di ALBERTO ASOR ROSA, Il manifesto, 2 settembre 2015
Concordo con pressoché tutti i punti del decalogo formulato da Norma Rangeri su queste colonne (28 luglio) per l’apertura della discussione. Tuttavia, fra gli obiettivi e la loro presumibile realizzazione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di perplessità (come sempre più spesso, ahimè, mi capita), che sembrerebbe, forse, oscurare gli obiettivi di cui sopra (non sarebbe, nonostante tutto, nelle mie intenzioni). Ma vediamo.1) La crisi della sinistra non è solo italiana: è europea, anzi globale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in questi termini. Sommariamente (certo, troppo sommariamente) io l’attribuisco a due fattori (in questo senso soprattutto europei).
Il primo: la sconfitta che il lavoro e, in senso più specifico e sostanziale, la classe operaia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghilterra; in Germania; in Italia (in forme diverse, certo, ma orientate tutte nella medesima direzione). Ora, non c’è sinistra (in senso classico) senza rappresentanza del lavoro: perché la visione progressista e riformatrice della “vera sinistra” è sempre nata da lì (c’è bisogno di esempi storici). Se ne può fare a meno?
La sconfitta del proletariato (anche in questo senso classico) e della classe operaia ha provocato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due fenomeni, contemporanei e al tempo stesso contrastanti fra loro: una sorta di borghesizzazione spuria e dispersa e una sorta di proletarizzazione spuria e dispersa di parti diverse della società. Manca il collante, politico e sociale, che le tenga insieme. A mio giudizio, anche la grande fortuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da questo: siccome non c’è forza terrena che ci riesca, la parola della Chiesa, che non ha bisogno di verifiche pratiche allo scopo di governare (disperata missione dei poveri politici umani), appare comunque, anche ai laici, una risposta confortante e consolatoria.
Come possono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve mettere le sue radici la “nuova sinistra”? Come si rappresenta un lavoro profondamente diverso dal passato, — nel quale, naturalmente, continua a occupare un ruolo importantissimo la classe operaia, ma non più in posizione egemonica, — e lo si ri-organizza per rovesciare l’ondata travolgente, mondiale, del capitalismo finanziario? Se non si risponde a queste domande, interviene l’atrofia dei muscoli e del cervello.
In fondo, l’emergere di una nuova fenomenologia politica (non solo, ma soprattutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte europeo occidentale, — Spagna, Grecia, Italia, — Podemos, Syriza, persino Grillo e il grillismo, rappresenta una risposta a queste domande. Non ne condividiamo uno per uno tutti gli orientamenti e ne scrutiamo spesso con qualche preoccupazione gli obiettivi, ma non possiamo non riconoscere che in una società mobile e disarticolata le loro sono risposte più à la page delle nostre.
Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche artatamente gonfiato, ammettiamolo) di uno scardinamento provocato da un’ondata migratoria di cui indubbiamente non esistono precedenti. La reazione è quella di una chiusura a riccio: da parte dei ceti borghesi, o pseudoborghesi, allo scopo di difendere i propri privilegi; e da parte dei nuovi ceti proletari e sottoproletari allo scopo di difendere una loro possibile, ancorché improbabile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discussione che il fenomeno alimenti qualsiasi tipo di reazione “populista” (io preferirei dire “massista”, ma devo farmi intendere dai lettori). Se il punto precedente si saldasse con questo, il quadro potrebbe diventare devastante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha formulato proposte estremamente restrittive rispetto al fenomeno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tuttavia, che la sinistra, sia quella “storica” sia quella “nuova”, su questo punto non ha saputo formulare altro che generiche proposte d’ingenuo solidarismo, quando in Europa non s’è allineata tout court con le posizioni dei governi e dei ceti conservatori. Il solidarismo umanitario è il nostro credo. Ma se non ha un programma, e forze e mezzi per realizzarlo, rischia di diventare straordinariamente autolesionistico.
Senza bisogno di ricorrere, come taluno auspica, a una nuova Poitiers, è vero per tutti che l’Europa a sinistra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scommessa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera partita.
