di Alberto Ziparo, 29 agosto
In Italia negli ultimi 20 anni si sono spesi oltre 170 miliardi di Euro per nuove opere (130 solo per la TAV); laddove per la manutenzione del più grande patrimonio infrastrutturale dell’occidente – stando al rapporto lunghezza delle reti/abitanti – si è investito meno del 10% di tale cifra. E’ in questo quadro che si inserisce il terribile disastro del ponte di Genova: un’opera che fin dal suo collaudo ed entrata in esercizio è stata oggetto di inchieste, polemiche, dibattiti e che proprio per questo doveva essere sottoposta a verifiche e manutenzione straordinaria continua.
Ma la finanziarizzazione anche del comparto infrastrutturale privilegia, rispetto a questo, i nuovi megaprogetti su cui convogliare grandi moli di risorse pubbliche e cementare blocchi di potere con grandi istituti finanziari: come ha già ricordato Paolo Berdini, la spesa unitaria per manutenzione è calata di recente da 7,2 a 2,2 euro per chilometro all’anno, un’inezia. E’ possibile che in questo quadro la “manutenzione straordinaria continua” del ponte Morandi si fosse ridotta ad attività routinaria, da svolgere come e quando consentito da coperture sempre più esigue. Stabiliranno i tecnici delle costruzioni quali elementi strutturali sono collassati per primi, trascinando gli altri, ma certo il bando per l’attività di ricostituzione e rigenerazione degli elementi portanti della pila e degli stralli che hanno ceduto, trascinando quasi per intero le due campate interessate, è arrivato solo qualche mese fa con anni di ritardo.
Il tentativo di rilanciare oggi il progetto della Gronda – al di là delle squallide strumentalizzazioni politiche e del coro mediatico annesso – non tiene conto di quanto è stato chiarito da tempo da parte degli esperti di programmazione infrastrutturale: questa nuova “Grande Opera” è pressocché inutile per le criticità del traffico genovese, ora esasperate dal disastro in questione, per ragioni spaziali e temporali. Il progetto Gronda infatti interesserebbe solo gli spostamenti che provengono e si dirigono fuori Genova, meno del 20% del volume di traffico che passava sul viadotto. Dal punto di vista cronologico, il progetto se anche fosse definitivamente varato oggi, richiederebbe almeno 10/12 anni per l’entrata in esercizio: un tempo medio-lungo, contro i tempi forzatamente brevissimi della necessaria ricostruzione del ponte; anche con procedure straordinarie ma verificate. Nei 170 miliardi di cui all’apertura sono comprese anche le spese per centinaia di opere bloccate, abbandonate o mai avviate (magari dopo costosissime progettazioni): la ragione di questo sfascio economico e ambientale non sta nell’attività di ambientalisti, comitati, sovrintendenze o burocrazia, come ancora urla un sistema politico, mediatico spesso subalterno se non direttamente controllato dagli interessi finanziari beneficiari di tale colossale spreco. Essa va ricercata principalmente nei meccanismi programmatico-normativi “straordinari” che spesso hanno contrassegnato il settore, massime la “criminogena” – secondo Raffaele Cantone – legge Obiettivo, abrogata ma ancora vigente per quasi tutte le opere in questione. Essa prevedeva infatti di cedere qualsiasi istanza decisionale di fase esecutiva al blocco “Concessionario-Contraente Generale” che – spesso prima di verificare la fattibilità stessa dell’opera in sede di progettazione di dettaglio – programmava ed effettuava spese a debito anche ingenti, anticipate ben volentieri da banche e finanziarie gratificate dall’entrare a far parte di queste ricche partite. Allorché l’attività di cantiere si bloccava, per criticità tecniche non previste da progettazioni sovente intenzionalmente inadeguate, venivano fermati anche i flussi di denaro; e in diversi casi con l’opera è fallita anche l’impresa.
Bisogna cambiare profondamente questo sistema e ribaltare il rapporto tra gli investimenti in nuove grandi opere –di cui dovrebbero sopravvivere alla verifica in corso soltanto quelle poche davvero utili- per reinvestire risorse adeguate nella manutenzione che significa anche prevenzione dai rischi e dalle catastrofi. Non solo delle infrastrutture, ma di tutto il costruito del Belpaese: oggi inorridiamo per un disastro infrastrutturale; ma non dimentichiamo le criticità sismiche e idrogeologiche, nonché i rischi ambientali di molti contesti nazionali. Dov’è finito il programma “Casa Italia”, strombazzato da Renzi e il suo governo due anni fa? Qualche anno fa il MISE stimò in 180 miliardi di euro circa la cifra necessaria per la messa in sicurezza sismica, idrogeologica e da altri rischi del patrimonio urbanistico e territoriale nazionale: un programma ventennale. La prima e più urgente grande opera da pianificare e attuare veramente, al di là dei governi contingenti, è proprio questa.