Fenomenologia nostrana dell’urbanistica neoliberista
di ILARIA AGOSTINI, 12 Maggio 2015
Il Piano Strutturale fiorentino e l’appena approvato Regolamento Urbanistico, in linea con la gestione delle città globali, rispecchiano il paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito sulle spalle del 99%. Paradigma che spazialmente produce un “centro” (un luogo di potere) sempre più piccolo e fortificato, e “periferie” sempre più grandi e lontane dai luoghi della politica [1].
La politica neoliberista produce una polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido. L’esempio più classico è quello della via Tornabuoni e della sua recente riqualificazione di segno renziano: la realizzazione del nuovo volto del salotto cittadino viene finanziata con debiti a lunga scadenza che rompono il patto generazionale (nel progetto, i previsti “sbuffi di profumo” sono evitati grazie all’opposizione in consiglio comunale). Ma rientrano nella stessa logica anche:
– i parcheggi interrati, funzionali all’1% della popolazione e alla trasformazione borghese (gentrificazione) dei quartieri storici, che si realizza attraverso la formula: rinnovamento dei settori urbani = rinnovamento dei residenti;
– i servizi pubblici mercificati e privatizzati che drenano enormi ricchezze sono un altro aspetto della detta polarizzazione: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici” mentre costituiscono uno dei favoriti «finanziamenti occulti della politica» (P. Berdini).
Gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta lo svuotamento di senso pianificatorio di progetto, di disegno del PS e RU, che eludono la materia, girano intorno ai temi fondanti senza mai stringere; zeppi di proclami ma vuoti di strumenti/soluzioni/idee/progetti che possano veramente contribuire al governo della città o a disegnare la città futura. I due atti urbanistici ripetono come un mantra la triade mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile. Triade che, valida per lenire tutti i mali della città globale, si declina localmente in:
1) “mix di funzioni”, ripetuto incessantemente, ma che sarà il privato a determinare poiché il RU abdica alla determinazione degli usi della città;
2) pseudo-partecipazione, risolta nella farsa dei facilitatori del consenso;
3) ammiccamenti a una “natura in città” in disegnini a margine dell’articolato (quando poi è previsto, tra l’altro, la copertura del canale Macinante con una strada a quattro corsie che, come una vecchia “penetrante”, condurrà i cosiddetti “city users” dall’aeroporto fino al cuore del consumo turistico).
Inutile sottolineare il ricorso asfissiante alla metafora della smart city: la città intelligente che, come un automa, si autoregolerebbe buttando al macero urbanisti e piani. E poi, le politiche del “brand” messe in atto in una logica di competizione internazionale tra città, che si risolvono:
– nella mercantilizzazione della città e della sua immagine. Pro domo sua (del sindaco) ovviamente: l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione;
– e nella logica degli eventi, ognuno singolarmente, ognuno alienato dal contesto: la pedonalizzazione di piazza del Duomo e la cantierizzazione tuttora irrisolta del servizio di trasporto pubblico che prima vi transitava, ne sono l’emblema.
Vediamo quali sono i caratteri della città dell’1%, del centro (o centri), delle eccellenze. Tutto si gioca sull’espulsione/occultazione alla vista dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco, o della riuscita della città nella competizione mondiale (le città competitive…), deve essere sterilizzato: via le persone, via i mercati e anche le macchine (oggi – è duro ammetterlo – l’espulsione si attua anche attraverso la pedonalizzazione, in specie se non seguita da buon servizio di mezzi pubblici).
Progetti, politiche e misure sono quindi mirate ad eliminare dagli spazi pubblici la presenza fisica (o prendendo a prestito dal lessico femminista, i corpi e le pratiche). Soprattutto la presenza fisica attiva, della cittadinanza che si autodetermina. È significativo in tal senso il mercato centrale trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois bohémiens), nel cuore di un quartiere che avrebbe invece un bisogno impellente di luoghi di assemblea e di riunione. La città di Renzi-Nardella è sempre più avara di sale per riunioni pubbliche (viene in mente la trasformazione della sala Est-Ovest di palazzo Medici Riccardi, trasformata in galleria di passaggio da un Renzi allora ventenne presidente provinciale).
