Chi si oppone al Piano Paesaggistico fa una battaglia di retroguardia
di Giuseppe Pandolfi, contadino, Rossano Pazzagli, storico, della Società dei Territorialisti/e.
In Toscana si è aperta sui media regionali la cosiddetta “guerra del vino”, che vede diverse associazioni di categoria del settore vitivinicolo unite in un attacco frontale contro il Piano Paesaggistico proposto dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson. Quali sono le accuse mosse al Piano? Dirigismo, astrattezza, vincolismo, intenti punitivi nei confronti di una categoria agricola che ha bisogno invece di mani libere per procedere a innovazioni del settore che presupporrebbero elevata meccanizzazione, accorpamento dei fondi, semplificazione del paesaggio. Addirittura ci si spinge a dichiarare l’esistenza di una minaccia per l’intero settore vitivinicolo, con paventate ricadute socio economiche negative, se tale piano non verrà rivisto nella sua impostazione generale. A noi pare che la polemica scatenata da alcuni settori di vertice dell’imprenditoria agricola sia tesa a delegittimare un piano per molti versi avanzato, che farebbe onore alla Toscana intera e alla sua dimensione rurale costruita nel tempo dal lavoro sapiente degli agricoltori.
Non è a oggi chiaro in quale direzione si muoveranno le osservazioni agli elaborati di piano che le associazioni stanno elaborando, però sappiamo già che sul carro della lotta contro il Piano è salito pure una parte del partito di maggioranza in Regione oltre ad una parte del potere locale.
Alcuni interventi nel dibattito, pur provenendo dal mondo agricolo o comunque vitivinicolo, hanno con buon senso riportato al centro della discussione lo stato reale del settore, come nel caso di Alessandro Regoli, direttore di Wine News, che ha scritto in una sua lettera aperta ai media regionali: “ La Toscana è famosa nel mondo per l’armonia del paesaggio, che quindi va conservato, nell’interesse supremo di tutti. Questo non vuol dire non fare nulla: la programmazione territoriale non si crea mettendo regole, ma cercando di rimodellare bene, in maniera sostenibile, tenendo conto degli effetti idrogeologici e paesaggistici, ma anche senza speculazioni. Il Piano penso che avesse la finalità di “accompagnare” le trasformazioni e non bloccare gli investimenti nel settore agricolo in Toscana”. O come nel caso di Luca Brunelli, presidente Cia Toscana,che presentando un dossier sul Piano paesaggistico elaborato dalla sua associazione, sia pur criticabile e che riteniamo di non condividere (basato sulla antinomia tra l’ “agricoltura tradizionale” secondo loro privilegiata dal Piano e quella “innovativa e competitiva”) dichiara: “è un documento complesso e giustamente ambizioso, che condividiamo negli obiettivi fondamentali, perché mira al contrasto del consumo di suolo; riconosce l’agricoltura quale presidio paesaggistico essenziale; punta al recupero produttivo agricolo di superfici abbandonate. Emerge tuttavia la tendenza ad una visione statica dell’agricoltura […] che individua fra le minacce al paesaggio l’abbandono dell’agricoltura da una parte e i processi di intensificazione e specializzazione dall’altra […].Per quanto riguarda, per esempio, i vigneti occorre evitare generici giudizi di “criticità” e conseguenti direttive di generalizzato contrasto allo sviluppo del settore. Suggeriamo di applicare l’art. 149 del codice con il metodo seguito in altre circostanze (es. fotovoltaico o biomasse): definendo in quali condizioni, e a partire da quali estensioni, si debba evitare la realizzazione di nuovi impianti o adottare norme tecniche di prevenzione del rischio idrogeologico”. Sono richieste di modifica del testo che, trasformando le raccomandazioni in regole agronomiche chiare e definite, possono dare anche maggior cogenza a quegli indirizzi, e quindi possono definire un terreno di mediazione possibile.
