di PAOLO MADDALENA , 10 Febbraio 2015.
Il libro di Paolo Berdini, dall’illuminante titolo Le città fallite, copre un vuoto nella pur ampia letteratura sugli scempi edilizi: esso enumera con lodevole completezza la serie dei fatti eclatanti che hanno distrutto i territori urbani, ponendo in evidenza come questa distruzione territoriale e ambientale sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica. Da vero, grande urbanista quale è, l’Autore esprime quasi un grido di dolore, che sembra materialmente emergere da queste accattivanti pagine, e che si trasmette automaticamente al lettore, rendendolo spiritualmente vicino al pensiero di chi scrive.
L’attrattiva di questo libro, in effetti, sta proprio nello svelare le cause e i retroscena dell’immane devastazione delle nostre città, che mantiene il lettore in una specie di suspense, nell’attesa di conoscere chi o cosa c’è dietro questa dannosissima sciagura. Non è nostro intento far venir meno la «tensione» del lettore e ci asterremo, pertanto, dall’illustrazione dei singoli accadimenti, limitandoci a porre in evidenza soltanto l’importanza delle regole urbanistiche, del loro grande valore di civiltà e della loro importanza giuridico-costituzionale.
Il libro si apre con un’illustrazione della «città pubblica», della città che è «servente» al bisogno umano di incontrarsi e di vivere in comunità. È in fondo la città che ci hanno donato, sulle orme di tessuti urbani pre-esistenti, i governanti liberali dei primi anni dell’unità d’Italia. Dal punto di vista più strettamente giuridico, viene posta in evidenza l’importanza, si direbbe strategica, di aver individuato la categoria degli «standard edilizi», di cui parla il decreto ministeriale 1444 del 1968, secondo il quale ogni cittadino ha il diritto ad avere a disposizione una superficie minima di territorio su cui realizzare i servizi di cittadinanza: l’istruzione, il verde, i servizi alla persona.
Insomma, emerge chiaramente che funzione propria dell’urbanistica è quella di garantire i diritti dell’uomo, e, con questi, il decoro e la bellezza delle nostre città. A tal proposito, si citano gli esempi della famiglia Crespi, che aveva una fabbrica di tessuti e che ebbe cura di creare un ambiente comunitario e sereno per i lavoratori. Ma si cita anche La Pira, sindaco di Firenze, che, negli anni cinquanta, requisì le abitazioni abbandonate per darle ai senzatetto, e infine l’esempio di Adriano Olivetti, che a Ivrea tanto si dedicò per la creazione di un vero modo comunitario di vivere.
Le note dolenti cominciano con l’avvento del pensiero unico del «neoliberismo economico», divenuto soffocante nell’ultimo ventennio. Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la «città pubblica» e la fa diventare un puro «conto economico». La nostra tradizionale città è stretta in una tenaglia: da un lato la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si impone una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette «liberalizzazioni», le piccole imprese, che sono state sempre il nerbo della nostra economia.
In sostanza, si prepara l’avvento della fase di Tangentopoli. Comincia Craxi con il primo condono edilizio del 1985, cui seguiranno i due condoni del governo Berlusconi, e inizia subito la stagione delle «deroghe urbanistiche», delle quali parla la legge n. 79 del 1992. Ma soprattutto si afferma il principio dell’«urbanistica contrattata», alla quale seguono le ulteriori «deroghe» della legge Tognoli per la costruzione dei parcheggi nei centri storici e l’invenzione dei «Consorzi di imprese», che si dividono gli appalti delle grandi opere pubbliche.
Un grave colpo all’urbanistica è dato da Bassanini, il quale non inserisce nel Codice degli appalti del 2001 un emendamento per mantenere il vincolo, posto dalla legge Bucalossi n. 10 del 1977, di destinazione degli oneri urbanistici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: da allora essi possono essere utilizzati anche per le spese correnti. In tal modo speculatori e amministratori comunali si trovano sullo stesso piano di interessi. Entrambi convergono sulla convenienza di distruggere il territorio per ottenere danaro. L’accordo fra costruttori e amministratori diventa una regola.
Sempre nello stesso anno un altro duro colpo è inferto con la «Legge obiettivo», che Berlusconi illustra su una lavagna in una famosa apparizione televisiva. Basta dire che questa legge, con uno stanziamento di 110 miliardi in tre anni, prevede il «ponte sullo Stretto di Messina», cioè una vera ecatombe ambientale.
