di Simona Maggiorelli, su Left, 28 febbraio.
Un maxiemendamento Pd rischia di stravolgere il Piano paesistico della Regione. L’allarme di storici dell’arte e urbanisti, da Settis a Berdini.
Nel suo Viaggio in Toscana (Donzelli) l’anno scorso il governatore Enrico Rossi annunciava un Piano paesaggistico della Toscana molto avanzato di tutela e di progresso della Regione, che sarebbe potuto diventare un progetto pilota all’avanguardia in Italia. Left ne ha raccontato la genesi e gli sviluppi raccogliendo commenti di ambientalisti, storici dell’arte, archeologi, giuristi, costituzionalisti che hanno evidenziato il valore di sfida politica e civile di questo Piano paesaggistico, basato non su un’astratta difesa della natura, ma su un modello di sviluppo a misura d’uomo, centrato sulla qualità della vita nel rispetto del territorio. Tuttavia il Pd guidato dal premier Renzi ora pare deciso a contrasta re questa prospettiva anche a livello locale. E il Piano toscano potrebbe non vedere mai la luce. Con tutti i rischi che ciò comporta per la difesa del demanio e delle Apuane, già sottoposte a sfruttamento intensivo delle cave di marmo. La decisione finale è prevista per il 10 marzo e nel frattempo si annuncia una burrascosa seduta del Consiglio regionale. «Con tutta evidenza il Pd a livello nazionale ha scelto una strada molto diversa da quella espressa dal Piano paesaggistico toscano, che invece è ben bilanciata fra esigenze di tutela e di crescita qualitativa», commenta lo storico dell’arte Tomaso Montanari, autore di saggi di forte impegno civile come Istruzioni per l’uso del futuro (Minimum fax) a cui ora fa seguito il graffiante saggio Privati del patrimonio (Einaudi).
«Il Piano che la Toscana si apprestava a varare non era né anti sviluppo né un piano di decrescita felice. Ma – spiega il docente dell’Università di Napoli – un piano di crescita sostenibile che cercava di trovare una quadra fra tutela, lavoro, consenso e sviluppo».
Spesso si protesta contro i vincoli paesaggistici «con la retorica, targata Guido Carlì, dei “lacci e lacciuoli”», commenta l’archeologo Salvatore Settis, a lungo preside della Normale e oggi presidente del comitato scientifico del Louvre. «Ma il solo modo di allentare i vincoli è di sostituirli con la copianificazione regioni-ministero, come previsto dalla legge. Il Piano paesaggistico toscano, grazie all’impegno e alla competenza dell’assessore Anna Marson – dice il professore – è il più organico tentativo mai fatto in Italia in questo senso. Lo provano anche le reazioni contrarie, ispirate a una logica Verdini-Lupi che anche il Pd, copiando alla lettera gli stessi emendamenti proposti da Forza Italia, ha mostrato di condividere. L’Amleto della situazione si chiama Enrico Rossi: ha dato indizi di apertura in tutti i sensi possibili. Ma io spero ancora che non bruci la sua immagine per pura acquiescenza o calcolo elettorale. L’alternativa al Piano è infatti una sola: una deregulation selvaggia che devasterebbe la Toscana».
L’assessore all’Urbanistica Anna Marson ha parlato al Corsera di un “partito del cemento e della pietra” che si oppone al Piano regionale toscano, di che si tratta? «L’ala affaristica, la destra del Pd, ha proposto un emendamento killer che distrugge il Piano paesaggistico toscano» risponde Montanari. «Ad avanzarlo sono stati consiglieri espressione di collegi in cui prevalgono gli interessi di chi, per esempio, sfrutta le cave apuane. In accordo con lo Sblocca Italia, siamo alla “lupizzazione” della Toscana. Se dovesse finire così sarebbe a rischio il futuro della Regione». Nel frattempo il governo Renzi ha annunciato una grande vendita di edifici pubblici, perlopiù caserme, molti dei quali sottoposti a vincolo dalle soprintendenze. Negli anni Novanta provvedimenti di cartolarizzazione e di svendita caratterizzarono le politiche ultra liberiste del centrodestra. Contro cui si levava la voce di studiosi autorevoli come Salvatore Settis con puntuali libri di denuncia come Italia Spa (Einaudi, 2002). Quell’assalto feroce al patrimonio pubblico viene ripercorso ora da Montanari nel suo nuovo libro, alla luce del presente. Nel capitolo “Alienazioni” la cronistoria parte dall’ex ministro dell’Economia Tremonti, perno della finanza creativa del governo Berlusconi, e arriva all’attuale consigliere di Renzi Marco Carrai, che rilancia l’idea di Italia Spa. «È un circolo vizioso – nota Montanari -. Si svende il patrimonio pubblico perché non c’è alcuna intenzione di recuperarlo e riutilizzarlo. E la svendita genera nuovo bisogno di costruire. Senza contare che la dismissione di questo tipo di monumenti non va a detrimento delle classi alte. Chi non ha una casa aveva almeno delle case pubbliche: adesso non avrà più neanche quelle». La traduzione in legge dello Sblocca Italia, di fatto, ha ulteriormente peggiorato il quadro, denuncia lo storico dell’arte: «Perché è stato abrogato il comma di una legge del 2013 che permetteva al ministero dei Beni culturali di intervenire nella scelta dei beni da alienare. Ora il Mibact non ha più nemmeno diritto di parola. Di fronte a tutto questo il ministro Franceschini si sarebbe dovuto dimettere, invece non ha nemmeno protestato. Per assurdo ora gli Uffizi potrebbero essere messi in vendita senza che il ministero possa nemmeno fiatare».
