di Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra
due recensioni:
Una disciplina «orfana di padri», di Paola Bonora, il manifesto, 15 giugno.
In Italia c’è una questione urbanistica?, di Giancarlo Consonni, da “Città bene comune“, Casa della Cultura, 16 giugno.
Una disciplina «orfana di padri»
di Paola Bonora, il manifesto, 15 giugno.
Siamo rimasti in pochi a difendere lo spirito pianificatorio dell’urbanistica, una disciplina travolta dalla bufera deregolativa, accusata di rigidità, vincolismo, di essere espressione di una statualità incombente, freno alla creatività animale del capitalismo finanziario lanciato in azzardi immobiliari.Cosa sia successo dopo lo vediamo ben chiaro nel disordine urbano, nel disastro paesaggistico, nella rovina del patrimonio culturale, nel dissesto idrogeologico, nella crisi da sovrapproduzione che dall’edilizia si è rovesciata sull’intera economia. Ma tutto ciò non conta, non è sufficiente a persuadere decisori e poteri economici che il territorio non è il mastello d’oro a cui attingere a man bassa, non può restare in balia delle mire speculative travolgendo spazio pubblico e diritti collettivi.
UN PERCORSO contorto quello della pianificazione, irto di ostacoli e contrapposizioni, successi e fallimenti, che dagli anni ’80 viene screditato dal neoliberismo diventato dottrina assolutistica, che trasforma l’urbanistica in tecnica al servizio della rivalorizzazione fondiaria e della rendita. Miserie e splendori dell’urbanistica, che Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra affrontano con un velo di nostalgia ma implacabile sguardo critico e fiduciosa aspettativa di rinascita, nel libro appena uscito per i tipi di Derive e Approdi, con prefazione di Piero Bevilacqua (pp. 192, euro 17). Non che l’urbanistica, come ricostruisce Scandurra, anche quand’era praticata in senso progressista ed equilibratore, abbia prodotto un panorama del tutto roseo, ma lo sforzo di mediare il conflitto tra istinto predatorio privato ed equità ha dato frutti significativi sino alla fine degli anni ’70, quando rappresenta un’espressione del welfare e del garantismo universalistico dello stato sociale. Anima la speranza di redistribuzione attraverso la qualità e le prestazioni territoriali. E traduce l’intento «riformista» in una serie di norme che offrono strumenti per bilanciare, in qualche misura, la crescita distorta dalla rendita e dai grandi profitti. Le matrici epistemiche deboli della disciplina, a suo parere «orfana di padri», minano la vicenda urbanistica italiana, di cui ripercorre le tappe dal
primo trentennio del secondo dopoguerra, entusiasmante e fecondo benché contraddittorio, a quando si trasforma in «fiancheggiatrice del neoliberismo» e in questo ruolo ridefinisce la città «da luogo di convivenza tra diversi, a luogo di uno spregiudicato sviluppo consumatore di suolo e oggetto-vetrina del mercato mondiale».
FENOMENI, precisa Bevilacqua in Prefazione, che vanno «ascritti alla responsabilità non tanto e non solo dell’urbanistica in quanto disciplina e sapere, ma all’urbanesimo in quanto processo storico, lo svuotamento di cultura e di valori simbolici è l’esito di una nuova fase del capitalismo del nostro tempo. È questo modo di produzione che va in cerca, come un insonne affamato, di continua valorizzazione del danaro». Ilaria Agostini, nella seconda parte, se da un canto completa il quadro del regresso dell’urbanistica odierna, nazionale e regionale, dall’altro presenta quei momenti di «urbanistica resistente» da cui può germogliare una visione rinnovata del nesso reciso tra ambiente e società. Il filtro attraverso cui svolge la riflessione è quello ecologista, esplorando le matrici teoriche di «modelli di vita durevoli ed evolutivi». A partire dalle idee di comunità locale, di microterritorialità, di sfera «bioregionale, scala ideale per il conseguimento dell’autodeterminazione», di «paesaggio bioculturale» in grado di«leggere le relazioni tra elementi naturali e culturali, tra assetti storici e idee di futuro, tra contesti spaziali e dispositivi simbolici». Peccato in Italia la relazione tra urbanistica e pensiero ecologista sia distopica («urbanistica versus ecologia» titola Agostini), uno iato che porta al travisamento nella sola finalità economica, green naturalmente.
