le fake words del neoliberismo
“I mercati ci chiedono le riforme per rilanciare lo sviluppo”. Quante volte abbiamo letto o sentito queste parole, ripetute ossessivamente nei giornali e nei programmi televisivi; si noti bene che non si chiedono “riforme”, ma “le riforme” per antonomasia, cioè quelle riforme che sono gradite all’establishment. Proviamo a tradurre queste parole magiche nel loro autentico significato, un esercizio non di parte, ma puramente ermeneutico.
La prima parola magica sono “i mercati”. Di quali “mercati” si tratta? Il mercato azionario, quello delle obbligazioni, dei futures, dei mutui sub-prime, delle materie prime, o cosa altro?
Tutti riassunti nel termine “sistema dei mercati”, una parola neutra che, come ha scritto Luciano Gallino[1], ha sostituito il molto più esplicito, veridico, ma ormai impopolare, “capitalismo”. Cui deve essere aggiunta la qualifica di “finanziario”, ciò che lo rende radicalmente diverso da quello industriale e manifatturiero, i cui profitti non sono neanche lontanamente paragonabili a quanti ottenuti con strumenti speculativi.
La seconda parola magica sono “le riforme”, quelle che ci vengono chieste sia dai “mercati”, sia dall’ Unione Europea, a sua volta prona ai voleri dei “mercati” ben rappresentati al suo interno dall’immenso apparato burocratico e tecnocratico della Commissione e all’esterno dalle lobby delle multinazionali, potenti e aggressive. Le riforme, nell’accezione neoliberista, sono quelle che comprimono i salari e i diritti dei lavoratori. In questa linea, tutti gli ultimi nostri governi con un picco rappresentato dal Job Act di Renzi. Infine, la terza parola, è “lo sviluppo”, inteso come crescita del Pil, non del benessere, della qualità della vita e, si se può usare questa parola, della felicità dei cittadini. Un Pil che senza dubbio crescerà con il crollo del Ponte Morandi a Genova.
Tutte e tre le parole, che nella loro ripetizione hanno assunto lo status di verità assolute e quindi esenti da ogni ulteriore qualificazione, possono essere riassunte nel concetto di “neoliberismo”, un programma politico spacciato per il non intervento dello Stato negli affari economici; quando invece “l’introduzione del regime neoliberale ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali; la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali; la deregolamentazione del mercato e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle imposte sui patrimoni e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori; lo smantellamento dei programmi sociali, e così via[2].
L’ideologia neoliberista cela in realtà un duro programma politico a sfavore del lavoro, e si traduce in Italia – date le peculiari caratteristiche di arretratezza della nostra imprenditoria e della soggiacente politica – nella quarta parola magica “gli investimenti”, quelli che dovrebbero rilanciare il Pil. Investimenti, non però nell’istruzione, nella ricerca, nella crescita di conoscenze e di capitale immateriale, bensì nel cemento, nelle grandi opere inutili, nelle infrastrutture distruttive dell’ambiente.
Vi è in tutto ciò una grave responsabilità del giornalismo nostrale nelle sue varie forme mediatiche.
Hanno ragione i giornalisti a lamentarsi degli improvvidi e sgangherati attacchi di rappresentanti del Movimento 5Stelle e, peggio ancora, di membri del governo. Ma quando si legge sulle pagine di La Repubblica “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non riceviamo finanziamenti pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori… ecc.” viene da sorridere. La Repubblica non sarà un partito politico ma, insieme alle principali testate del paese, si fa parte politica quando supporta acriticamente gli interessi di un capitalismo che predilige mercati protetti e situazioni oligopolistiche (e con un particolare accanimento nella questione “grandi opere”, dove hanno voce quasi esclusivamente i pareri favorevoli). In questa linea l’esaltazione delle “madamine” che, organizzando la protesta pro Tav a Torino, diventano il simbolo di una borghesia ben pensante (ma poco informata) che vuole modernizzare il paese a colpi di infrastrutture.
Per non parlare delle edizioni locali. Chi è attivo nelle associazioni e nei comitati che lottano per un ambiente migliore e un territorio più ricco di “beni comuni”, vive ogni giorno questo “non giornalismo” fatto di di fake news: annunci spacciati come fatti compiuti, piste aeroportuali che dovrebbero essere inaugurate entro due anni dalla presentazione del progetto, balletti di stazioni o mini-stazioni sotterranee che vanno e vengono, il tutto digerito senza battere ciglio; amplificando ogni dichiarazione (pro grandi opere) di politici, amministratori e notabili ai più sconosciuti. Salvo, poi cambiare opinione, quando sembra che il vento tiri da qualche altra parte.
Diciamolo pure, in Italia, salvo rare eccezioni, non si fa giornalismo, quello vero, quello che va a scavare dietro i comunicati ufficiali e assume un ruolo di contropotere. Nel “non giornalismo” non contano i fatti, ma solo le opinioni. Non si dà voce al dissenso, ma solo a ciò che è gradito ai proprietari editori; sfiorando, spesso, il ridicolo per l’improntitudine di articoli che, riproducendo le veline che vengono dall’alto, non si curano neanche di correggere refusi ed errori madornali. Crollo di elettori e di lettori, un tema su cui politici e giornalisti dovrebbero riflettere.