Ma il complesso degli interventi ha avuto un altro taglio, e può aver ingenerato in molti l’impressione che la normativa proposta sia un insieme di vincoli che un potere politico (e accademico) vuole imporre al dinamico e libero mondo di imprenditori agricoli, o per dirla con le parole di Giovanni Busi presidente del Consorzio Chianti «Non può essere un atto politico a dire dove io devo piantare viti o dove non posso farlo, deve essere il viticoltore a scegliere, perché conosce il vino e come lo si fa».Ma per non perdersi in un polverone di dichiarazioni che spesso sembrano estremizzare ed ideologizzare astrattamente, riteniamo utile sottolineare alcuni semplici dati di fatto:
1) Non esiste libero mercato nella viticoltura. È vero (come afferma la CIA nel suo dossier) che l’agricoltura specializzata copre nel suo insieme solo una superficie di 100mila ettari circa, suddivisi tra viticoltura (60mila), ortofrutticoltura (27mila), e florovivaismo (13mila), con una incidenza solo dell’11,7% sulla SAU toscana, e che l’incremento dei vigneti negli ultimi dieci anni (2000 – 2010) è stato soltanto del 2,5%. Non è però vero come sostiene la CIA che “tutti i pericoli paventati dal Piano e nella ‘guerra dei vigneti’ di questi giorni, sono davvero una ‘tempesta in un bicchiere di vino’, ben lontani dalla realtà”.In tutta la UE vige nei fatti il blocco dei nuovi impianti viticoli con un incremento massimo ammissibile nei singoli stati dell’1% della superficie vitata esistente e per normare in Italia (e in Toscana) la realizzazione di nuovi vigneti esiste una procedura basata sul “Diritto di impianto”, tale per cui l’agricoltore non può impiantare se non ha già una vigna da rinnovare con l’espianto, o se non acquisisce il titolo da un viticoltore che vendendo la sua quota di vigna si impegna ad estirparne una superficie equivalente. È un sistema che tutela fortemente le imprese esistenti, frutto delle pressioni delle associazioni del settore sul governo italiano, che ha resistito nelle negoziazioni europee agli indirizzi di “liberalizzazione” che ci venivano chiesti dalla UE. Il sistema al quale l’Italia si dovrà adeguare dal 31 dicembre 2015 prevede infatti che si passi in futuro al sistema delle “autorizzazioni”, che sono nominali alle aziende e che non possono essere commercializzate. Qual è allora il rischio possibile per la Toscana? Che nella fase di transizione al nuovo sistema, come è accaduto per il Prosecco che ha drenato 4000 ettari di diritti di impianto in 4 anni, si possano concentrare su porzioni del nostro territorio diritti di reimpianto derivanti dall’abbandono di vigneti in altre zone o parte di quei 50000 ettari di diritti “in portafoglio” alle aziende viticole nazionali (vigneti “di carta”), con fenomeni locali di riduzione della diversità della maglia agraria sia dove verrebbero espiantati vigneti sia dove verrebbero realizzate monocolture estensive. Il Piano Paesaggistico giustamente mette in guardia da questo rischio, appare anzi sin troppo blando nell’aspetto normativo perché non prevede esplicitamente norme cogenti sulla dimensione massima degli appezzamenti o sulla estensione massima in pendenza delle superfici vitate. Desta perciò perplessità che da parte di molti si ritenga ammissibile e legittimo porre limiti alla libera intrapresa dei singoli agricoltori (della cui autonoma capacità di giudizio e programmazione evidentemente poco si fidano le stesse associazioni di categoria …) con una normativa nazionale voluta dalle stesse lobby dei viticoltori per difendere il valore economico delle colture viticole e la redditività dei diritti acquisiti, ma lo stesso principio con regole peraltro abbastanza generali non valga per difendere interessi e diritti della collettività quali quello al paesaggio (art 9 della Costituzione) e all’ambiente. Il paesaggio agrario, frutto delle equilibrata combinazione tra rittochino e coltivazioni a traverso (tagliapoggio, cavalcapoggio e girapoggio, per non parlare delle più elaborate coltivazioni a spina), sedimentato nei secoli, è una risorsa in sé, ed è una risorsa che da valore alle produzioni di qualità, vino compreso.