MA A UN’UTOPIA che si è slabbrata e dissolta i due autori contrappongono nelle conclusioni una speranza: un’ utopia moderna, che «non va cercata in un altrove mitico mentre il mondo si avvia verso l’autodistruzione. L’utopia moderna è fatta di buone pratiche quotidiane che già avvengono nella nostra società in mutamento: episodi di solidarietà, nuovi sistemi energetici, partecipazione dei cittadini, pratiche virtuose, nuove forme di finanzamicrocredito, monete locali». Vogliamo fortemente essere fiduciosi e sperare.
In Italia c’è una questione urbanistica?
di Giancarlo CONSONNI, da “Città bene comune“, Casa della Cultura, 16 giugno 2018
C’è, in Italia, una questione urbanistica? Sì; e Ilaria Agostini e Enzo Scandurra in Miserie e splendori dell’urbanistica (DeriveApprodi, 2018) (1) ne scandagliano confini e profondità. Lo fanno con un moto d’orgoglio: seppure si possa parlare di linee dominanti, l’urbanistica non è un corpus organico e omogeneo di teorie e di pratiche. Esiste, ed è quanto mai viva nel Bel Paese, anche un’urbanistica resistente e propositiva, con una forte valenza civile. All’opposto delle facili invettive contro l’urbanistica che, invece di fare chiarezza, finiscono per confondere il quadro degli apporti e delle responsabilità, con un’argomentazione lucida e incalzante gli autori sondano alcune radici della questione. Lo fanno in una divisione di compiti che lascia intendere una grande sintonia. Nella prima parte Scandurra si incarica di fare luce sui processi che, in Italia, hanno portato la parte preponderante della cultura urbanistica ad assumere un ruolo ancillare, di facilitatrice di modi di governo del territorio che peggiorano l’habitat tanto sul versante della sostenibilità ecologica quanto su quello della sostenibilità sociale. Nella seconda parte, Agostini, dopo l’indicazione di principi a cui affidare un percorso di rifondazione della disciplina, traccia un quadro delle pratiche e dei percorsi virtuosi che, in conflitto con il pensiero dominante, da almeno due decenni configurano possibili alternative allo status quo.
Già nell’incipit Scandurra mette i piedi nel piatto:
«C’è uno scarto grande tra il fascino misterioso e profondo di ogni città, la sua sacralità e bellezza, l’armonia delle sue forme stratificate nel tempo, il loro indistricabile rapporto con le comunità viventi, e il compendio modesto, fatto di norme, tecniche e specialisti, di quella disciplina – l’urbanistica -, cui è demandato il compito di studiare la città, di organizzarne lo sviluppo, di stabilirne la forma» (2).
Come non concordare?(3) Viene, anzi, subito da interloquire. Nella povertà di strumenti concettuali e operativi a cui molta urbanistica si è da anni ridotta nella professione, ma anche nell’università, pesa proprio la scarsa conoscenza dei fatti urbani. In Italia, per limitarci al dopoguerra, i contributi interpretativi sulla città hanno visto una partizione della materia in urbs e civitas: una scissione che, già in partenza, saltava a piè pari il cuore del problema: la stretta interdipendenza fra le due sfere e la natura squisitamente politica di quelle interdipendenze. I contributi sul versante dell’urbs sono per lo più venuti dall’ambito disciplinare della composizione architettonica (4), con indubbi meriti ma anche con gravi limiti, derivanti da un approccio ab exteriore, ovvero volto a cogliere i principi ordinatori degli aggregati urbani secondo una logica scientista. Sono così rimasti in ombra gli elementi germinativi da cui sono scaturite e scaturiscono le configurazioni tipologiche degli edifici e le loro logiche aggregative, ovvero le tessiture relazionali e l’impasto di pubblico e privato (5) su cui sono conformati i corpi urbani. Con tutti gli equivoci e le debolezze che questo ha ingenerato sul versante del progetto. Quanto alla civitas, il campo è stato lasciato per lo più alla sociologia, caratterizzata, a sua volta, dalla tendenza ad astrarre i fatti sociali dai contesti fisici. In più, in questo ambito, gli studi sociologici italiani risultano fortemente debitori verso gli apporti stranieri. Poco male, se di questi se ne fosse almeno fatto buon uso.
La separazione tra urbs e civitas (su cui Scandurra, a p. 73, non manca di richiamare l’attenzione) è un’operazione paradigmatica delle molte semplificazioni che i saperi disciplinari hanno operato nella modernità. In tema di città ne sono derivati limiti interpretativi speculari a quelli su cui si è venuta impostando l’azione politica. La quale ha così trovato modo di disertare un ambito squisitamente di sua competenza: il nesso fra i sistemi di relazione sociali e le forme dell’habitat (da cui l’ingigantirsi, insieme reale e fittizio, della questione della sicurezza, a tutto vantaggio degli imprenditori della paura). Quel che non cessa di sorprendere è come questa diserzione della cultura urbanistica e architettonica sia stata poco o per nulla contrastata e anzi abbia finito per essere celebrata dai cantori della cosiddetta “città diffusa”; una realtà, questa, estesissima che ben poco ha di urbano e che, nonostante ciò, ha potuto essere scambiata, dai suddetti laudatores urbis disiectae, come l’espressione stessa della libertà e della democrazia (come non concordare con Scandurra, p. 42).
Mi sia consentito un ulteriore allargamento dell’orizzonte. Nel 1963, all’inizio di quella che, a ragione, sempre Scandurra indica come la stagione felice dell’urbanistica riformista in Italia, nell’affrontare il tema della nascita dell’urbanistica moderna, Leonardo Benevolo scriveva:
«Il dibattito culturale degli ultimi trent’anni ha insegnato a riconoscere il virtuale contenuto politico delle scelte urbanistiche, ma questo riconoscimento resta solo teorico finché vige il concetto dell’urbanistica come campo separato d’interessi, da mediare poi con quelli politici, che è appunto l’eredità persistente del distacco fra i due termini operato nel 1848» (6).
A parte la tesi – quanto mai discutibile – secondo cui la perdita della “connessione fra istanze politiche e urbanistiche” sarebbe imputabile a Marx ed Engels e al “socialismo marxista” (7) radicalmente critico vero il “socialismo riformista e utopistico” (8), Benevolo coglie nel segno laddove asserisce che «la cultura urbanistica, isolata dal dibattito politico, si configura sempre più come pura tecnica al servizio del potere costituito […]». E, se il riferimento è alla fase seguita al 1848, quando in Francia, Inghilterra e Germania prese piede una “nuova ideologia conservatrice”, l’affermazione contiene una verità sostanziale che va ben oltre quella congiuntura storica non smettendo di essere attuale. Quanto mai rispondente al vero è la susseguente asserzione di Benevolo per cui «l’urbanistica è parte della politica» (9). Non lontana dalla formula “urbanistica come funzione politica” avanzata nel 1944-45 da Adriano Olivetti (10), quell’affermazione non è per nulla una forzatura ideologica: è la semplice constatazione di un dato di fatto incontrovertibile: una verità che, se correttamente interpretata, non si traduce affatto in una diminutio dell’urbanistica, ma nella specificazione di ruoli e responsabilità tanto dell’urbanistica quanto della politica.
L’urbanistica, già nella sistematizzazione che, in Italia, ne ha fatto Cesare Chiodi a metà degli anni trenta del secolo scorso, ha invece scelto di assumere lo statuto dimesso di “Urbanistica tecnica” così da presentarsi come un insieme di saperi e di tecniche che, nella pretesa di oggettività scientifica, mirava a ritagliarsi un campo d’azione autonomo. In realtà si trattava, e si tratta, di una mistificazione: un confondere le acque volto a mascherare la sudditanza al potere. E, se oggi non si tratta di avallare la città corporativa del fascismo, l’impotenza, quanto non la corrività, dell’urbanistica dominante verso i processi di degrado sociale e civile connessi alle trasformazioni territoriali è non meno evidente.