Intanto, da destra ma anche da certa sinistra, si continua a invocare l’intervento “taumaturgico” dei privati per la tutela e la valorizzazione del paesaggio e del patrimonio d’arte. E in una maniera tutta italiana che, stigmatizza Montanari, significa collettivizzazione delle perdite mentre i profitti vanno in tasca ai privati. «Le privatizzazioni in cui si fa solo l’interesse del privato sono un fenomeno globale. Joseph Stiglitz ne ha parlato per quanto riguarda gli Usa. Ma da noi non ci sono nemmeno le privatizzazioni in senso liberale, la retorica del privato copre una privatizzazione che va a discapito delle finanze pubbliche. Alla fine è sempre la mano pubblica a pagare». E mentre proliferano lobbies e clientele politiche nella valorizzazione dei beni culturali (nel libro Montanari non fa sconti a nessuno, da Civita di Letta a MetaMorfosi di Folena) rarissimi sono i veri mecenati.
Nel saggio Privati del patrimonio, di fatto, figurano solo l’esempio virtuoso di Packard a Ercolano e quello dell’imprenditore Yuzo Yagi, che ha dato un milione per il recupero della Piramide di Cestio a Roma. Con una avvertenza. «l’esempio di Packard non si può replicare – precisa Montanari – perché lui, per scelta, non chiede nulla in cambio e non usa il potere che il contratto gli dà. Altri, privi di questa sua visione delle cose, ne approfitterebbero e non andrebbe affatto bene». E poi aggiunge: «In realtà c’è un altro esempio positivo che non ho fatto a tempo a inserire nel libro, è quello del restauro del Battistero di Firenze». Che cosa è successo in questo caso? «Il sindaco Nardella in un soprassalto di decenza ha proibito di mettere le pubblicità sul Battistero da restaurare. L’Opera del Duomo ha fatto appello al “mecenatismo” degli imprenditori ma nessuno ha risposto. Il che – sottolinea Montanari – chiarisce bene la differenza fra sponsor e mecenate. In questa situazione di stallo l’Unicoop ha deciso di intervenire nonostante la forte presenza della Curia nell’Opera del Duomo. È nata così la prima campagna di mecénatismo popolare diffuso. La Coop, che ha un milione e duecento mila soci, invita i donatori nel Battistero restituendo ai cittadini sovranità attraverso la conoscenza. È un esempio di mecenatismo, senza paternalismo e senza alienazioni. Attraverso la diffusione dell’azionariato popolare. Come già succede in Inghilterra e in Francia, dove ogni anno con questo sistema raccolgono un miliardo di euro».
Il valore aggiunto di una piccola grande operazione come questa di Unicoop Firenze è anche quello di provare a riallacciare i rapporti tra periferia e centro storico, invitando chi esce solo per andare in “non luoghi” come i centri commerciali a interessarsi del patrimonio d’arte, che in Italia è anche e soprattutto patrimonio diffuso .sul territorio.
La perdita di un rapporto equilibrato fra periferie e campagna, il consumo di suolo, la speculazione edilizia, il proliferare di quartieri senza disegno urbano, la finanziarizzazione delle grandi opere: sono alcuni dei problemi analizzati da Paolo Berdini nel suo nuovo saggio Le città fallite (Donzelli). «Dopo vent’anni di urbanistica contrattata, un fiume di cemento e di asfalto si è riversato sul Paese» scrive l’urbanista denunciando la scomparsa del welfare urbano causato da «una criminale sudditanza alle dottrine economiche neoliberiste». Ma non solo. Anche Berdini, da attento osservatore delle trasformazioni del paesaggio italiano, vede un forte pericolo nell’idea di mettere a reddito il patrimonio d’arte avanzata dal premier Renzi e attuata da Franceschini. L’attacco renziano al prezioso lavoro di tutela che hanno sempre svolto le soprintendenze in Italia, dice l’urbanista, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme. «Lo stesso ministro Franceschini sembra ignorare il grande ruolo che hanno avuto le soprintendenze di Stato, per esempio, nella costruzione della bellezza di città come la sua Ferrara». Allora da dove ripartire? Dalla difesa di presidi di tutela attivi sul territorio, dice Berdini, dalla difesa del Piano paesaggistico della Toscana, dal lavoro teorico di giuristi come Paolo Maddalena e storici dell’arte come Salvatore Settis che in libri come Paesaggio, costituzione, cemento (Einaudi, 2013) «ha enunciato il mancato raccordo tra tutela dei paesaggi e normativa urbanistica ». E ora torna a svolgere più ampiamente quel discorso nel libro Il mondo salverà la bellezza? (Ponte alle Grazie), rovesciando la celebre frase de L’Idiota di Dostoevskij per cercare di risvegliare la coscienza civile del Paese.
«Commentando lo sfregio della Barcaccia in molti han no parlato dei problemi di tifoserie, di rivalità fra nazioni – torna a dire Tomaso Montanari -, io penso che questa distruttività sia il segno che abbiamo perso qualcosa a livello profondo. Il patrimonio diffuso italiano è la cornice di una società democratica, le opere d’arte sono come delle sentinelle, la loro distruzione indica la distruzione di qualcosa di noi stessi. L’arte non ha a che fare con la nazionalità, ma con la nostra umanità». L’articolo 9 della Costituzione, del resto, «si spiega con l’articolo 3 là dove si dice che la Repubblica ha come ragione sociale il pieno sviluppo della persona umana. Il più bell’editoriale sulla Barcaccia – conclude Montanari – è di Staino: “Babbo gli olandesi non sanno che sono opere d’arte?” chiede la figlia a Bobo. E lui risponde: “Veramente siamo noi italiani che le consideriamo petrolio”».