il caso sbagliato di Villa Tolomei,
Di Tomaso Montanari, Repubblica Firenze, 19 dicembre.
L’alienazione dell’importante Palazzo Vivarelli Colonna in via Ghibellina — svenduto per 12 milioni di euro: una cifra manifestamente irrisoria, se comparata a qualunque parametro di mercato — è solo il primo passo della politica di “dismissioni” che vede Firenze trasformarsi in Florence Real Estate, e il sindaco Dario Nardella nel primo agente immobiliare della città. Una perversa involuzione salutata come il più virtuoso dei percorsi.
Nessun controvalore ci pare troppo basso se ci consente di privare noi e i nostri figli di questo patrimonio non rinnovabile. Ma non è certo un problema comunale. Il pessimo esempio viene dallo Stato, come dimostra un clamoroso esempio fiorentino. Villa Tolomei è un complesso di impianto trecentesco, con parti rinascimentali e un prevalente aspetto barocco posto sulla collina di Marignolle. Dopo esser passata dal Comune allo Stato nel 1966, perché avrebbe dovuto ospitare una sede dell’Istituto Universitario Europeo, essa ha ospitato alcune istituzioni pubbliche (una scuola, un comando dei carabinieri) e poi ha conosciuto una lunga decadenza, sebbene il complesso degli edifici e il vasto parco fossero indicati come area “di notevole interesse” nel Piano Strutturale del Comune di Firenze. «Nel 2008 — dice il sito dell’Agenzia del Demanio — è stata affidata, a seguito di una gara pubblica, alla società Villa Tolomei S.r.l. in concessione di valorizzazione per 50 anni per essere ristrutturata e reinserita in un circuito economico virtuoso, mantenendone tuttavia la proprietà allo Stato. Oggi Villa Tolomei si presenta come un esclusivo resort a cinque stelle che rappresenta la perfetta sintesi tra un hotel di lusso dotato di tutti i più moderni comfort e la calda accoglienza di un relais fuori dal tempo, in una magnifica villa rinascimentale». Una best practice, perché lo «spirito rinascimentale è stato coniugato con i più moderni comfort (suite superaccessoriate di cui due per disabili, piscina panoramica, fitness center)». Ecco il punto: un luogo nato come esclusivo (nel Rinascimento) era poi divenuto inclusivo (con il suo essere divenuto pubblico, e dunque al servizio del progetto della Costituzione), ed ora regredisce verso un stato addirittura “molto esclusivo”: cioè che esclude molti, o quasi tutti, in ragione del loro reddito. E non basta ancora. Il 3 gennaio del 2014 la Gazzetta Ufficiale ha messo in vendita la celebratissima Villa Tolomei, tanto valorizzata da esser pronta per l’alienazione alle condizioni capestro dettate dalla concessione cinquantennale. Ma allora perché versare fiumi di retorica pubblica sul modello Tolomei, se poi tutto si risolve nella più classica delle svendite? Caso credo unico, all’inaugurazione di questo resort di extralusso, avvenuta il 24 maggio 2013, erano presenti l’allora vicesindaco di Firenze Saccardi, la direttrice regionale dei Beni culturali e la sottosegretaria allo Sviluppo economico Simona Vicari. Quest’ultima non perse l’occasione per dichiarare che «se ci fosse stato l’intervento dei privati a Pompei al tempo giusto, forse tante cose non sarebbero state distrutte», definendo poi Villa Tolomei «il primo esempio sano di come si possa recuperare il patrimonio architettonico, storico italiano attraverso una gestione del privato senza fondi pubblici», e augurandosi che «possa essere copiato ed esportato in tanti comuni, specie nel Mezzogiorno, dove c’è un abbandono e un degrado assoluto, com’era per questa struttura». Ricapitolando: lasciare andare in rovina un immobile storico pubblico, poi trasformarlo in un albergo di lusso attraverso il project financing e infine svenderlo sarebbe un modello da copiare ed esportare, magari estendendolo a Pompei.
L’alienazione del patrimonio culturale è una sottospecie, particolarmente grave e dolorosa, di quella del patrimonio immobiliare pubblico, che a sua volta rappresenta la fase finale del gigantesco processo di privatizzazione del sistema delle partecipazioni statali, intrapreso dal 1992. Quando quest’ultimo iniziava ad affievolirsi, è stata la volta della svendita degli immobili, decollata con la creazione della Agenzia del Demanio (1999) ed ormai arrivata a cedere edifici pubblici per un controvalore di circa 25 miliardi di euro.
Lasceremo molto meno di quanto abbiamo ereditato. E molti si accorgeranno di ciò che abbiamo fatto solo quando — magari da vecchi, accompagnando i nipotini in una gita domenicale — troveranno sbarrato da un cancello con su scritto «proprietà privata» il parco, la chiesa, il castello in cui hanno trascorso lunghe ore della loro infanzia. Abbiano trasformato beni comuni secolari in “liquidità”, subito evaporata sulla graticola dei bilanci ordinari, e non abbiamo più un Demanio su cui fondare le politiche sociali dello Stato. Credendo di costruire il futuro, stiamo bruciato secoli di sacrifici e di progetti comuni sul fuoco di un presente senza progetto.