«La questione, oggi, – scrive Scandurra – è che in una condizione di miseria della politica, si tende a sostituire quest’ultima con decisioni tecniche per valutare i progetti, tecniche per organizzare la partecipazione, tecniche per affrontare questioni economiche, tecniche per aumentare l’efficienza dei servizi, tecniche di ascolto, tecniche di comunicazione, tecniche per catturare l’attenzione degli abitanti, e così via, contribuendo alla deresponsabilizzazione dei cittadini e delle persone e rendendoli sempre più passivi e incapaci di organizzare collettivamente il proprio disagio»(p. 62).
L’urbanistica è svilita da un armamentario farraginoso di regole e tecniche pensate per legalizzare un processo di trasformazione dell’ambiente fisico non governato e della cui portata sociale e politica chi ha la responsabilità della cosa pubblica sostanzialmente si disinteressa. Scandurra ben sintetizza la situazione:
«L’urbanistica è diventata una disciplina triste, fatta di norme tecniche comprensibili solo agli addetti ai lavori e del tutto subalterne al dominio neoliberista» (p. 29).
Allo stesso tempo
«le amministrazioni comunali […] si trasformano in vere e proprie agenzie allontanandosi sempre più dalle comunità di cittadini, mentre il consumo diventa l’unico rito collettivo che dà forma al vivere associato» (p. 37).
Il cronico deficit di bilancio della Pubblica Amministrazione è la condizione ideale per favorire «la trasmutazione dell’ente locale in liquidatore dei beni patrimoniali e dell’urbanista in ragioniere» (Agostini, p. 158). Su questo, come più volte rimarcato da Roberto Camagni, pesa anche il ritardo dell’Italia rispetto ai paesi del Centro-Nord Europa, nel sanare lo squilibrio, peraltro facilmente rilevabile, tra chi gode i frutti (la speculazione immobiliare) e chi investe risorse per la coltivazione dell’albero (la collettività). Da qui l’orientamento politico che nella Penisola vede allineate le amministrazioni locali di destra e di sinistra: l’essere sempre e comunque a favore dell’espansione insediativa e degli stravolgimenti della città compatta (oggi chiamati “rigenerazione urbana”) pur di tamponare il deficit nei conti. Un miraggio che, da diversi decenni, mentre non ha fatto che rinnovare il dissanguamento del pubblico bilancio, si è tradotto in un esteso degradarsi della qualità urbana dell’habitat.
Alle argomentazioni sulla crisi dell’urbanistica portate dai due autori. Aggiungerei anche questa: nella fase migliore di questo dopoguerra, quando l’urbanistica ha camminato a fianco di una politica animata da uno spirito riformistico, si è assistito al divaricarsi di urbanistica e architettura lasciando a quest’ultima il terreno del disegno urbano. Il risultato è questa scissione ha lasciato, in particolare in Italia, un grande vuoto di ricerca e cultura, di cui l’operare indifferente ai contesti e alla cultura delle città delle archistarrappresenta lo sbocco coerente. Anche questo ha contribuito non poco a far sì che nel Paese che nella sua storia ha raggiunto esiti mirabili di bellezza civile la questione del fare città non sia mai stata al centro dell’urbanistica operante.
Nello scavare sulle ragioni della inadeguatezza dell’urbanistica, Enzo Scandurra ritiene che un nodo consista nel fatto che essa, «tra tutte le discipline nate con la modernità, [sia] sostanzialmente “orfana”» (p. 26), quando invece,
«tra le discipline moderne a essa vicine, la sociologia, ad esempio, annovera, tra i suoi padri fondativi, personaggi come Comte, Durkheim, Weber, e poi la Scuola di Francoforte, Marcuse, fino ai giorni nostri con Ferrarotti e Bauman. Altrettanto vanta l’antropologia con personaggi come Lévi-Strauss e De Martino. In economia, poi, non mancano certo nomi illustri, da Smith a Ricardo, a Marx».
E aggiunge:
«Kropotkin, Mumford, Geddes sono invece padri impropri non tanto (e solo) per la loro origine disciplinare […] quanto piuttosto perché, con l’avvento della Modernità, i loro messaggi e i loro lasciti vengono rapidamente abbandonati e, in un certo senso, deformati e rinnegati».
