di Giorgio Meletti, Il fatto quotidiano, 8 dicembre 2018.
Un sogno, una visione con sconfinamenti nel delirio. Feticismo travestito da razionalità. Un’impostura con lampi di genialità comunicativa. La folgorazione è stata l’invenzione del nemico, il movimento No-Tav, “quelli del no a tutto che ci vogliono riportare al calesse e alla candela”. Il Tav Torino-Lione è una sceneggiata sul nulla che da trent’anni nutre un piccolo esercito di politicanti, ingegneri, geometri, millantatori, studiosi, e sedicenti esperti a vario titolo. Sfornano relazioni, commissionano studi, organizzano convegni. Luca Rastello, valoroso giornalista morto troppo presto, raccolse anni fa la lancinante confessione di un ingegnere del giro: “In breve, non è necessaria l’opera. Lo sono i soldi che derivano da cantieri e progetti. Il Tav è un Momendol economico. Come le Olimpiadi”.
Da trent’anni danno sfogo alla loro sindrome Jimby (just in my backyard) dando letteralmente i numeri. E ogni volta che si imbattono nella realtà la combattono con tirate ideologiche da terrapiattisti. “Prima di bloccare la Torino-Lione devono passare sul mio corpo”, disse Sergio Chiamparino quattro giorni dopo la nascita del governo Conte. O Tav o morte. “Fermare la Tav – professa il governatore – vuol dire privare Piemonte e Nord Ovest per i prossimi 50 anni di un flusso di merci che se non passa da qui si sposterà a nord delle Alpi”. Come se treni diretti dall’Ucraina al Portogallo potessero fertilizzare l’economia padana percolando euri a ogni passaggio. Anche Sergio Marchionne picchiava duro: “Rinunciare al Tav vuol dire rendersi responsabili di cancellare l’Italia dalla cartina dell’Europa”, tuonò prima di cancellare la Fiat dalla cartina dell’Italia.
In principio fu Ercole Incalza, intellettuale organico della “sinistra ferroviaria” nei mitici anni ‘80, artefice dell’alta velocità nelle Fs di Lorenzo Necci, poi tecnico di riferimento del partito del cemento e ministro ombra dei Lavori pubblici nella Seconda Repubblica. Era il 1989. A Berlino crollava il Muro e in Italia cadeva Ciriaco De Mita. Il potere della Fiat era al culmine. Cacciato Vittorio Ghidella, che sapeva fare le automobili, Gianni Agnelli e Cesare Romiti proiettavano verso l’autodistruzione il loro impero provinciale ramificato in finanza, editoria, costruzioni, assicurazioni, turismo, chimica, impiantistica, farmaceutica e ferrovie. Torino contendeva alla Milano da bere di Bettino Craxi il titolo non di “capitale morale” (ché di morale c’era rimasto poco) ma di capitale “vicina all’Europa”, come cantava Lucio Dalla.
Incalza fu il primo a lanciare l’idea. Al di là delle Alpi i francesi avevano fatto il Tgv (Train à Grande Vitesse) per coprire in tre ore i 750 chilometri tra Parigi e Marsiglia. Mentre in Italia si progettava un collegamento analogo tra le principali città (Milano, Roma, Napoli), un collegamento veloce con Lione avrebbe permesso a Torino di agganciarsi al sistema Tgv e ai sudditi di Agnelli di andare a Parigi in tre ore e mezza.
Umberto Agnelli fondò il “Comitato promotore alta velocità”. Non parlava della nuova ferrovia veloce – accanto a quella ancora in funzione voluta da Cavour – come di un monumento alla dinastia Agnelli. Ma come di un progetto lungimirante e necessario per sventare l’incombente emergenza: interi popoli ansiosi di varcare le Alpi in breve tempo avrebbero fatto esplodere la vecchia linea. Il fratello dell’Avvocato lo disse davvero, nel 1990: “Ai soli valichi alpini si prospetta un aumento di traffico del 100 per cento nei prossimi dieci anni, e del 200 per cento per il 2015. È risaputo che la rete attuale non è in grado di assorbire simili incrementi”. Era risaputo. Allora ogni torinese dabbene, passeggiando sotto i portici di via Roma, ogni tanto sospirava: “Non è in grado”. La passione fu premiata. Il primo incarico di progettazione preliminare del nuovo tunnel sotto le Alpi fu affidato alla Fiat Engineering. Agnelli e i suoi epigoni davano letteralmente i numeri . Prevedevano che il Tav avrebbe portato ogni anno 14,7 milioni di passeggeri e per questo l’opera era necessarissima.
