Il “rilancio” del Colosseo

e l’abbandono del paesaggio

gladiatori_figuranti_colosseo_romadi MARIA PIA GUERMANDI, da Eddyburg, 11 Agosto 2015

Le recenti polemiche sulla ricostruzione dell’arena del Colosseo, riattivate dalla decisione del ministro di destinare solo a quest’opera quasi il 25% dei fondi  2015-2016 del così detto “Piano strategico Grandi Progetti Beni culturali“, hanno riproposto alcuni stereotipi duri a morire. Come ad esempio la contrapposizione – sempre citata dai fautori della ricostruzione – fra presunti conservatori élitari, laudatores temporis acti fuori tempo massimo e chi invece si sforzerebbe di aggiornare  il nostro patrimonio culturale destinandogli usi più moderni ed adeguati alla contemporaneità. Si tratta di un’abusata coperta di Linus con cui si cerca di ovviare all’incapacità conclamata della nostra classe politica e accademica di pensare – anche solo per sommi capi – una politica dei beni culturali degna di questo nome, ovvero sia una politica che abbia una chiara cognizione della loro importanza e ne sviluppi finalmente le potenzialità di strumento di conoscenza (del rapporto presente-passato), di acquisizione degli strumenti critici e, per questo, di innovazione. In una parola una politica che abbia una qualche idea su cosa farci di questi beni culturali che non si limiti al loro sfruttamento turistico. O che, al minimo sindacale, si ponga almeno l’obiettivo di una redistribuzione dei flussi turistici più sostenibile, in grado di valorizzare non sempre solo i blockbusters, ma il museo diffuso sempre decantato a parole e sempre negletto nei fatti.

Di fronte all’incontrovertibile dato dello squilibrio delle risorse a favore della sola ricostruzione dell’arena, il ministro ha replicato – prontamente rilanciato dal codazzo dei clientes – che nei prossimi anni saranno fatte altre elargizioni e che si terrà conto di casi come quello della Domus Aurea, la fastosa dimora di Nerone, snodo della cultura figurativa dal Rinascimento in poi, abbandonata da anni in uno stato di difficilissima sopravvivenza.
Peccato che sarebbe esattamente compito di una politica e di una amministrazione adeguata saper stilare – tanto più di fronte alla fragilità complessiva e ai problemi che gravano sui nostri beni culturali – delle priorità secondo una linea di intervento trasparente, scientificamente motivata, amministrativamente conscia dei rapporti costi-benefici.

Al contrario il ministro ha deciso esclusivamente secondo propri criteri mentre il Consiglio Superiore è stato chiamato semplicemente a ratificare l’elenco proposto.
Questa completa distorsione della funzione del Consiglio e degli organi di consulenza scientifica testimonia il nuovo livello cui è stata abbassata la gestione del nostro patrimonio culturale: siamo dunque arrivati, in maniera conclamata, ad un uso politico – in senso personalistico – dei monumenti pubblici.

Per giustificare la spesa di 18,5 milioni si invoca una maggiore comprensibilità del monumento: stranoto al grande pubblico nelle sue funzioni e nella sua forma, il Colosseo di tutto ha bisogno tranne che di essere spiegato con la ricostruzione del piano dell’arena. E su questa linea, perché allora non ricostruire le gradinate? E il velarium? E i clipei bronzei?
Le migliaia di turisti che si ammassano quotidianamente per entrare nell’Anfiteatro avrebbero piuttosto bisogno di servizi adeguati: dai bagni al book shop – caffetteria, ad una maggiore efficienza degli ingressi. O, se vogliamo rimanere nell’ambito della didattica, di materiali informativi multilingui più aggiornati dei pochi cartelloni ora presenti, con ricostruzioni complessive e una storia del monumento che – ben più di un semplice piano di calpestio – ne farebbe comprendere l’importanza.
Altri sono invece i siti e i monumenti che necessiterebbero di una valorizzazione tesa finalmente ad una fruizione più informata e consapevole.
Invece si continua ossessivamente a intervenire sul grande feticcio, sull’icona turistica per eccellenza, nella speranza di spremerne ancora più soldi (i diritti televisivi per gli spettacoli futuri).
E perché è molto più semplice intervenire su di un monumento che non ha ora più bisogno di costosi e lunghi restauri (troppo lunghi per i tempi della politica…).