Tuttavia, è la «rendita fondiaria», cioè l’urbanizzazione dei terreni agricoli, che aguzza l’ingegno degli speculatori, e Berlusconi va loro incontro con il «Piano casa», che fa nascere una gara tra le Regioni per concedere ai costruttori il massimo di guadagni possibili, soprattutto in termini di cambio di destinazione d’uso e di aumento delle cubature. Quello della rendita fondiaria è un problema gravissimo del quale si era occupato nel 1962 Fiorentino Sullo, proponendo che i Comuni dovessero prima acquistare i terreni agricoli e poi urbanizzarli, facendo in modo che l’enorme aumento di valore del terreno trasformato da agricolo a edificabile restasse al pubblico e non divenisse un regalo per gli speculatori edilizi. Ma la politica, in accordo con gli speculatori, non ha mai fatto passare questo intelligente progetto.
Si deve aggiungere che questo sistema ha avuto un largo consenso tra la gente, poiché alla rendita fondiaria donata ai costruttori, nella fase ascendente della nostra economia, si è aggiunto l’aumento di valore degli immobili, che giova fortemente ai proprietari di abitazioni. Sicché tre grandi forze, per motivi diversi, si sono aiutate l’un l’altra nella distruzione dei terreni agricoli: gli speculatori edilizi, gli amministratori pubblici e i cittadini.
Sennonché la crisi economica e la conseguente diminuzione di valore degli appartamenti, che nelle periferie ha raggiunto il 40%, ha lasciato il danaro ai costruttori e ai cittadini la «beffa». Chi ha contratto un mutuo per pagare l’acquisto dell’alloggio oggi paga un prezzo di gran lunga superiore al valore del bene acquistato.
Anche per questo motivo si assiste oggi a un cambio delle forze sociali e politiche in campo: da un lato c’è la popolazione che si è schierata fortemente contro la politica, dall’altro ci sono i politici in perfetto accordo con l’alta finanza e i costruttori di case.
Il governo Monti segue in pieno «le prescrizioni» dell’alta finanza che ha occupato le istituzioni economiche europee. Egli ripristina l’imposta sulla casa senza prevedere alcuna esenzione; continua il finanziamento delle «grandi opere» (i 110 miliardi in tre anni sono sempre iscritti in bilancio), riduce gravemente le spese per la sanità, la giustizia, la rete dei servizi pubblici.
Anche Letta, con il suo breve «governo del fare», aiuta la speculazione immobiliare con la «Quadrilatero Spa», che dovrebbe unire, per ora inutilmente, l’Umbria e le Marche. La «trovata» è che la garanzia per i crediti sarebbe venuta dalle «aree di cattura di valore», cioè dall’aumento di valore dei terreni lambiti dalla costruzione dell’autostrada. È stato un fallimento e sono stati posti sulle spalle degli italiani altri 270 milioni di euro. Poco dopo, il ministro Franceschini (governo Renzi) ha accettato l’emendamento dell’onorevole del Pd, Maria Coscia, istituendo i «Comitati di garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici». È la fine della tutela paesaggistica.
E, come se tutto questo non bastasse, c’è lo Sblocca Italia di Renzi, che fa prevalere l’interesse alla costruzione delle «grandi opere» sulla tutela del paesaggio, dei beni artistici e storici, della salute e dell’incolumità pubblica. Mentre il ministro Lupi, con la sua proposta di modifica della materia urbanistica, mette sullo stesso piano pubblico e privato e propone l’indennizzo della «conformazione» della proprietà privata e l’abrogazione del citato d.m. n. 1444 del 1968 relativo agli standard edilizi.
L’urbanistica è, dunque, del tutto distrutta.
Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio. Si tratta di applicare il principio di «partecipazione popolare», previsto, anche come «diritto di resistenza», dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.
In sostanza, occorre ottenere un «capovolgimento» dell’immaginario collettivo, e far capire che la Costituzione protegge soprattutto «l’utilità pubblica» (art. 41) e riconosce e garantisce la «proprietà privata» solo se essa persegue la «funzione sociale» (art. 42). È ora, in altri termini, che la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia finalmente attuata. Molti intellettuali sono all’opera: Antonio Perrotti, Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Salvatore Settis, Tomaso Montanari e tanti altri.
La speranza si fonda sull’azione delle associazioni e dei comitati, che di fronte allo spreco del nostro territorio devono agire e unirsi in una lotta senza quartiere, da svolgere sul piano della legalità costituzionale e, specificamente, sotto l’egida di quella che è stata denominata «l’etica costituzionale», e cioè i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà.