Parcheggi interrati a Firenze:

manila città storica nella cornice del disastro,

di Ilaria Agostini.

Intervento all’incontro Parcheggi interrati nella città storica: le ragioni del no, organizzato da Comitato Oltrarnofuturo e Comitato per piazza Brunelleschi, con la collaborazione della ReTe dei comitati per la difesa del territorio e della lista consiliare perUnaltracittà, Fienze, 13 giugno 2013.

Il Piano Strutturale del Comune di Firenze, confezionato e approvato nel 2011 dalla giunta del sindaco mediatico, è un atto finalizzato all’incremento della rete viaria e del trasporto privato su gomma. Scelta che si manifesta con evidenza nella prima frase dedicata alla città storica, della quale peraltro si tace fino alla pagina 45 del documento di avvio del PS, dove, nello sconforto del lettore, si trova la seguente dichiarazione: «La prima azione da mettere in campo, per il centro storico, è promuovere la realizzazione di parcheggi interrati», nel centro storico stesso, ça va sans dire. Nelle norme tecniche di attuazione della città storica (UTOE 12) sono individuati ben nove siti – interni alla zona a traffico limitato o ad essa immediatamente prossimi – destinabili alla sosta in silos ipogei: piazza del Carmine; costa San Giorgio; lungarno della Zecca Vecchia; piazza dei Ciompi; piazza Strozzi; piazza Brunelleschi; piazza San Marco; piazza Indipendenza; piazza Ognissanti (cfr. NTA del PS, art. 35). Per la costruzione dei parcheggi interrati (da considerare a pieno titolo volumi edilizi, nonostante gli slogan del sindaco pubblicitario) il Comune si affiderà per lunga e infelice consuetudine all’istituto del project financing, strumento già dimostratosi non orientato alla pubblica utilità (si noti che, estrema perversione, la normativa vigente prevede che l’opera pubblica realizzata con project financing può essere ceduta al privato che la ha realizzata e gestita). La privatizzazione del sottosuolo (e il connesso movimento terra che, detto per inciso, è terra fertile per la camorra) si sta dimostrando – anche a livello nazionale – la nuova frontiera della speculazione e della bolla edilizia: basti pensare al tunnel TAV che sottoattraverserà viali e fortezza da Basso, alla linea di metropolitana sotto piazza del Duomo e al “tubone” pedecollinare per il traffico su gomma, entrambi previsti dal PS; non mancano esempi sul fronte dell’edilizia privata, dalle cantine vinicole patinate ai supermercati ipogei.

Al banchetto infrastrutturale, imbandito dal piano regolatore per la leccardìa dei costruttori, i privati spizzicheranno qua e là, fuori da un qualsiasi progetto organico di mobilità e di sosta improntato alla pubblica necessità, e fuori da qualsiasi bisogno espresso dalla cittadinanza.

I parcheggi interrati nella città storica sono da evitare per più ordini di ragioni, anche qualora fossero realizzati con meccanismi finanziari e concessòri trasparenti, e secondo pratiche pianificatorie civilmente condivise. Innanzitutto dal punto di vista della tutela degli insediamenti di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale, che è un obbligo costituzionale. Le piazze storiche, di proprietà collettiva, sono a tutti gli effetti patrimonio monumentale nella loro consistenza aerea, subaerea e ipogea: la conversione della loro superficie lastricata in solaio cementizio (segnato dalle grate di aerazione) del sottostante garage non deve essere consentita. In secondo luogo, è convincimento diffuso globalmente che i centri urbani debbano essere liberati dalla morsa del traffico privato su gomma e, possibilmente, dalle automobili medesime: un parcheggio interrato si limita invece a nascondere sotto il tappeto parte delle automobili in sosta, attraendo contemporaneamente nuovi volumi di traffico non residente. La gestione in project financing comporta infatti tariffe orarie elevate destinate all’uso veloce e, non favorendo la sosta di chi abita nel quartiere, di fatto contribuisce al processo in atto di gentrification ed estromissione dei residenti. Dal punto di vista tecnico-urbanistico, infine, si ritiene che sia da valutare con oculatezza l’opportunità di scavare un invaso profondo non meno di dieci metri in aree a rischio idraulico, quali sono tutte le piazze del centro fiorentino. Chi assicura infatti, nel caso di specie, l’«assenza di pericolo per le persone e i beni» e l’inesistenza di un «incremento dei rischi e della pericolosità idraulica al contorno», come richiesto dall’art. 2 della legge regionale 21/2012 redatta in risposta alle alluvioni disastrose in Lunigiana, legge che impedisce di fatto la nuova edificazione nelle aree a “rischio idraulico molto elevato”? La costruzione di un’opera edile ipogea in area a “rischio idraulico elevato” e contigua al letto del fiume, come piazza del Carmine, pone senza dubbio problemi di incolumità degli utenti, dei cittadini e dei beni. Il parcheggio nel piazzale delle Cascine – sinora non rammentato, ma in progetto – si trova poi in area di “rischio idraulico molto elevato” (cfr. http://geodataserver2.adbarno.it/pai%5Fpi10k/), ed è dunque illegittimo ai sensi della citata legge.

