27 Dicembre.
In mimetica in Libano, a Pompei estasiato cantore dell’«Italia che riparte». Un superspot a costo zero, da spararsi alla vigilia di Natale: quasi un remake della conferenza stampa con Angela Merkel di fronte al David. Con «il patrimonio storico e artistico della nazione» ancora una volta a fare da sfondo.
Ora, non c’è dubbio che Pompei sia ripartita. Non per merito di Renzi e Franceschini: sia chiaro. La svolta di Pompei è merito del nuovo assetto di governo del Grande Progetto e della Soprintendenza voluto e attuato da Massimo Bray. E basterebbe questo a rendere un po’ abusivo il trionfalismo dell’attuale governo. Che si è limitato a non far danni – una volta tanto.
Ma quel trionfalismo non è solo abusivo e sguaiato: è anche pericoloso. Perché, lo ha notato Salvatore Settis, la ripartenza di Pompei «è un segnale di speranza in un momento di difficoltà», ma quelle difficoltà sono in buona parte create dal governo stesso. E se quel segnale viene strumentalizzato per coprire le difficoltà, e chi le provoca, il risultato sarà perverso.
Questo vale per Pompei stessa. L’ex sottosegretrario ai Beni culturali Roberto Cecchi, che di Pompei è stato commissario, ha scritto una lettera al “Corriere della sera” in cui prova a ridimensionare il successo dell’attuale gestione. Da chi aveva così clamorosamente fallito ci si aspetterebbe un decoroso silenzio, ma è innegabile che Cecchi abbia ragione rammentando che «gli interventi finora sono stati 14, quelli in corso 28. Se nel 2017 si arrivasse anche a farne 70, sarebbe solo meno del 5% del totale delle domus». Dati che rendono grottesca l’autocelebrazione di Renzi. E quando Cecchi scrive (in una replica alla risposta del soprintendente di Pompei Massimo Osanna) che «bisogna evitare di dare alibi a destra e a manca, alla politica in particolare, dicendo che tutto è a posto», egli impartisce una imbarazzante lezione di buon senso, e senso delle istituzioni.
Ma il 24 dicembre la politica, a Pompei, si è presa ben più di un alibi. Renzi ha provato a nascondere dietro sei domus riaperte (come dietro ad un concorso per 500 giovani chiamati a conservare a mani nude ciò che egli stesso si appresta ad «asfaltare») il fatto che il suo governo sta letteralmente calpestando il patrimonio culturale italiano. Cito soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale, per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l’annunciato rilassamento della legislazione sull’esportazione delle opere d’arte.
Quanto ai musei, la riforma, la sua pessima applicazione e i nomi scelti per la nuova governance li hanno messi direttamente nelle disponibilità della politica: avviandoli sulla strada della Rai. E proprio ora, come ha notato Settis in quella intervista, il governo si è fatto dare una delega in bianco per eliminare le soprintendenze archeologiche, accorpandole a tutte le altre: non per migliorare la tutela, ma per diminuirne la capacità di disturbare il manovratore, cioè lui stesso.
Fedele al suo programma ‘culturale’ («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è stato il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l’articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.
Un quadro davvero troppo nero per essere nascosto da una mano di rosso pompeiano, data a favore di telecamere alla vigilia di Natale.