2) Le grandi monocolture intensive e specializzate non sono l’agricoltura del futuro. Nel loro documento di contestazione del PP le associazioni vitivinicole dichiarano che il Piano ha una impostazione “anacronistica e sbagliata” perché “rilancia un modello di agricoltura vecchio e non competitivo” bloccando “l’agricoltura di qualità”. Qui c’è un equivoco da sciogliere: i vigneti a rittochino di grande estensione, realizzati accorpando colture o acquisendo diritti di impianto da altre zone, gestiti con la meccanizzazione spinta (macchine scavallatrici) non sono il futuro, ma un aspetto di quella “modernizzazione” che abbiamo visto all’opera nei decenni passati e di cui abbiamo già colto anche i limiti; come tutte le monocolture, hanno massima vulnerabilità a patogeni e richiedono forti interventi antiparassitari, semplificano il paesaggio riducendone l’attrattività turistica e la multifunzionalità ma anche la valenza ecosistemica, diminuiscono i tempi di corrivazione delle acque aumentando il grado di erosione, il rischio a valle e il pericolo localizzato di dissesto idrogeologico; per citare un caso recente, lo stilista Cavalli nel 2008 ha pagato più di 200000 euro al comune di Firenze per rimediare ai danni prodotti dall’impianto di un nuovo vigneto a rittochino che sgrondavano masse di acqua e fango sull’abitato sottostante. Questi aspetti sono ben chiari agli stessi viticoltori associati che, nel Chianti senese e fiorentino, hanno supportato e condiviso quella “Carta dell’uso sostenibile del territorio rurale” nella quale vengono indicate le buone pratiche agricole – ad esempio stabilendo la distanza fra filari di viti, o la necessità di intercalare alberi e siepi fra le varie colture – che coniugano norme estetiche e di salvaguardia idraulica, per tutelare il paesaggio, difendere la biodiversità. Ma la cosa ancor più eclatante (nessuno lo dice) è che la nuova PAC europea dal 1 gennaio 2015 farà entrare in vigore le procedure di “greening”, ossia condizionerà il pagamento del 30% dei contributi agli agricoltori alla introduzione di misure ambientali nelle superfici ammissibili a finanziamento, misure che sono sostanzialmente tre, diversificazione delle colture, mantenimento dei prati permanenti, presenza di aree di interesse ecologico quali boschetti e siepi. L’agricoltura del futuro è quindi quella sostenibile, biologica o biodinamica, a basso impatto, diversificata (che ben si sposa con la salvaguardia di alcuni elementi del paesaggio tradizionale toscano) e le estese monocolture a vite poco hanno a che vedere con questo anche se sul breve periodo possono risultare un grande affare per qualcuno. Chi si oppone oggi al piano paesaggistico appare dunque anacronistico.
3) Le monocolture dell’agroindustria non garantiranno nuova occupazione. In un articolo sempre il presidente del Consorzio vino Chianti Giovanni Busi ha dichiarato a proposito del Piano «Si mette a rischio un pilastro dell’economia e dell’occupazione, oltre che il più inflessibile custode del paesaggio». Fermo rimanendo che in realtà il Piano non impedisce nuovi impianti viticoli né la vivaistica e l’orticoltura in serre, ma cerca solo di influenzarne il modus realizzativo, occorre sfatare un altro “mito”, ossia quello che la “modernizzazione” agricola come la si è intesa negli ultimi 70 anni sia stata un ostacolo all’abbandono delle campagne e una garanzia di presidio del territorio; basti pensare che negli ultimi 30 anni in Italia dal 1980 al 2010 (dati ISTAT) si è passati da 3133118 aziende a 1620884, con un dimezzamento al quale ha fatto da corrispettivo l’incremento della SAU aziendale media, ed una perdita non proporzionale di soli 3 milioni di ettari coltivati (da quasi 16 milioni a circa 13). In tutto questo fenomeno di accorpamento delle superfici, di aumento delle grandi aziende, di “modernizzazione” agraria si passa da 600 milioni di giornate di lavoro (1980) a 250 milioni (2010) , con la riduzione di quasi due terzi del lavoro nel comparto agricolo. L’aumento della superficie aziendale, la rimozione di ostacoli alla meccanizzazione spinta, hanno diminuito in generale la necessità di lavoro umano e, al suo interno, di quello specializzato e qualificato dei contadini, sostituendovi il precariato rurale spesso dequalificato degli stagionali: sul totale di 49 milioni di giornate lavorative nazionali extrafamiliari (2010) 26 milioni di giornate sono quelle del lavoro a tempo determinato. La costruzione di un nuovo paesaggio agrario fondato su mosaici colturali, sull’agricoltura contadina delle piccole-medie aziende e sulla conversione in senso biologico e sostenibile delle grandi aziende, oltre a garantire bellezza e occasioni di reddito ad aziende multifunzionali e multiproduttive garantisce quindi anche più lavoro. Un bel paesaggio agrario è quindi anche un paesaggio sociale vivo e abitato, non un lusso per esteti sfaccendati.
