di Ilaria Agostini, 14 maggio 2015.
Due dispositivi legislativi: la legge regionale toscana per il governo del territorio impugnata dalla presidenza del Consiglio e, da mesi, ferma in palazzo Chigi, e un disegno di legge nazionale per il contenimento del consumo di suolo, in discussione alla Camera. Due leggi che, pur proclamando di perseguire lo stesso obbiettivo – il blocco della cementificazione dei terreni fertili –, hanno opposta natura antropologica.Partiamo dal DdL C 2039 (Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo), che raccoglie in un testo unificato gli undici precedenti disegni depositati alla Camera. Presentato alla comunità scientifica a un convegno organizzato a Milano dall’Ispra (6 maggio 2015), il DdL è frutto del lavoro dei ministeri di agricoltura e ambiente; nei fatti, tuttavia, possiede la fisionomia di una legge urbanistica. Definisce il consumo di suolo come «incremento annuale netto della superficie oggetto di impermeabilizzazione» da ridurre progressivamente fino al consumo zero imposto dall’Europa per il 2050: i tecnicismi sul calcolo incrementale, funzionali forse ad alimentare la ricerca scientifica, ma senza dubbio fuorvianti rispetto agli obbiettivi, non garantiscono alcun risultato a breve nella realtà peninsulare.
«Un testo sbagliato – affermava Vezio De Lucia all’assemblea della Rete dei comitati per la difesa del territorio (Firenze, 9 maggio) – complicatissimo, di ripetute e concatenate scadenze, denso di concerti, di diffide e di labilissimi poteri sostitutivi, di improbabili divieti e incentivazioni di nuove inverosimili nomenclature, anche perché non usa la lingua dell’urbanistica ma quella dell’agricoltura: viene da piangere pensando alla lingua limpida e lucida della legge del 1942».
Si tratta in effetti di una normativa che non promette niente di buono. Innanzitutto per il meccanismo a cascata nel quale il Ministro dell’agricoltura, di concerto con quello dell’ambiente, stabilisce le quote annuali di suolo ancora edificabile («la riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale», art. 3, c. 1); tali quote sono poi ripartite tra le regioni, le quali a loro volta le suddividono (come?) tra i comuni. A questo punto sono passati tre anni. E se le regioni non sono riuscite a rendere cogente la «ripartizione» sarà il presidente del consiglio dei ministri a provvedere d’imperio alla spartizione del bottino (art. 3, c. 2).
Ma cosa succede intanto in questi tre anni? Le norme transitorie ricordano lugubremente l’ “anno di moratoria” post Legge Ponte (1967) che costò all’Italia milioni di metri cubi di cemento: l’art. 10 del DdL, pur affermando che non sarà consentito nuovo consumo di suolo, fa salva una serie di interventi, di procedimenti in corso e di strumenti attuativi «adottati» prima dell’entrata in vigore della legge (e un’adozione, si sa, non si nega a nessuno).
Il DdL agro-ambientale si permette continue incursioni in campo urbanistico: la priorità del riuso edilizio è sancita all’art. 4, dove si legge che le regioni si impegnano a dettare disposizioni per orientare i comuni verso strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione «degli ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio», ivi compresi (poiché non esclusi) i centri storici. Del resto la presidente dell’INU, al convegno milanese, affermava ambiguamente che il suolo già edificato sarà la «grande risorsa del futuro».
Se non si salvano i centri storici, non va meglio al territorio rurale. I «compendi agricoli neorurali periurbani» (avete letto bene, “compendi”, forse dall’inglese “compound”, recinto), previsti nell’art. 5, sono incentrati sulla trasformazione dell’edilizia rurale (fino alla sua demolizione e ricostruzione) di cui è previsto, in conformità con gli strumenti urbanistici, il cambio di destinazione d’uso (comma 5) in servizi turistico-ricettivi, medici, di cura, ludico-ricreativi etc. Da una legge dei ministeri di agricoltura e ambiente ci si doveva aspettare invece la definizione dell’estensione e dell’uso dei terreni coltivati dal detto “compendio”, di quale tipo di agricoltura vi dovesse essere esercitato. Perché il consumo di suolo si attua anche attraverso la monocoltura agroindustriale, le piscine o i campi da golf, che costituiscono la negazione della neoruralità che l’articolo afferma di perseguire. La neoruralità, l’accesso universale alla terra e il suo uso rispettoso necessitano invece di misure che favoriscono l’agricoltura contadina, e di una sapiente ripartizione del demanio agricolo, non della sua vendita al miglior offerente.
Unica regione in Italia, la Toscana ha varato viceversa in questo campo una buona normativa grazie alla tenacia di Anna Marson, assessore all’urbanistica. Filosoficamente ecologista, la legge 65/2014 (Norme sul governo del territorio) contrappone la cultura del progetto al calcolo ragionieristico; anziché attardarsi nel quantificare il disastro perpretrato nei confronti del suolo, conferisce dignità al «patrimonio territoriale» da tutelare e di cui garantire e sostenere con norme specifiche la riproduzione. Un patto generazionale evolutivo che evita lo scivolamento nel divieto autoritario centralizzato (vedi supra art. 3, c. 2). Facendo seguito a sperimentazioni internazionali, la L. 65/2014 traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento da parte di nuove edificazioni: nessun nuovo edificio residenziale su terreni fertili, né centri commerciali o capannoni che vìolino i principi del grande piano regionale (PIT): violazione o compatibilità saranno certificate da una «conferenza di copianificazione» in cui il parere sfavorevole della Regione è vincolante (art. 25). L’impugnativa governativa afferma che proprio quest’ultima norma contravverrebbe al principio costituzionale di libera concorrenza. Difesa renziana del capitalismo bieco e cieco.
A livello nazionale si ignora o volutamente si trascura l’esempio toscano che, quanto al blocco del consumo di suolo, dimostra una potenziale efficacia, esposta tuttavia al rischio di essere travolta: qualora infatti il DdL agro-ambientale fosse approvato, la ridefinizione in corso dell’art. 117 della Costituzione (e in particolare del terzo comma che norma la competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni) «obbligherà la Toscana al rispetto di quelle inconcludenti e devastanti procedure» (De Lucia).
Solo un colpo di reni da parte della politica potrebbe stavolta smentire il peninsulare destino che fa prevalere, nella molteplicità delle soluzioni, la scelta di quella peggiore.