Moda & musei

moda-160112113006di Tomaso Montanari, Repubblica Firenze, 15 gennaio 2016.

«Lancio un patto tra mondo della moda e mondo della cultura: voglio apertura reciproca, e, senza barriere ideologiche o snobistiche, voglio aprire tutti i luoghi della bellezza alla moda, perché questi sono due pezzi dell’identità nazionale e questo dà carta in più alla competitività della moda italiana. Io ho dato l’indicazione, non dico come questa apertura verrà realizzata quello lo decideranno in autonomia i direttori dei musei e i luoghi della cultura». In questo diktat fiorentino del ministro per i beni culturali Dario Franceschini non funziona nulla: né il tono, né il metodo, né il merito.

Il tono. «Io», «lancio», «voglio», «voglio»… Capisco che bisogna sembrar giovani e adeguarsi all’egotismo renziano, ma è davvero il caso che il ministro per i Beni culturali si esprima come la caricatura del Re Sole?

Poi il metodo: in nessun paese occidentale il governo detta la linea culturale ai musei. Se il ministro per la cultura francese provasse ad imporre al Louvre di aprire le porte ai formaggi, o ai profumi, si dovrebbe dimettere in un’ora. I musei non sono le prefetture (nonostante l’incombente Legge Madia che sottoporrà le soprintendenze ai prefetti): sono istituti di ricerca, e in quanto tali liberi per garanzia costituzionale. E l’esecutivo non può dare simili indirizzi. È, poi, francamente ridicolo che ciò avvenga dopo il bagno di retorica sui superdirettori autonomi dei musei autonomi: autonomi di che? Di scegliere lo stilista cui offrire le sale?

Viene qua prepotentemente a galla quel legame di subordinazione diretta tra ministro e direttori insanamente istituito dalla riforma, e dal pessimo metodo di reclutamento: ed è dunque tanto più apprezzabile la ferma e dignitosa precisazione di Eike Schmidt sul fatto che le sale degli Uffizi non torneranno ad ospitare sfilate di moda.

E poi c’è il merito. I musei non possono e non devono servire ad aumentare la «competitività della moda italiana». Sono patrimonio dell’umanità, non showrooms del made in Italy. Se in questa faccenda c’è qualcosa di ideologico, ebbene questa è la sottomissione della cultura al mercato: e cioè la completa mercificazione del patrimonio culturale, e di chi lo frequenta. Emerge, nelle parole di Franceschini, una drammatica insufficienza culturale. Se nel museo si troveranno esposti gli stessi abiti che appaiono nelle vetrine delle strade che conducono al museo stesso, non si sarà abbattuta una barriera di snobismo, ma si sarà distrutta una delle buone ragioni che portano i cittadini in quel museo. E cioè la sua differenza, la sua specificità, la sua meravigliosa diversità da ciò che ci circonda. Nei musei respiriamo un’aria che spazza via le asfissie contingenti del presente: se mettiamo l’arte (pubblica) del passato al servizio del fatturato (privato) del presente non dissacriamo l’arte (che non è sacra), ma comprimiamo ulteriormente la nostra libertà e la nostra umanità.

E, d’altra parte, la moda italiana non ha davvero bisogno di queste grottesche legittimazioni culturali: davvero qualcuno pensa che dire ai nostri figli che Michelangelo è uguale a Gucci possa far bene a Gucci, a Michelangelo o ai nostri figli?