4) L’agroindustria crea enormi problemi sia alla salute sia all’ambiente toscani. Fabrizio Bindocci (Consorzio Brunello di Montalcino) presentando il documento delle associazioni di viticoltori ha dichiarato che «non ci sono dissesti se c’è un agricoltore attento, perché usa pochi antiparassitari, regimenta le acque, tiene i fossi puliti perché l’acqua scorra…. ». È proprio quello a cui mira il piano; allora perché sono contro?È vero che abbiamo un trend di diminuzione dell’uso di fitofarmaci (-19,8% in dieci anni secondo gli ultimi dati nazionali ISTAT) ma restiamo con Olanda e Francia i paesi con più elevato uso di fitofarmaci per unità di superficie: 5,6 chili per ettaro, 350 sostanze tossiche diverse, 140.000 tonnellate all’anno, che fanno circa un terzo del totale usato in tutta l’Unione europea a 27, pur avendo noi una SAU che è il 7% di quella europea. Nella nostra regione l’intensivizzazione e specializzazione spinta portano a picchi di utilizzo di questi prodotti su superfici ridotte; le ultime analisi di monitoraggio dell’ARPAT sulle acque superficiali toscane destinate alla produzione di acque potabili (fiumi, laghetti e invasi) hanno riscontrato il 30% di campioni con presenza di residui di fitofarmaci (37 su 122 campioni), con 61 diverse sostanze attive da fitofarmaci trovati nel triennio 2010-2013, e tra queste “I casi più frequenti riguardano quattro fungicidi, dimetomorf, tebuconazolo, iprovalicarb e metalaxil, con spettro di azione molto simile fra di loro, presenti in prodotti commerciali di tre diverse ditte produttrici e utilizzati in viticoltura” (ARPAT toscana 2013). Il quadro che emerge è inquietante, con 15 diversi pesticidi trovati alla presa dell’Anconella a Firenze, 18 a Quarrata, 11 nel laghetto di Fabbrica a San Casciano. Si potrebbe aggiungere a questo che Mancozeb e Gliphosate (un fungicida e un erbicida) sono in quantità i prodotti più usati in Toscana dopo rame e zolfo e che il Mancozeb in particolare contiene etilenbisditiocarbammato di Manganese, un prodotto la cui manipolazione (secondo le nuove tabelle ministeriali per le malattie professionali in agricoltura) può produrre nel coltivatore l’insorgenza del morbo di Parkinson anche 10 anni dopo il contatto. La costruzione di un paesaggio agrario articolato e differenziato, nel quale le fasce di rispetto da fiumi e laghi tornino ad essere vegetate e protette da contaminazione, nel quale le colture abbiano maggiori difese endogame richiedendo meno trattamenti, è quindi un modo per difendere dall’avvelenamento tanto i pozzi della comunità quanto i contadini e i consumatori.
La posta in gioco nella discussione sul Piano Paesaggistico è a nostro avviso molto alta, si tratta di decidere qual è il modello di agricoltura che vogliamo per il nostro futuro e perciò auspichiamo che questa discussione non resti solo appannaggio di chi difende interessi particolari o peggio speculativi. Il territorio rurale toscano, e il paesaggio agrario che ne è la dimensione visibile, sono beni preziosi e comuni, di tutti. E le sue trasformazioni devono essere governate, non subite. L’interesse per il piano paesaggistico, dunque, non può rimanere limitato a pochi addetti ai lavori, ma deve coinvolgere tutti quei soggetti attivi in un possibile cambiamento di scenario, dai GAS alle associazioni di tutela dell’ambiente e del territorio, dalle associazioni di categoria più lungimiranti ai cittadini sui territori come in parte è già avvenuto con i momenti di partecipazione seguiti dalla Regione nella costruzione del piano.
Questa “guerra del vino” ci pare una polemica scatenata ad arte per impedire – dilazionandola nel tempo – l’approvazione del piano, con il coinvolgimento anche di una parte del potere politicoregionale e locale (come sta avvenendo purtroppo per la nuova legge urbanistica), magari per aspettare la fine della legislatura regionale e poi avere le mani libere con un altro assessore all’urbanistica. Agricoltori e studiosi, Università e mondo rurale hanno l’interesse comune a ribadire il valore del piano e a denunciare il tentativo di poche lobby di ostacolare un equilibrato governo delle trasformazioni del paesaggio e quindi del mondo rurale. Quando qualcuno dice che non può essere la politica a decidere gli indirizzi delle trasformazioni, significa che secondo lui devono essere il mercato e gli affari a dettare le scelte. Stupisce che autorevoli associazioni di categoria si prestino a questo gioco e che in Regione molti invece di difendere il proprio piano cerchino di ritardarlo nella speranza di affossarlo. È solo il disperato tentativo di rilanciare un modello che ha prodotto guai, cioè un paesaggio più semplificato e banale, un suolo più fragile e un sistema economico che adesso è strutturalmente in crisi. Alla crisi si risponde mettendo il territorio e l’agricoltura, la buona agricoltura, al centro dell’attenzione culturale e politica, non riproponendo gli stessi paradigmi che l’hanno generata.
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