Qui si solleva un nodo storiografico che in realtà va a toccare una delle radici dei problemi che travagliano l’urbanistica. Intanto non è un caso che sulle origini dell’urbanistica moderna, si diano ricostruzioni le più disparate da parte degli stessi storici. Pesa in questo, io credo, una scarsa chiarezza sui termini assunti dalla questione urbana nell’età contemporanea, ma anche, in più di un caso, la restrizione dell’indagine al terreno disciplinare. È mia convinzione che le interpretazioni più significative sui caratteri urbani e sulla loro evoluzione siano venuti più dalla letteratura e dalla saggistica in ambiti diversi da quelli urbanistici (e non solo a opera della triade indicata da Scandurra) (11). Non c’è qui lo spazio per tracciarne un quadro. Mi limito a indicare un esempio. Per capire quanto accade nelle trasformazioni che hanno investito aree semicentrali di Milano negli ultimi anni (piazza Gae Aulenti, CityLife etc) può essere d’aiuto quanto nel 1947 Jean Starobinski scriveva a proposito degli spazi in Kafka:
«I muri tendono sempre a rinchiudersi, per cui ci si trova a volte respinti nella condizione d’esiliati, a volte prigionieri nella condizione di chi è murato. Sia nell’una che nell’altra delle situazioni il personaggio soffre sempre il tormento di non trovarsi dove dovrebbe, di non essere al suo vero posto: anche all’interno si è esclusi, anche all’esterno rinchiusi. […] Quasi tutti gli interni di Kafka sono dei luoghi pubblici, cioè dei luoghi che non appartengono ad alcuno e dove non si possono mai sperare né l’intimità né la sicurezza. […] Non si è mai “chez soi”. […] Lo spazio dunque è sempre chiuso, e nello stesso tempo è pericolosamente aperto. Chiuso per noi, aperto ai nostri nemici» (12).
Certo: l’urbanistica non è solo analisi; e il suo essere necessariamente impegnata sul progetto segna una distanza non trascurabile dalla gran parte delle discipline sorelle. Ma, se l’analisi manca la presa sul reale, è impensabile che il progetto (che su di essa si fonda) possa aspirare a una funzione sociale. Per questo il corpus disciplinare dell’urbanistica è potenzialmente fatto di tutti gli apporti che portano luce sui caratteri e le condizioni dell’habitat e della società e sulle loro mutazioni nel presente (senza mai dimenticare la prospettiva storica di lungo periodo). Un lavoro sterminato su cui non basta una vita? Sì; l’importante, per chi voglia aspirare ad essere un urbanista, è che lo scavo continui, giorno dopo giorno. E che diventi un’opera collettiva, né più né meno dell’oggetto dello studio: le città. In questa prospettiva, trovo quanto mai apprezzabili le pagine che Ilaria Agostini dedica a Simone Weil, Annah Arendt e Françoise Choay (pp. 142-145).
Quanto poi al progetto, è imprescindibile un vaglio critico del vastissimo patrimonio disciplinare, così da distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto: ciò che è utile per la difesa/rilancio della città e ciò che è contro di essa. Anche in questo caso l’orizzonte esplorativo non può che essere il più ampio possibile. Su questo terreno il libro offre un contributo prezioso, mostrando, in particolare nel contributo di Ilaria Agostini, quale nutrimento possa venire dalla ricca costellazione di esperienze inscrivibili sotto il segno della «resistenza civile allo speco dell’habitat».
Note al testo
1) Prefazione di Piero Bevilacqua.
2) E. Scandurra, Da disciplina del welfare a complice del neoliberismo, ivi., p. 21.
3) Salvo l’uso dell’aggettivo “misterioso”: rendere comprensibile quanto c’è di misterioso nel fascino delle città è un compito imprescindibile per chiunque aspiri a occuparsi di urbanistica.
