di Enrico Rossi, da Huffington Post del 24 agosto 2014.
Chissà cosa direbbe oggi Robert Kennedy di fronte alla decisione di includere nel calcolo del Pil alcune forme di economia criminale. Sapendo che le attività illegali rappresentano nel nostro paese un punto di forza rispetto all’Europa, si è diffusa in Italia una attesa piena di speranza e ci si aspetta che le attività criminali, sulla base dei nuovi criteri, servano a fare pari e patta con il peggioramento che la ricchezza nazionale ha registrato nel secondo semestre di quest’anno. Robert Kennedy il 18 marzo 1968 denunciava in un discorso l’inadeguatezza del Pil come indicatore del benessere e del successo del suo paese. Il Pil – diceva – comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalla carneficina di fine settimana. Mette nel conto programmi televisivi che valorizzano la violenza. Cresce con la produzione del napalm, missili e testate nucleari. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna fi essere vissuta. Può dirci tutto sull’America – concludeva – ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. L’inclusione della criminalità nel Pil non fa altro che peggiorare questa situazione. Ed è indice di un cinismo che prescinde da ogni altra considerazione valoriale e che ormai sembra dominare ogni pensiero in campo economico. L’economia, in qualunque modo si faccia, è un valore in sé e rientra a pieno titolo nel calcolo della ricchezza di una nazione. Ha ragione il segretario dell’ANM Maurizio Carbone, quando definisce una “mostruosità” queste scelte e denuncia che in questo modo si fa un favore alle cosche, alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, riconoscendo loro uno status di produttrici di ricchezza e di lavoro. Infatti l’economia sommersa, le attività che sfuggono al pagamento di tasse e contributi, è già inclusa nel Pil e può essere fatta emergere con la lotta all’evasione e con la semplificazione fiscale. L’economia criminale invece deve essere combattuta ogni giorno dalle forze dell’ordine, dalla magistratura e dalle istituzioni allo scopo di estirparla completamente, perché non solo essa è illegalità e degrado morale, ma anche perché altera i meccanismi della concorrenza a favore di chi non ha scrupoli etici, e sul piano sociale significa oppressione e sfruttamento brutale. Sarebbe bene che la politica, anziché attendersi “sostanziosi” miglioramenti del Pil derivanti dalla criminalità, si rifiutasse di accettare questa mostruosità e rinnovasse e intensificasse il suo impegno nella lotta contro di essa e contro la metastasi economica, civile e morale che essa produce. Sono lontani i tempi nei quali con parole sempre attuali e non molto diverse da quelle di Robert Kennedy, un politico italiano, Enrico Berlinguer, si interrogava su che cosa e sul perché produrre, mettendo in discussione la qualità e non solo il “quanto” dello sviluppo. Enrico Giovannini, ex presidente Istat, sostiene che il ricalcolo del Pil con le attività criminali non è un misuratore di benessere ma serve ad avere un quadro più reale del funzionamento di un sistema economico. E aggiunge che in ogni caso ciò “non muterà il giudizio sull’andamento economico, perché oltre al Pil del 2013 sarà ricalcolato quello degli anni precedenti e sul confronto tra un anno e l’altro non dovrebbe cambiare quasi niente”. Ma allora se il Pil non misura il benessere, se includervi le attività criminali non modifica i nostri conti e i nostri obblighi rispetto al fiscal compact, perché lanciare un messaggio così devastante e soprattutto perché avvallarlo e non combatterlo sul piano politico? Mentre papa Francesco lancia ai mafiosi la scomunica, l’anatema più forte per il mondo cattolico, la politica rischia di accettare una idea di crescita lontana dall’uomo e dai suoi bisogni.