra Museo e territorio separando assurdamente la tutela (lasciata, indebolita, alle Soprintendenze) e la valorizzazione (affidata ai Poli Museali)”. Cultore degli scritti di Raffaello e Antoine Quatremère de Quincy (e dunque profondamente consapevole dell’importanza del contesto, unico vero capolavoro della storia italiana), Emiliani pensava i musei e le mostre non come effimere vetrine, ma come luoghi e progetti al servizio della conoscenza e della difesa del territorio. Un progetto di cittadinanza votato all’interesse pubblico, non una speculazione di mercato piegata agli interessi privati.
Emiliani sarà forse ricordato soprattutto per aver “intrapreso i censimenti integrali dei beni culturali e ambientali di intere vallate appenniniche in Emilia-Romagna”. Tra i fondatori dell’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna, egli riuscì a costruire un regionalismo non opposto alla statura nazionale del patrimonio culturale, ma anzi capace di integrarla. Tutto il contrario della secessione dei ricchi che, avviata purtroppo dal Centrosinistra, rischia ora di arrivare al traguardo per mano leghista, e anche proprio nella regione di Emiliani. La tensione tra stato e regioni è iscritta nel policentrismo della storia italiana, e il dibattito dell’Assemblea costituente, che portò all’articolo 9 della Carta, mostra tutta la difficoltà nel tenere insieme le due dimensioni. Nella tipica ipocrisia italiana (la “discordia tra i fatti e i detti” vituperata da Leopardi) le rivendicazioni delle regioni sono state sempre presentate come virtuose aspirazioni di tutela locale, ma hanno sempre nascosto la volontà di mano libera sul territorio. Emiliani era un profondo conoscitore della antica legislazione di tutela degli stati italiani pre-unitari, e della sua continuità con quella del Regno e poi della Repubblica: forse proprio per questo, insieme ai migliori della sua generazione, egli ha saputo dimostrare che la nostra doppia identità (locale e nazionale) può (e dunque deve) essere tradotta in una tutela più efficace e più vicina ai cittadini, non in un saccheggio. Anche per questo, perdere oggi Andrea Emiliani è particolarmente doloroso.