per l’approvazione dei piani paesaggistici nelle regioni italiane
Nel dibattito pubblico italiano ricorre spesso l’accorato richiamo al degrado del nostro patrimonio storico, culturale, territoriale e paesaggistico che – per molti – costituirebbe addirittura il “petrolio” che il paese non sarebbe in grado di “sfruttare” per migliorare le proprie sorti economiche. Si tratta di un modo rozzo e sommario, ma comunque efficace, di denunciare la colpevole disattenzione di gran parte delle istituzioni e della società italiana nei confronti di problematiche le cui implicazioni non sono soltanto economiche, ma anche e soprattutto culturali, ecologiche, civili e politiche.
Una delle prove più lampanti della persistente “sottovalutazione” di queste problematiche ci viene fornita continuamente dai disastri idrogeologici che ormai colpiscono con impressionante frequenza proprio il nostro “patrimonio”, ovvero le città, le campagne, le pianure, le valli, le coste e le zone montuose e i beni culturali diffusi sul territorio. Questo ormai viene regolarmente devastato, non solo dalla violenza crescente degli eventi climatici, ma soprattutto dall’interazione fra questi eventi e la smisurata cementificazione del suolo, l’abuso e l’abbandono progressivo di ogni pratica di cura e tutela del territorio e dei suoi equilibri ecosistemici, paesaggistici e storici.
Di fronte a queste gigantesche questioni, l’ambiente politico-mediatico reagisce per lo più oscillando in modo schizofrenico tra l’enfatizzazione addolorata, “indignata”, voyeuristica delle catastrofi e la negligenza sistematica dell’urgenza di affrontare le loro cause strutturali con politiche e strategie di ampio respiro. In questo quadro rientra pure la stucchevole tendenza dei governanti e degli opinionisti a decantare retoricamente la (residua) “grande bellezza” delle nostre località, dei nostri paesaggi, della nostra arte come qualcosa di cui fregiarsi in maniera propagandistica, senza mai affrontare veramente il problema della pianificazione della sua salvaguardia e della sua rigenerazione complessiva. Accade, piuttosto, che le decisioni di maggior rilievo – quando vengono prese – diano luogo a interventi eccezionali sulle situazioni più gravi in cui versano le cosiddette “eccellenze” (si pensi al caso Pompei) o all’incoraggiamento di “eroiche” sponsorizzazioni per il restauro di qualche simbolo nazionale come il Colosseo. Indirettamente, si continua così a trattare come un fastidioso fardello il vasto insieme diffuso di beni paesaggistici, storici e antropici in cui consistono le peculiarità nazionali, regionali e locali del nostro paese. Questo invece è il nostro patrimonio, il principale tratto distintivo dell’Italia nel mondo, la base di ogni speranza di rinascita nell’orizzonte della crisi che stiamo attraversando.
Eppure non mancherebbero gli strumenti adeguati all’attuazione di politiche serie di rivitalizzazione generale di questo patrimonio. Ormai da dieci anni l’Italia si è dotata di un “Codice dei beni culturali e del paesaggio” che – fra l’altro – assegna alle Regioni il compito di definire i propri “Piani paesaggistici”. Esse sono chiamate così a tracciare organicamente le linee di tutela e salvaguardia degli elementi culturali, ambientali e storici che strutturano i loro paesaggi, finalizzando queste linee all’evoluzione sostenibile degli insediamenti e delle attività economiche che hanno luogo sui loro territori. Il Codice, però, non prevede né sanzioni per le regioni che non adottino Piani né tantomeno premialità a favore di quelle che se ne dotano. Ecco una prima importante e necessaria modifica da apportare al Codice.
Conoscenza-tutela-valorizzazione dovrebbe essere la filiera lungo cui muoversi per un coerente rapporto degli Italiani con il loro paesaggio. Ma finora solo poche Regioni hanno cercato di rispondere al compito che è stato loro assegnato: Sardegna e Piemonte innanzitutto e, più recentemente, Puglia e Toscana. In questi pochi casi, inoltre, i tentativi di assumere il paesaggio come base fondamentale della pianificazione territoriale si sono scontrati – e ancora si scontrano – con grandissime difficoltà, causate per lo più da aggregazioni e rappresentanze politiche di costruttori, proprietari di suoli, professionisti dell’edilizia, grossi imprenditori agroindustriali etc. Questi portatori di interessi – diversamente da altri operatori dei loro stessi settori e da molti comuni cittadini animati da maggiore senso civico – tendono a considerare il suolo come oggetto d’uso meramente privato e trascurano la sua appartenenza all’intera società e il suo legame essenziale con i contesti ecosistemici e storici in cui quest’ultima abita e vive. La saldatura tra questi interessi forti e parti trasversali delle forze politiche di governo, a livello centrale o regionale, vanifica sostanzialmente le pur buone intenzioni del Codice e, laddove esistono, le stesse buone leggi regionali di governo del territorio.
Nel caso della Sardegna l’approvazione del Piano paesaggistico e il tentativo di varare una seria legge urbanistica regionale furono, nel 2008, cause determinanti della fine anticipata dell’esperienza della giunta guidata da Renato Soru. Il suo Piano paesaggistico fu poi oggetto di una pesante revisione da parte dell’amministrazione guidata da Ugo Cappellacci e ne risultò una drastica riduzione delle norme di salvaguardia del paesaggio dall’edificazione più disinvolta che proprio in Sardegna ha contribuito nel 2013 a uno dei più gravi disastri idrogeologici. Anche per questo, recentemente, l’amministrazione regionale presieduta da Francesco Pigliaru ha deciso fortunatamente di ripristinare le prescrizioni del Piano fatto approvare a suo tempo da Renato Soru.
