di Alberto Ziparo, Il Manifesto, 6 ottobre
Dal Ministero delle Infrastrutture giunge una notizia di un certo rilievo, anche se in qualche modo attesa: l’abrogazione della legge Obiettivo sulle grandi opere. Nell’emendamento governativo al Codice degli appalti che inizia l’iter alla Camera, dopo l’approvazione del Senato, si inserisce un comma che dispone «la soppressione della Legge 443/2001», per l’appunto la famigerata norma suddetta; uno dei capisaldi delle politiche berlusconiane.
L’atto era piuttosto scontato, specie dopo che Raffaele Cantone aveva definito la stessa legge Obiettivo «criminogena»; e dopo l’inchiesta della Procura di Firenze — avviatasi con l’indagine sullo strampalato sottoattraversamento ferroviario del suo centro storico — che ne sta dimostrando le distorsioni.
Intendiamoci: non è che Renzi e Delrio si siano convertiti improvvisamente alla pianificazione ambientale e alla mobilità sostenibile. Hanno semplicemente preso atto dei problemi e del clamoroso fallimento di una norma e di un programma, dimostrato dai numeri: in 15 anni di operatività sono stati realizzati poco più del 15% delle opere previste e meno di 1/3 degli investimenti programmati.
Sprechi e corruzione non sono agevolmente parametrabili, ma ne costituiscono sicuramente la cifra principale. Peraltro, una serie di pericolose «semplificazioni» sopravviveranno, già recuperate nello Sblocca Italia. Mentre il quadro di opere da realizzare si è ridotto, nell’allegato Infrastrutture del Def, a un terzo, con la cancellazione di opere tra le più inutili, dannose e bizzarre.
Le semplificazioni della legge Obiettivo con la figura del contraente generale, gruppo di imprese appaltanti che poteva scegliersi addirittura il direttore dei lavori (controllando così se stesso) facevano sì che attorno alle relazioni con il concessionario per conto dello Stato o dell’ente pubblico, si creasse una «macchina» sempre più grande e potente in grado di attrarre ingenti risorse, spenderne e sprecarne, spesso condizionando, anche con la corruttela, i decisori coinvolti.
Attorno a questi meccanismi si è creato quell’enorme arcipelago di società piccole e grandi — per la gran parte inutili passacarte dedite in realtà ad attività di lobbing — ruotante attorno a opere pubbliche e project financing che, secondo gli studiosi del settore come Ivan Cicconi, ammontano oggi a più di ventimila.
La normativa prevedeva la negazione completa delle istanze sociali interessate e anche delle rappresentanze istituzionali del territorio. Solo le regioni — e dopo apposito ricorso alla Corte Costituzionale — avevano potuto interferire nelle interazioni governo-impresa. La valutazione ambientale non era completamente cancellata, ma molto ridimensionata: la pianificazione urbanistica poteva essere ignorata. Come ormai noto, tale meccanismo non ha semplificato alcunché, spostando i conflitti dai consigli comunali ai tribunali, o direttamente sul terreno come in Val di Susa.
Con gli esiti complessivamente fallimentari ricordati all’inizio. Gli enormi problemi del programma erano stati puntualmente denunciati da moltissimo tempo da ambientalisti, comitati e tecnici; oltre che dagli attori costituitisi direttamente a contrasto: dapprima il Coordinamento contro le grandi opere (promosso nel 2006 da No Tav, No Mose, No Ponte e dalla rivista Carta, con la forte presenza del compianto Osvaldo Pieroni, decano di Sociologia Ambientale e già direttore del Des dell’Università della Calabria), confluito poi nel Patto di Mutuo Soccorso (tra i territori aggrediti dalle mega infrastrutture) e oggi nel Forum anti Goii (Grandi opere inutili e imposte), divenuto realtà anche euro mediterranea. Soggetti cui spesso questo giornale ha fornito supporto, tra l’altro con i tanti articoli di Guglielmo Ragozzino.
La storia della Legge Obiettivo dimostra come, smarrite razionalità programmatica e utilità sociale, le opere di trasformazione del territorio diventino — oltre che sprechi economici e ambientali inaccettabili — facilmente penetrabili da speculazione, corruzione, criminalità organizzata. E come spesso non basti individuare e sostituire i titolari responsabili, in quanto l’unico meccanismo di contrasto efficace si rivela l’interruzione dei flussi di danaro, cioè del contratto di appalto. Specie quando è la corruzione stessa che ha determinato la natura delle operazioni (Mose). Cantone invece ha accettato di usare l’arma — che può rivelarsi spuntata — del controllo, correzione e modifica, fino al commissariamento, della gestione. Ma spesso le distorsioni in essere possono proseguire con l’operazione.
Con il Codice bisogna tornare a procedure più votate all’ordinarietà, in cui contino di nuovo gli enti locali e riacquistino il giusto peso ambiente, urbanistica e paesaggio. Ma soprattutto la lezione del fallimento della legge Obiettivo significa che è assai problematico, quasi impossibile, intervenire su un territorio contro la volontà dei suoi abitanti. Si torni allora alla pianificazione partecipata, anche di mobilità e trasporti.