2) Quello che in Europa rappresenta un decalage storico impressionante, — ci sono governi moderati o conservatori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Francia, dove il socialista Hollande si appresta a lasciare il premierato niente di meno che a un leader conservatore, anzi reazionario, di primo pelo come Sarkozy; in Germania i socialdemocratici si limitano a navigare nella scia di Angela Merkel; in Inghilterra i laburisti sono stati sconfitti recentemente per la seconda volta da Cameron, in attesa che la stella di Corbyn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Italia, come sempre più spesso capita, un allegro (o meglio: squallido) spettacolo della “commedia dell’arte”. Non c’è un provvedimento del governo Renzi che sia minimamente condivisibile. Il Jobs act. Il programma devastante e antiambientalista delle Grandi Opere. La cosiddetta “Pessima Scuola”. Tutto è diventato commerciale, usufruibile, sfruttabile: se non lo è, lo deve diventare a viva forza. La vicenda delle nomine dei direttori dei grandi musei italiani è uno schiaffo alla dignità nazionale e un’offesa ai funzionari che hanno il compito istituzionale di difendere il patrimonio artistico e i beni culturali.
Il caso Azzollini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto immacolata del Pd: l’ammonimento susseguente e conseguente del Presidente del Consiglio, — «non siamo i passacarte dei Pm», — suona inequivocabilmente come un’apertura di credito nei confronti dei politici corrotti e corruttibili («State tranquilli, qualsiasi cosa facciate, ci siamo noi pronti ad aiutarvi e proteggervi»).
Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costituzionale già in atto: ne riassumo le conclusioni. Se il progetto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un partito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle proprie mani, a partire dalle prossime elezioni, non solo il Parlamento, la Presidenza del Consiglio e il Governo, ma anche la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale.
Quando si parla con orgoglio del Partito della Nazione, si dimentica che questa anomala caratterizzazione è stata usata in passato solo dai nazionalisti di primo Novecento, poi confluiti trionfalmente nel fascismo della prima ora, e poi, per l’appunto, con motivazione ancor più evidente, nel Partito Nazionale Fascista. Non è un caso che la forza innegabile, e temibile, di Matteo Renzi consista nell’avere a disposizione una possente arma di riserva. Se le cose dovessero andargli male, o solo un po’ peggio, l’alleanza con la destra berlusconiana sarebbe sempre a portata di mano. Altro che interruzione o declino del Patto del Nazareno! Il Patto del Nazareno è stato calato geneticamente nelle fibre costitutive del Governo Renzi, può essere reintegrato in ogni momento, anzi, più esattamente, non è mai venuto meno.
Cioè: siamo in Italia di fronte al rischio di un vero e proprio cambiamento di regime.
La conclusione di questo punto è che in Italia, — un paese da tutti i versi nel degrado più completo, (corruzione politica, crimine organizzato, perdita generalizzata di fiducia nella politica) — la battaglia della sinistra per le sue tradizionali parole d’ordine, (libertà, giustizia, eguaglianza) — deve essere ispirata anche fortemente ai bisogni e alle prospettive di una difesa e di un reintegro degli assetti istituzionali e costituzionali, della presenza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo genericamente, ma anche molto efficacemente, si definisce “bene comune”.
E’ quel che accade oggi? Le connessioni tra le varie parti di questo difficile e scalare discorso, — politica, economia, assetti sociali, rapporto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evidenti e percepibili, più o meno nello stesso modo, da Sondrio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.
3) La sinistra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sinistra al tempo stesso classica e nuova”, in Italia non ha (e/o non vuole avere) memoria. Non ha introiettato e tanto meno metabolizzato la Bolognina di Occhetto, la bicamerale di D’Alema, la teorizzata e conclamata autosufficienza dei Ds di Walter Veltroni, la pugnalata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifondazione Comunista, il vigoroso tramonto della stella rinnovatrice di Antonio Bassolino, persino il recente, smisurato sostegno istituzionale e costituzionale del Presidente Napolitano all’esperimento Renzi.
Tanto meno ha introiettato e metabolizzato i tentativi di voltar pagina, che pure in questa nostra sinistra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una congiuntura enormemente più favorevole di quella odierna, un gruppo di compagni diede vita a una cosa che si chiamava “Camera di consultazione della sinistra” e propugnava, per l’appunto, l’unità della sinistra radicale (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, parti importanti della sinistra Ds, gruppi autonomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gestazione, fu sostenuta da un dibattito interessantissimo su il manifesto, ospite solidale e partecipe, sfociò in una grande Assemblea nazionale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto concludersi con un voto su di un documento programmatico, e di lì passare ai fatti, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, ne sabotò duramente il proseguimento. Si avvicinavano le elezioni. Il suo programma era un altro. La vittoria elettorale e, conseguentemente, la partecipazione a un governo fortemente spostato a sinistra? No, la Presidenza della Camera dei deputati. Oltre al fallimento del predetto tentativo, ne derivarono diverse altre conseguenze negative, fra cui, al limite, anche la scissione di Rifondazione comunista: una prova lampante di cosa significhi lavorare, alacremente e astutamente, non per l’unità della sinistra ma per la sua disunione.