Nel caso del Piemonte, invece, il Piano paesaggistico non è andato al di là della semplice adozione da parte della giunta regionale guidata da Mercedes Bresso e, dal 2009, è ancora in preoccupante attesa di una approvazione definitiva.
La Regione Puglia, da parte sua, con la giunta presieduta da Nichi Vendola nel 2013 è riuscita ad adottare il proprio Piano paesaggistico dopo una lunga serie di approfondite ricognizioni e di momenti di intensa partecipazione che hanno consentito di integrare saperi esperti e saperi territoriali. Essa, tuttavia, non è ancora arrivata a deliberare l’approvazione definitiva di questo prezioso strumento di pianificazione. Sorge perciò spontaneo il timore che l’approssimarsi delle elezioni regionali del 2015 possa costituire una condizione favorevole alle forze che hanno interesse a mantenere nell’incertezza normativa l’uso del territorio pugliese e che perciò non si lasceranno sfuggire la possibilità di compromettere l’approvazione del Piano, facendo pressione in tal senso sulla coalizione di governo.
Il tentativo della Toscana di dotarsi di un Piano paesaggistico, infine, è arrivato anch’esso alla fase conclusiva, tra l’adozione (già avvenuta a luglio 2014) e l’approvazione definitiva da parte del Consiglio regionale. Da varie settimane, tuttavia, l’accurato lavoro che l’assessorato ha svolto avvalendosi delle competenze del sistema universitario toscano e seguendo un articolato programma di partecipazione dei territori, è divenuto oggetto di aspre critiche, in gran parte pretestuose e strumentali, provenienti soprattutto da organizzazioni professionali del settore edilizio, da imprenditori del settore estrattivo (Apuane) e da grossi operatori economici dell’agro-industria. Si è giunti perfino ad una volgare campagna denigratoria nei confronti di chi ha lavorato alla elaborazione del piano da parte di organi di stampa come “Il Foglio” di Giuliano Ferrara e “Il Giornale” di Vittorio Feltri. Come si può intuire facilmente, lo scopo di queste strategie di accerchiamento è spingere le forze politiche presenti in Consiglio regionale a frenare il percorso di approvazione del Piano, in attesa che il sopraggiungere delle imminenti elezioni regionali porti ad un “nulla di fatto” lo sforzo compiuto finora dalla giunta guidata da Enrico Rossi. Per fortuna si sono levate anche autorevoli voci sulla importanza strategica, ambientale, culturale, economica e civile del paesaggio toscano.
Queste difficoltà e questi rischi con cui si confrontano i pochi tentativi di rilanciare in modo serio il governo del territorio in un paese esposto a condizioni di vulnerabilità e a varie forme di degrado come l’Italia, che vede nel suo paesaggio e in quello delle sue varie regioni la base della sua identità storica e della sua rinascita civile, non possono non destare allarme e preoccupazione. Gli interessi che si oppongono a questi tentativi sembrano trovare una sponda legittimatrice anche nelle politiche che oggi vengono praticate a livello nazionale. In esse, infatti, l’attenzione alla complessità dei problemi del territorio viene ormai apertamente sacrificata sull’altare di una spregiudicata promozione dell’uso disinvolto del suolo, in nome di un generico e improbabile rilancio della crescita nel quale è destinata a scomparire qualunque esigenza di sostenibilità.
È pur vero, però, che il Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici del MiBACT recentemente ha dedicato ben due sessioni ai Piani Paesaggistici, sottolineando l’importanza strategica di tali strumenti per un’efficace azione di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale della Nazione, in linea con la necessità impellente di attuare finalmente l’articolo 9 della Costituzione. Nessuno pensa di trasformare il Paese in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico. Si tratta, al contrario, di favorire nuove e più innovative strategie di sviluppo del territorio, ispirate al protagonismo delle comunità locali, alla partecipazione democratica, alle vocazioni originarie delle città e delle campagne italiane, con obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo e assumendo un’ottica di innovazione e di trasformazione verso nuovi paradigmi, che non riproducano gli stessi modelli che hanno provocato la crisi attuale.
In Italia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e i siti archeologici, i paesaggi unici, l’agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l’industria culturale, la ricerca e l’innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato di fatto su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie urbane, marginalizzazione dei territori montani e rurali, deturpamento delle coste, avvelenamento dell’agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali per la stragrande maggioranza degli italiani. Un confronto che ha una valenza non solo nazionale ma anche europea e mondiale.
Per tutte queste ragioni i firmatari di questo documento – molti dei quali aderiscono alla Società dei territorialisti – rivolgono un allarmato appello alle forze politiche e sociali più responsabili affinché rivendichino e si adoperino per il completamento dell’iter procedurale dei Piani paesaggistici ancora in via di approvazione entro la conclusione dell’attuale legislatura regionale. Quella per il paesaggio è prima di tutto una battaglia di civiltà, ancorata alle tradizioni profonde del Paese e alle sue prospettive future.
Firmatari:
Alberto Magnaghi – urbanista, Università di Firenze
Giuliano Volpe – archeologo, Università di Foggia
Giuseppe Dematteis – geografo, Politecnico di Torino
Ottavio Marzocca – filosofo, Università di Bari “Aldo Moro”
Rossano Pazzagli – storico, Università del Molise