4) In Italia un ruolo pionieristico hanno nell’argomentazione avuto le ricerche di Saverio Muratori su Venezia e su Roma (S. Muratori, Studi per una operante storia urbana di Venezia. I, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1960; Saverio Muratori, Renato Bollati, Sergio Bollati, Guido Marinucci, Studi per una operante storia urbana di Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1963). Nel solco tracciato da Muratori si pongono i lavori di Gianfranco Caniggia su Como (G. Caniggia, Lettura di una città: Como, Centro Studi di Storia Urbanistica, Roma, 1963; Id., Strutture dello spazio antropico. Studi e note, Alinea, Firenze 1975) e di Paolo Maretto su Venezia (P. Maretto, Studi per una operante storia urbana di Venezia. II. L’edilizia gotica veneziana, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1961; Id., La casa veneziana nella storia della città. Dalle origini all’Ottocento, Marsilio, Venezia 1986). Vanno inoltre ricordati gli studi di Aldo Rossi sul quartiere di Porta Romana a Milano e di Carlo Aymonino e altri su Padova (A. Rossi, Contributo al problema dei rapporti tra tipologia edilizia e morfologia urbana: esame di un’area studio di Milano con particolare attenzione alle tipologie edilizie prodotte da interventi privati, Ilses, Milano 1964 e Aa.Vv., La città di Padova. Saggio di analisi urbana, Officina, Roma 1970). Le implicazioni teoriche di questi studi sono enunciate in tre pubblicazioni: Aa.Vv., Aspetti e problemi della tipologia edilizia, Cluva, Venezia 1964; Aa.Vv., La formazione del concetto di tipologia edilizia, Cluva, Venezia 1965; Aa. Vv., Rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia, Cluva,Venezia 1966.
5) Tanto Scandurra (p. 59) quanto Agostini (p. 142) usano l’espressione “città pubblica” che negli ultimi anni si è subdolamente infilata nel linguaggio disciplinare. Su questo il mio dissenso è radicale: l’aggettivo “pubblica”, usato nell’intento di rafforzare il sostantivo, in realtà nega la natura stessa della città che proprio sull’intreccio di pubblico e privato fonda la sua natura. In più quell’espressione, seppure involontariamente, finisce per avvallare proprio il punto di vista (ahimè sempre più vincente) di chi ritiene possa esistere una città privata.
6) L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Roma-Bari 1974 (IV ediz.), p. 9.
7) Ivi, pp. 8-9.
8) Si tratta delle idee e delle realizzazioni messe in campo in particolare da una mezza dozzina di pionieri-filantropi: Robert Owen (1771-1858), Claude-Henry de Rouvroy de Saint-Simon (1760-1825), Charles Fourier (1772-1837), Jean Baptiste Godin (1817-1889), Filippo Buonarroti (1761-1837) e Étienne Cabet (1788-1856). Il socialismo di ispirazione marxista sarebbe responsabile, secondo Benevolo, della caduta di queste “utopie del secolo XIX”, alle quali egli attribuisce una fecondità aurorale sul terreno dell’urbanistica. Benevolo trascura che per la gran parte si tratta di visioni e di esperienze che riguardano micro-comunità collocate in contesti estranei alla città e che sono per lo più contrassegnate da un forte accento paternalista. È sintomatico, del resto, l’interesse mostrato da un disurbanista come Le Corbusier per esperienze come quelle del Falansterio di Fourier. E non meno sintomatica, a chiudere il cerchio, è l’apertura di credito dello stesso Benevolo verso la devastante urbanistica di Le Corbusier (Cfr. L. Benevolo, Tommaso Giura Longo, Carlo Melograni, I modelli di progettazione della città moderna. Tre lezioni, Cluva, Venezia 1969). Questo non toglie le responsabilità del socialismo di ispirazione marxista nell’avere sostanzialmente disertato il tema della città, e questo nonostante proprio da Engels sia venuta una delle prime circostanziate denunce delle conseguenze urbanistiche dello sviluppo capitalistico (Friedrich Engels, Die Lage der arbeitenden Klasse in England, Wigand, Leipzig 1845, trad. it. di Raniero Panzieri, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1955; poi con intr. di Eric J. Hobsbawm, 1969).
9) Ivi, p. 10.
10) A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità. Dello Stato secondo le leggi dello spirito, Edizioni di Comunità, Roma 19462 (I ediz. Nuove Edizioni Ivrea 1945), p. 172.
11) Che, in questo, va detto si muove sulle orme di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città, Einaudi, Torino 2015, in part. pp. 34-42.
12) Jean Starobinski, Il sogno architetto (Gli interni di Kafka), in “Domus. La casa dell’uomo”, n. 218, aprile 1947, p. 28b.