Di Salvatore Settis, Repubblica, 30 settembre 2014.
Il Lupi non perde né il pelo né il vizio. Anzi conquista il Palazzo, con un governo nominalmente di centro-sinistra, come non era mai riuscito a fare con la destra a cui appartiene. Il suo primo disegno di legge per il governo del territorio conteneva norme intese al «rovesciamento dell’urbanistica, al trasferimento di poteri dal pubblico al privato, all’ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide, rendendo permanenti le regole della distruzione del Paese avviate con i condoni» (Edoardo Salzano): eppure finì col raccogliere le firme di 147 deputati, allineando Bossi e Bersani, Mussolini e Realacci, Bocchino e Vendola, La Russa e Pecoraro Scanio (III governo Berlusconi, 28 giugno 2005). Arenatasi al Senato con la fine della legislatura, quella proposta fu la prova generale di una concordanza bipartisan per il saccheggio d’Italia, una crociata di cui Maurizio Lupi è da sempre l’apostolo, pronto a saltare su qualsiasi treno pur di coronare il suo sogno. Anche il meritorio disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo, presentato nel 2012 da Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, diventò in mano a Lupi e ai suoi alleati d’ogni segno (ingenui o complici?) il cavallo di Troia per rilanciare tal quale una concezione del territorio come risorsa passiva, da attivare mediante colate di cemento (Repubblica, 1 giugno 2013). Ma mentre il ddl Catania, rilanciato all’inizio di questa legislatura, viene ritardato sine die in gara con testi alternativi, il cosiddetto “sblocca Italia” rimette nelle botti del governo il vino vecchio di un Lupi d’annata. Anche se «i benefici della cementificazione sono a breve termine mentre i danni che crea si riverseranno, ampliandosi, sulle generazioni a venire, bruciando il nostro patrimonio territoriale con una politica profondamente miope ed inefficace» (Catania).
La ricetta da Lupi per “sbloccare l’Italia” è una selvaggia deregulation che capovolge la gerarchia costituzionale fra pubblico interesse e profitto privato, e imbavagliando le Soprintendenze impone agli organi di tutela la santa ubbidienza alle imprese di costruzione. Qualche esempio: l’Ad delle Ferrovie è Commissario per la costruzione di nuove linee ferroviarie, e ogni eventuale dissenso può essere espresso solo aggiungendo «specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’ assenso», dando per scontato che ogni progetto debba essere sempre e comunque compatibile con la tutela del paesaggio. Quando poi vi sia «motivato dissenso per ragioni di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o della tutela della salute e della pubblica incolumità», la decisione è rimessa all’arbitrio inappellabile dello stesso Commissario (art. 1). L’autorizzazione paesaggistica viene cancellata all’art. 6, in barba al Codice dei Beni Culturali, per ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni; e all’art. 25 viene “semplificata”, cioè di fatto rimossa, per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», e assoggettata al silenzio-assenso ignorando le sentenze della Corte Costituzionale (26/1996 e 404/1997) secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può aver valore di assenso». L’art. 17 è un inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire convenzionato”, vera e propria licenza di uccidere che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali. È il trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da anni.
Nel buio di una “larga intesa” a geometria variabile, la direzione è chiara, e ce ne sono altri indizi. Per esempio, la decisione del Governo di ubbidire agli armatori delle grandi navi che deturpano Venezia, ampliando a dismisura il canale di Contorta Sant’Angelo (da 6 a oltre 100 metri, per una lunghezza di 51Qn!), con pesantissime conseguenze ambientali. Per esempio, l’imminente intesa con la Regione Puglia per consentire nuovi impianti eolici nonostante il parere negativo della Soprintendenza, accogliendo lo specioso argomento, avanzato dalle ditte interessate, che altri impianti eolici sono già presenti in aree adiacenti (come dire che un nuovo tumore non va curato, se il malato ne aveva già un altro). Anziché affermare, come vuole la Costituzione, la preminenza del pubblico interesse, prevale il
negoziato con le imprese che privilegia il loro punto di vista, cioè di fatto legalizza il conflitto di interessi e ne fa anzi il motore della politica. Così, mentre il controverso decreto promosso dal ministro Franceschini rimaneggia l’organizzazione del Ministero dei Beni Culturali ridistribuendo competenze tra Musei e Soprintendenze, il vero smontaggio della tutela comincia dall’urbanistica, dal paesaggio e dall’ambiente, all’insegna dell’abdicazione delle istituzioni pubbliche e del disprezzo della Costituzione.
Per governare il territorio la soluzione di legge non è la deregulation, ma il piano paesaggistico coordinato fra Regioni e Ministero, come quello varato in luglio dalla Regione Toscana, oggetto di furibondi attacchi da parte dei titolari della rendita fondiaria ma anche di molte amministrazioni comunali. Ma nulla fa credere che il governo intenda dar corso a questa co-pianificazione. Tutto fa credere invece che Lupi, promosso ministro da Letta e da Renzi per meriti acquisiti in era berlusconiana con .l’ideologia della cementificazione, incarni il pensiero dichiarato dal presidente del Consiglio nel suo libro Stil novo (2012): «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?». Sarà ormai questo il dolce stil novo di un Pd post-costituzionale?