Un monumento non è uno stadio
di Tomaso Montanari,
Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2014.
Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico con le sponsorizzazioni: dovremmo farlo? Quando avessimo coperto tutti i nostri monumenti in restauro con pubblicità commerciali, e quando avessimo associato tutti i siti monumentali bisognosi di fondi a marchi, imprese e prodotti, quale risultato avremmo ottenuto? La commercializzazione totale, la letterale mercificazione del patrimonio culturale inciderebbe, o no, sul messaggio di quei monumenti? Ne modificherebbe o no la funzione civile?
La sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni ha scritto che dovremmo iniziare a ribattezzare alcune parti dei nostri monumenti con i nomi dei grandi donatori, come avviene nei musei degli Stati Uniti. Potremmo avere il corridoio Eataly degli Uffizi, la navata Sony di San Giovanni in Laterano, la sala Della Valle della Pinacoteca di Brera.
Prima di farlo davvero, tuttavia, sarebbe bene conoscere le conseguenze che simili scelte hanno avuto in America. Qui la maggior parte delle squadre di baseball della Major League vende i diritti di denominazione dei propri stadi, così oggi abbiamo il FedEx Field e il Gilette Stadium. Dallo sport, la pratica è passata alle città: si sono cominciati a vendere i diritti di denominazione degli spazi pubblici (stazioni della metropolitana, stazioni ferroviarie, parchi pubblici e sentieri dei parchi nazionali), in quello che si chiama marketing municipale. Ma anche le macchine della polizia, le pompe antiincendio, le celle delle prigioni e si sono letteralmente coperte di pubblicità. Le pagelle delle scuole pubbliche hanno le inserzioni di Mc Donald’s, e Microsoft ha pagato 100.000 dollari per dare il proprio nome a una presidenza di una scuola. Questa massiccia occupazione dello spazio e dei servizi pubblici ha provocato movimenti di lotta, campagne di denuncia, riflessioni critiche. Il filosofo della politica Michael Sandel ha scritto che “nell’appropriarsi del mondo comune, i diritti di denominazione e il marketing municipale ne sminuiscono il carattere pubblico. Oltre al danno che procura a certi beni, lo spirito commerciale erode la comunanza. Vogliamo una società in cui ogni cosa è in vendita? Oppure ci sono certi beni morali e civici che i mercati non onorano e che i soldi non possono comprare?”. Questa è la domanda, ora anche per noi.
MA E’ ROMA O E’DISNEYLAND?
di Carlo Antonio Biscotto,
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri. è vero mecenatismo?
Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.
Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commerciali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?
Che fosse necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.
A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.
Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.
Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.
Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com ?
Frattanto il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.
Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.