L’anno scorso il Commissario straordinario di governo per la Torino-Lione Paolo Foietta, un lobbista che se la tira da tecnico neutrale, ha scritto in un documento ufficiale una frase agghiacciante: “Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti (…). Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni a suo tempo assunte potevano essere diverse”. No. Non potevano essere diverse. Secondo l’ultima ottimistica stima dell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione, ente pubblico asservito alla lobby del cemento, se tutto va bene i passeggeri saranno 4,5 milioni. Un terzo delle previsioni originarie. Ma, come diceva Enzo Jannacci, “ciapp’istess”, il grande affare non si deve fermare.
Mistero gaudioso. Visto? Si parlava solo di passeggeri. Le merci sono un’invenzione della propaganda anni ‘90. Quando andò al governo l’Ulivo di Romano Prodi, consulente di Necci e Incalza per l’operazione Tav, c’erano in maggioranza i Verdi che tiravano calci. Fu inventata per loro la favola che il Tav toglieva le merci dalla strada. Così, a fini ecologici, la Milano-Roma è stata costruita con dose tripla di cemento per adeguarla al peso dei treni merci. In dieci anni quei binari non hanno visto un solo carro merci. Però raccontano che la Torino-Lione serve per le merci, è l’anello mancante del Corridoio 5 che, dicono, Bruxelles pretende. Come se nel “sogno europeo” ci fosse il Continente attraversato da treni di baccalà diretti da Lisbona alle cuoche ucraine in attesa da millenni di friggerselo.
Qui c’è un problema. Se un treno merci finisse per sbaglio sulla linea Tgv si spaccherebbero i binari. Siamo gli unici al mondo a baloccarsi con l’idea di una linea ad alta velocità che porti anche le merci. Infatti il Corridoio 5 è solo un mito da delirio terrapiattista. Nel 2013 Luca Rastello andò con Andrea De Benedetti a cercarlo a Lisbona, Barcellona, Lione, Trieste e poi in Slovenia, Ungheria e Ucraina. Ne uscì un libro (Binario morto, Chiarelettere) con una diagnosi infausta. Non c’era niente: “Aspettavamo di trovare binari gremiti, convogli zeppi, cantieri crepitanti. Tutto apparecchiato per accogliere l’ospite senza il quale la festa non poteva avere inizio: il Tav”. Invece c’era solo “un corridoio deserto”.
Eppure continuano a raccontare di un’Europa spazientita dagli italiani che non si decidono. Balle. Sergio Pininfarina, che ereditò da Agnelli l’apostolato della Torino-Lione, nel 2004 raccontò all’amata Stampa i suoi salti mortali per superare le “ritrosie” dei francesi che non ne volevano sapere (allora come oggi): “Il primo ministro Jean-Pierre Raffarin ha bloccato tutto. Poi, grazie all’azione del governo italiano, abbiamo rovesciato la situazione”. Preceduto da una visita dell’avvocato Agnelli al presidente Chirac, Berlusconi fece il capolavoro tafazziano con l’accordo del 5 maggio 2004, accollandosi due terzi del costo di un tunnel per due terzi in Francia.
Così poterono continuare a inseguire il sogno della ferrovia inutile che collegherà l’Italia al nulla. Dicevano: “Andremo da Torino a Barcellona in quattro ore”. Trent’anni dopo il treno più veloce da Lione a Barcellona impiega otto ore. E il collegamento più rapido tra Torino e Barcellona è Flixbus: 12 ore in autobus e passa la paura. Direte, ma i voli low cost? Non esistono. L’aria è un’infrastruttura con cui non si mangia.