alla Fierucola dell’utopia
Il racconto della manifestazione in piazza Santissima Annunziata, nata negli anni ’80, in un libro della ricercatrice Ilaria Agostini con le interviste di Laura Montanari
di FULVIO PALOSCIA, “la Repubblica Firenze”, 5 dicembre 2015.
È una storia fatta di paradossi. Il più evidente: l’epoca in cui questi fatti avvengono. Gli anni Ottanta dell’individualismo. Del liberismo che urla i primi vagiti. Ma se si pensa alla location, Firenze, allora si capiscono molte cose. Perché nella città dove, nel decennio dell’effimero, la cultura vive un momento irripetibile di sperimentazione, la rivoluzione biologica può anche starci. Firenze, insomma, mostra un’anima divisa in due, senza dolersene: nella musica, nel teatro, nelle arti visive, spinge verso il futuro. Nelle pratiche del quotidiano – come il cibo – volge lo sguardo alla tradizione. Eppure, getta le basi per conquiste a cui siamo arrivati oggi. Come il chilometro zero. O il rigore biologico.
Ma raccontiamola, quella storia. È il 1984. Nasce la Fierucola del pane. E sceglie di mettere i propri banchini in piazza Santissima Annunziata perché la tradizione vuole che l’8 settembre, festa della natività della Madonna, i contadini scendessero dalle campagne per onorare Maria in Santissima Annunziata, ma anche per vendere, sotto la luce fioca delle rificolone, quello che avevano faticosamente allevato e coltivato. Ci pensa Ilaria Agostini – fiorentina, ricercatrice all’Università di Bologna – a proseguire la narrazione, nel suo libro Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana (Ediesse). Dove parte proprio dalla Fierucola per raccontare quel «il ritorno alla terra» che, sin dagli anni Ottanta, ha teorizzato nuovi stili di vita in tenace opposizione a ciò che allora si chiamava mercificazione, e oggi invece passa sotto il nome di globalizzazione. «L’ecologia è stata l’ultima espressione politica del progressismo – dice Agostini – e la Fierucola ne rappresenta uno stigma, se si considera che la sua nascita è avvenuta in anni in cui termini come “decrescita felice” non erano neanche un’ipotesi. Eppure a Firenze, in una piazza-simbolo per la cultura rurale, si fonda una comunità che coalizza contadini e cittadini». I
spirata ai mercatini biologici francesi – e a tutti gli effetti il primo mercatino del genere in Italia – dove i venditori hanno compiuto la scelta orgogliosa di vivere dei propri manufatti, all’insegna del consumo consapevole, la Fierucola «è il ponte che lega coloro che ritornano alla terra e coloro che non l’hanno mai lasciata: la piazza consacrata ai contadini si apre ai cittadini che si riavvicinano alla vita agreste. Il risultato è la riformulazione del lavoro rurale, una rinnovata celebrazione della fertilità della terra, però tra le mura urbane. La città riscopre il territorio, reimmettendosi nei cicli contadini: tornare indietro significa evolversi. Dall’altra parte, non è la città ad essere vista come nemico, ma lo stile di vita urbano-industriale».
Chi vende alla Fierucola del pane, mette sul banco prodotti fatti con le proprie mani e niente altro: non con l’ausilio di macchine, non con il lavoro di esterni alla famiglia. Il concetto di azienda è rifiutato senza condizioni. Un’utopia fricchettona? «Nei venditori forte era l’ostentazione della propria scelta radicale – spiega Agostini – e nelle pubblicazioni legate alla Fierucola questo è evidenziato con grande convinzione. E c’è un’importante riflessione sul lavoro manuale. Il pane ne è il simbolo più alto, ecco perché gli si intitola la Fierucola».
Chi introduce anche una vaga allusione a sistemi di produzione che escono dalla più rudimentale scala artigianale, viene estromesso. Ma non è sterile filologia, «non c’è l’aspirazione a riprodurre fedelmente l’oggetto tradizionale, ma si vuole tornare ad un’ecologia della vita che implica un rapporto diretto con la materia prima: chi lavora la lana non l’acquista, come avviene oggi, dall’Australia perché costa meno, ma va direttamente dal filatore».
C’è una parola che ricorre, nel libro (introdotto da Vandana Shiva). Disobbedienza civile, «che dobbiamo intendere in senso gandhiano – conclude Agostini – riferito, in questo caso, soprattutto all’igiene. Agli esordi della Fierucola chi vi partecipa vive in un cono d’ombra: sono anni in cui il pane fatto secondo pratiche rigorosamente biologiche è al di fuori della comprensione di tutti, istituzioni comprese. Poi le regole si sono fatte ferree, sbiadendo il significato. Difficile rinunciare al pane esposto su un tavolaccio che si appoggia su due capre. Ma col “manufatto soprammobile” questi eroi del biologico non vogliono avere a che fare».
A raccontare le storie di alcuni pionieri, in appendice, è Laura Montanari, che ha incontrato voci storiche della Fierucola: Angelo che produceva formaggi caprini, Ruth che sognava una scuola per contadine. Storie diverse, differenti destini. Ma nessuno rinnega quell’appartenenza. Anche chi non ricorda più con rabbia.