di Carlo Alberto Graziani, il manifesto, 23 marzo.
Frutto del generale decadimento culturale, stiamo assistendo a una progressiva banalizzazione del ruolo delle aree protette, considerate a volte semplici agenzie di sviluppo locale, a volte nuovi enti intermedi da amministrare secondo le logiche della politica locale.
Si rischia così di annullare il loro autentico ruolo che è quello di esprimere e di tradurre in concreto una visione alta dei problemi che riguardano il territorio e la conservazione della natura. Il rischio è ormai prossimo. È in corso in un Parlamento distratto, e con un’opinione pubblica ignara, un processo diretto a modificare l’attuale ottima legge-quadro (la 394 del 1991) che rappresenta una vera e propria controriforma. Siamo alle battute finali: in questi giorni la Commissione ambiente della Camera ha votato gli emendamenti a un pessimo disegno di legge approvato a novembre dal Senato e certo non lo ha migliorato; la discussione in Aula è già stata calendarizzata per il 27 marzo; dopo di che la proposta tornerà al Senato per il probabile voto finale.
Fortissima è l’opposizione del movimento ambientalista che in questi mesi proprio su tale questione ha ritrovato l’unità: grazie al “Gruppo dei Trenta”, che è riuscito a interrompere una posizione troppo attendista, e alla determinazione di due donne, le presidenti del WWF e di Legambiente, ben 16 associazioni ambientaliste stanno lottando contro questa controriforma. Sollecitate dall’apparente interesse e dalle richieste del presidente della Commissione Realacci e dal relatore Borghi, hanno anche presentato precise proposte con due rivendicazioni centrali: organi di governo dei parchi nazionali qualificati; pari dignità tra parchi nazionali e aree marine protette, perché queste costituiscono l’anello debole del sistema.
Nessuna delle proposte più significative è stata accolta e per di più il presidente ha impresso una forte accelerazione al processo nell’evidente intento di chiudere ogni discussione, creando oltre tutto grave imbarazzo in quella parte del movimento (Legambiente) che a lui fa riferimento.
Eppure le critiche delle associazioni sono più che fondate. La proposta, pur se contiene alcune misure positive, cancella proprio gli ingredienti che hanno decretato il successo della legge-quadro e che riguardano i parchi nazionali: sapiente dosaggio tra interessi nazionali e interessi locali, significativa presenza della rappresentanza scientifica, effettiva partecipazione delle comunità locali. Ma ciò che appare più grave è proprio l’assoluta dequalificazione degli organi di governo: il presidente è sufficiente che sia un soggetto di generica «comprovata esperienza nelle istituzioni o nelle professioni»; per il consiglio direttivo, fino a oggi composto dai rappresentanti degli interessi generali, si prevede, per un verso, l’ingresso delle organizzazioni professionali degli agricoltori e dei pescatori , cioè degli interessi corporativi, e, per altro verso, l’esclusione del mondo scientifico.
Certo, la proposta prevede il possibile inserimento di un rappresentante delle «associazioni scientifiche maggiormente rappresentative», ma tale previsione tradisce ipocrisia e incultura: infatti quel rappresentante è inserito in alternativa all’Ispra, che istituto scientifico non è; la scelta è frutto non dell’autonoma designazione del mondo scientifico (Accademia dei Lincei.
Università, Cnr), come era stabilito originariamente dalla legge-quadro, ma della diretta indicazione del ministro dell’ambiente; e soprattutto la proposta dimostra scarsa consapevolezza, se non disprezzo, del ruolo della scienza della quale offre, con il riferimento a un’impossibile maggiore rappresentatività, una concezione di tipo “politico-sindacale”. Viene così mortificato quel mondo che ha illustrato la storia oramai secolare dei parchi nazionali italiani e il cui contributo oggi diventa necessario perché i problemi della gestione del territorio e della conservazione della natura esigono sempre di più un approccio autenticamente scientifico, fondato cioè sul principio dell’autonomia.
Completano questo degrado le norme sul direttore, nominato a seguito di selezione pubblica. I titoli sufficienti per partecipare alla selezione sono la laurea in una qualsiasi disciplina nonché una «particolare qualificazione professionale» e una «comprovata esperienza di tipo gestionale», espressioni queste insignificanti; non si richiedono altri titoli né esami. Se poi si considera che viene selezionata una terna e non un vincitore, che la commissione valutatrice è scelta per due terzi dal consiglio direttivo e che la nomina compete al presidente del parco, diventa ovvia la conclusione: se la proposta verrà approvata i Parchi nazionali saranno gestiti esclusivamente in base alle scelte e ai condizionamenti imposti dalla politica locale.
Trapela da queste norme un’aberrante visione confermata dalla soppressione, nascosta nelle pieghe dell’articolato, della Carta della natura: viene così rovesciato il significato delle aree naturali protette, tradita la centralità della natura, alterato il sistema di valori che in tutto il pianeta è alla base della istituzione e della diffusione dei parchi nazionali.
Ha ragione Vittorio Emiliani quando nel suo appello al presidente Gentiloni scrive: «Ciò che non riuscì ad Altero Matteoli e a Stefania Prestigiacomo sta riuscendo al Pd e al governo».