Certo gli 80 milioni non potevano sanare tutti i problemi del nostro patrimonio, ma occorreva fare delle scelte lungimiranti che, soprattutto in questa prima tornata, rendessero ragione di un programma non estemporaneo e raccogliticcio quale è quello che appare.
L’enormità del compito – la gestione del nostro patrimonio – avrebbe dovuto attivare una pianificazione complessiva e soprattutto un’azione politica di ampio raggio capace, ad esempio, di raccogliere le risorse disperse nei tanti rivoli delle amministrazioni pubbliche per un programma di emergenza nazionale (obiettivo troppo lungo e complesso per coesistere con i criteri di semplificazione e rapidità, valori cardine dell’attuale governo).

L’accanimento sul Colosseo, al contrario, testimonia in modo esemplare l’ormai avvenuta scissione fra i  beni culturali di serie A, economicamente fruttuosi, mediaticamente spendibili, su cui vale la pena investire e beni di serie B, destinati ad un abbandono sempre più accelerato. La bad company così come l’ha definita Salvatore Settis anche recentemente.
E’ lo stesso criterio che ha guidato la “riforma” del sistema museale statale, il cui unico obiettivo appare ristretto all’accensione dei riflettori sulle “eccellenze” (peraltro discutibilmente designate).
Con il velleitario presupposto che un megadirettore possa magicamente risolvere la marea di problemi organizzativi, amministrativi, avendo peraltro le mani legate sulla gestione del personale.
Megadirettori che saranno scelti, alla fine di un iter concorsuale a dir poco improvvisato, dallo stesso ministro, come ai tempi di Bottai.

Si replica, anche in questo caso, quell’uomo solo al comando stigmatizzato dal Presidente della Repubblica qualche giorno fa.
E’ al Presidente Mattarella che ci rivolgiamo ora – da ultimo con la lettera aperta di un gruppo di costituzionalisti – perché presidi, come gli compete, il rispetto dei principi costituzionali, in primis dell’articolo 9.
Perché attraverso la legge delega Madia viene esplicitata – con la sottomissione delle Soprintendenze ai prefetti e in generale con l’abolizione de iure della primazia dell’interesse del patrimonio culturale sopra ogni altro (sul tema cfr. Tomaso Montanari) – la vera posta in gioco di questa stagione politica: l’estromissione delle Soprintendenze e del Mibact dalla gestione e dal controllo del territorio.
In maniera ancor più sistematica che attraverso lo Sblocca Italia, gli unici organi ormai in grado di esercitare un controllo, attraverso l’esercizio di tutela del paesaggio, gli unici ancora dotati di un’autonomia – almeno formale – dal potere politico, sono definitivamente sottoposti ad un potere, quello del prefetto, di diretta emanazione politica.

L’opposizione ad un disegno simile dovrebbe essere la priorità per ogni Ministro dei Beni Culturali, in nome della  più importante innovazione che il nostro territorio attende da sempre, ovvero sia il coordinamento della pianificazione paesaggistica.

Al contrario, a ribadire l’irrilevanza del Ministro in questo settore, i piani sono in gravissimo generalizzato ritardo e gli unici due casi della Puglia e della Toscana si devono quasi esclusivamente  alla determinazione e alla competenza di singole figure di assessori regionali (Barbanente e Marson). A tutt’oggi il Ministero non ha mai esercitato quel ruolo di guida e di indirizzo prescritto dal Codice (art. 145) e si è dimostrato – soprattutto a livello centrale – sempre pronto alla mediazione al ribasso, come nel caso dello splendido paesaggio Apuane, sfregiato dalle cave i cui proprietari hanno imposto – contro lo stesso Assessore, ma con l’acquiescenza del Mibact – un radicale “ammorbidimento” delle regole di piano.
Privo di competenze interne consolidate e diffuse in quest’ambito cruciale, invece che dotarsene per governare questa partita vitale, il Ministero si è quindi ritirato in un ambito sempre più circoscritto, limitandosi quasi sempre a correzioni di rotta marginali senza mai riuscire ad imporre una visione autonoma «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», così come hanno scritto i giudici della Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986).

E’ questa radicale inversione di atteggiamento politico e culturale che manca da sempre in chi ha guidato il Mibact, ridotto, nell’ultimo ventennio, su posizioni di mera difesa e, troppo spesso, di compromesso.
L’azione dell’attuale ministro si è sinora rivelata incapace sia di elaborazione innovativa, sia almeno di un contrasto efficace a tutela delle prerogative del proprio Ministero.
E fra poco, rischia di essere davvero troppo tardi.

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Si veda anche la risposta di Giuliano Volpe all’articolo di Montanari citato nel testo: La partita non è chiusa