Risentimento? Rancore? Sì, certo. Ma anche qualcosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straordinario di sconfitte, giocate sia sul piano storico e politico sia su quello personale. Un elemento di riflessione storica e politica riguarda ad esempio l’impressionante declino della classe politica comunista post-berlingueriana.
Uno storico serio dovrebbe affrontare la questione e spiegarci come questo sia potuto accadere, e in questa misura. Un elemento di riflessione personale e antropologica riguarda invece la inaspettata insorgenza e poi, decisamente, la prevalenza, nei rappresentanti più in vista di tale ceto politico; di quegli elementi di un’etica degradata e personalistica, che ci assediano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sempre meno spesso, viene condannata nella società che ci circonda.
Conclusione: se non si introietta e rielabora tutto questo, meglio non ricominciare.
4) Veniamo ora, sconsolatamente, dalla disillusa e pressoché disperata rievocazione del passato, ai buoni propositi del futuro. Ci vorrebbe, — conditio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fondamento, dei punti elencati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Partito: un partito fortemente democratico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); fortemente riformista (non è più il tempo di un protestantesimo generico e parolaio, bisogna indicare con esattezza calvinista le cose da fare, la gerarchia con cui farle, per chi e come farle); e fortemente europeista (per un’Europa federata politicamente, all’interno della quale valga il criterio politico-istituzionale della rappresentanza e non la forza di contrasto e di ricatto della potenza economica capitalistica e delle tecnocrazie ad essa asservite).
Un partito, dico, non una rete. So per esperienza (l’esperienza che manca alla maggior parte dei miei possibili interlocutori) che da una rete, — una qualsiasi rete, di associazioni, di comitati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.
Un partito, aggiungo, promosso e fatto soprattutto da giovani: trentacinque, quarantenni. L’esperienza, anche in questo caso, dimostra che, per sorgere o risorgere, bisogna scavare un fossato ben visibile rispetto al passato (Podemos, Syriza). Il personale politico e intellettuale della “nuova sinistra” è più vetusto di quello di centro-sinistra-destra (sto parlando di me in primo luogo, ovviamente). I giovani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li produce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in questo caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, perché l’Italia non li produca. Se si proponesse una leva, con l’obiettivo dichiarato ed esplicito di cedere alle nuove generazioni il bastone del comando, forse qualcosa di nuovo potrebbe saltar fuori. Meglio i possibili, difficilmente prevedibili errori dei giovani che quelli, assolutamente prevedibili, anzi già oggi del tutto scontati, dei nostri vetusti dirigenti.
Poi ci vuole una Persona, un’identità ben precisa sia maschile che femminile. E oggi, in tempo di mediatiche mattane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimostra: senza Iglesias, senza Tsipras, persino senza Grillo, il combinato disposto di protesta, irritazione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un autentico, materiale, evidente, punto di riferimento sociale, non quaglia. Dov’è questa Persona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare reazione di autodifesa, nella piccola legione macedone fatta di quadri vetusti e d’intellettuali stagionati, la persona non riesce a venir fuori, resta ancora una volta e per sempre il detestato ed esorcizzato Pover’Uomo di falladiana memoria?
Perché queste e tutte le altre prove e controprove siano fatte ci vuole dunque una vera (sottolineo: vera) fase costituente, nel corso della quale si verifichi seriamente, non solo e non soprattutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: disposti noi di conseguenza a cambiare, se gli altri, i “nuovi” del “partito nuovo”, ci persuaderanno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esattamente quello che ci si dovrebbe augurare che avvenga). Queste ragioni devono venire soprattutto dall’esterno: non possiamo pretendere oggi di farle tutte bell’e confezionate dal nostro stanco e mille volte sconfitto cervello.
5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recentissima lezione, al tempo stesso esaltante e drammatica, della Grecia. Nello spazio di un colpo di fulmine siamo passati dall’ammirazione sconfinata per il processo di liberazione coraggiosamente iniziato e portato avanti da Syriza alla contemplazione problematica del processo di compromesso con le potenze dominanti all’interno della Ue predisposto e accettato dal Governo Tsipras per salvare il salvabile e continuare al tempo stesso il processo.
Non avrebbe alcun senso fondare qualsiasi cosa, e in modo particolare una nuova organizzazione politica, senza sciogliere il nodo che tale evoluzione ci costringe a esaminare e valutare, e di conseguenza continuare a portarlo e ruminarlo dentro, invece di lasciarlo fuori, come una delle tante eredità mefitiche del nostro sempre contraddittorio passato. Insomma: bisogna dire con chi si sta.
Io sto con Alexis Tsipras.