La città pubblica (lo spazio urbano, le strade, le piazze) è interpretata e gestita come proprietà privata, come prodotto da valorizzare nel senso più feroce del termine, anche con i metodi più classici della produzione capitalista. Perciò procede senza arresto la vendita/svendita del patrimonio pubblico, patrimonio che, come da anni avverte Paolo Maddalena, costituisce l’osso della società civile, la speranza per la sua rifondazione civile. La vendita a Firenze stenta a decollare, il maggior aquirente è una connivente Cassa Depositi e Prestiti Spa, e assume i toni grotteschi dell’operazione “Florence, city of the oppurtunities” nella quale il sindaco Nardella si trasforma in piazzista (di edifici pubblici, ma anche privati) presso le fiere internazionali della speculazione immobiliare. Se ciò da un lato rappresenta la delega al privato del disegno della città, dall’altro è la parodia di un governo della città che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.
Il valore d’uso dello spazio è, in quest’ottica, l’ultimo elemento ad esser preso in considerazione nel piano e nelle trasformazioni urbane. Potremmo dire che anzi non viene preso in considerazione. Le centinaia di schede del RU lasciano, edificio per edificio, aperte tutte le possibilità al mercato. L’esempio che pare più espressivo è quello della scheda dell’area su cui ora insiste il centro sociale autogestito “nextEmerson”, e per la quale il RU presenta già un rendering con villette a schiera sul sedime della fabbrica da demolire. L’urbanistica neoliberista cala la maschera: nel voler cancellare un’esperienza pluridecennale di pratiche di appropriazione collettiva e di uso di un luogo oggi appetito, mostra le sue fattezze autoritarie. La legalità del piano urbanistico nega la legittimità di un uso pluridecennale a servizio di un quartiere di periferia povero di spazi di aggregazione.
Nelle aree periferiche la risposta risiede inoltre nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione carceraria (via Palazzuolo-via Panicale) e le videocamere periferizzano anche alcuni settori della Firenze duecentesca.
Nel corso del lavoro collettivo di lettura e interpretazione dei documenti del piano, come laboratorio politico abbiamo più volte denunciato che il PS non ha un’idea di città, che cioè non ha un’idea condivisibile di città. Perché la sua idea invece l’ha, e ben chiara: quella di una città mercantil-proprietaria in cui prolifera l’individualismo.
Ci chiediamo invece se è ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Quali sono le vie da percorrere? Come intraprendere la formazione di nuova comunità, che dia spazio al mutualismo, ma anche al conflitto? Come rafforzare le comunità possibili, ricostruire il legame sociale indebolito?
È sicuro che vanno nella direzione opposta i parcheggi (che esasperano l’uso dei mezzi individuali), il “banchetto infrastrutturalista” del PS e le grandi opere (che sottraggono risorse alla cittadinanza).
Tantomeno è risolutiva l’ultima chicca dell’amministrazione che si impegna a «valutare entro 3 mesi dall’entrata in vigore del Regolamento Urbanistico la possibilità di istituire un Registro dei Crediti edilizi finalizzato alla commercializzazione degli stessi, così come richiesto dalla Consulta Interprofessionale di Firenze» (delibera 27 marzo 2015). Insomma, un’accelerata (con i metodi della speculazione finanziaria, del mattone di carta) verso l’ “urbanistica tossica” che crea titoli e crediti, che nega il futuro, che relega a periferia il 99% della popolazione e del territorio urbano e rurale, per molti anni a venire.
Ecco, non è questa la nostra idea di città
[1] Intervento letto all’assemblea della “ReTe dei comitati per la difesa del territorio”, Firenze, 9 maggio 2015. Corre l’obbligo di ricordare un bel convegno romano, appena svoltosi, organizzato dal corso di dottorato diretto da Enzo Scandurra (La Sapienza) col titolo Gli angeli non abitano più qui, in cui si è discusso sulla permanenza – oggi – del binomio dialettico centro-periferia e sul dilagare del modello periferico anche nel centro città: da quel consesso nascono alcune delle considerazioni che seguono.