L’assenza di un piano particolareggiato per la città storica, assenza lamentata da anni da tecnici e cittadini ma ostentata per amor di modernità dagli amministratori, si accoda alla parabola discendente della conservazione dei centri storici peninsulari, che inanella le perle dell’Aquila e del piano di ricostruzione post-sisma emiliano, dove la LR 16/2012 affida ai tecnici la sorte degli edifici storici non vincolati, destituendo la pianificazione comunale dall’esercizio della tutela. Così, a Firenze, da vari decenni si opera nel tessuto storico con una sommatoria di interventi mal pianificati e mal programmati, laddove sarebbe necessario invece agire con i metodi del restauro e del recupero, in conformità con la Carta di Gubbio (1960) che riconosceva il valore monumentale dell’insieme degli elementi della città storica. Trascuriamo in questa sede la qualità di tali interventi passati nel silenzio metà incapace, metà impotente, della Soprintendenza fiorentina.

Ma cosa sta succedendo nel centro città interno alla cerchia muraria trecentesca? Esiste innanzitutto un “centro del centro”, il “salotto buono”, la “vetrina” o “bomboniera” a cui l’amministrazione del sindaco televisivo dedica un’attenzione maniacale con interventi sporadici e d’effetto – non richiesti né voluti dalla popolazione, tantomeno discussi in consiglio comunale – che consentono al primo cittadino l’approdo tanto trionfale quanto autistico sui media intercontinentali. Da anni la città antica comprendente il quadrilatero del castrum romano è stata disertata dai cittadini, sostituiti dai turisti, dagli eventi, dalla vita eterodiretta. Scenario delle notti bianche (quando i cittadini vorrebbero invece notti normali) e della grande produzione mediatica industriale, il “centro del centro” è stato, nell’ultima legislatura, ulteriormente isolato dal resto della città. Vi contribuiscono pesantemente: l’allontanamento dell’anagrafe da Palazzo Vecchio (sostituita da un improbabile asilo “aziendale”); la pedonalizzazione di piazza del Duomo (privatizzata poi dalle grandi terrazze di bar che arrivano a lambire la colonna di San Zanobi) e la deviazione dei percorsi degli autobus urbani sull’asse San Marco-Indipendenza, oggi sovraccarico; l’assenza di un sistema di trasporto pubblico con bus di piccola taglia adatti al tessuto urbano storico; il paventato sfratto del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux da palazzo Strozzi etc.

Dall’altra parte, la sorte dei quartieri storici limitrofi alla città antica prende due strade diverse: Sant’Ambrogio e Oltrarno si trovano in una fase di accelerazione dei processi di trasformazione del tessuto sociale, di sostituzione degli abitanti ed estromissione degli artigiani (i parcheggi interrati fanno parte del menabò). In via Palazzuolo e in San Lorenzo, invece, regna l’assenza di cura e manutenzione ordinaria, al pari di quanto avviene nelle periferie più distanti; il mancato recupero del complesso di Sant’Orsola ne è un esempio paradigmatico. Tutt’al più qualche intervento è mirato alla “sicurezza” (illuminazione da stadio nei vicoli; asfaltatura dei selciati sconnessi).

Questo scenario sconfortante potrebbe essere riscattato da una politica assennata sui grandi edifici storici in dismissione o già vuoti, alcuni dei quali in alienazione, che sarebbero naturalmente vocati ai servizi per la cittadinanza, a luoghi deputati alla socialità, ad atelier di produzione artigianale, ma anche a residenze sociali, richieste con sempre maggior urgenza dal Movimento di lotta per la casa (sulla residenza nei centri storici gli esempi non mancherebbero: Bologna, Saint-Macaire in Aquitania etc.). Ma, per quanto riguarda le previsioni di piano, si naviga a vista. Sul tema, che costituirebbe il fulcro del disegno dell’assetto urbano futuro, il documento d’avvio del Regolamento urbanistico (attualmente in elaborazione) con inopportuna ingenuità si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Chi, se non i privati, sembra essere la risposta. Gli edifici, privi nel piano strutturale di linee guida per la loro trasformazione, sono molti e di pregio, anche per localizzazione: il tribunale di San Firenze (l’ex convento dei Filippini, dietro Palazzo Vecchio), la corte d’Assise (progettata da Bernardo Buontalenti), il teatro Comunale, la scuola dei Carabinieri nei locali storici del convento di Santa Maria Novella, il Distretto militare nel convento di Santo Spirito, l’ex Ospedale militare in via San Gallo, la scuola di Sanità militare nel convento del Maglio in via Venezia, la sede allievi ufficiali in costa San Giorgio, l’ex distaccamento militare a Monte Uliveto, per citare solo i casi più illustri. Ancora un banchetto imbandito stavolta per università americane e multinazionali attratte dal marchio Firenze (il «brand fiorentino» troppo spesso richiamato dal sindaco globalizzato).

Occorrerebbe invece che le azioni da avviare sulla città storica si inquadrassero nella dimensione della cura, delle pratiche positive, orientate a ciò che Gandhi definiva autonomia di villaggio: autonomia nella produzione e riproduzione di risorse (alimentari, energetiche, culturali etc.) e di saper fare, di riappropriazione dei saperi. Su quest’ultimo punto, la città può offrire molto in termini di lavoro di prossimità e di alta manualità. Scalpellini per il ripristino e manutenzione dei selciati; muratori, restauratori, falegnami, imbianchini per l’edilizia storica nonché produzione di atlanti e guide per il suo recupero; fontanieri (in una città così poco generosa d’acque, fontanelli del sindaco a parte); artigiani di qualità, che esercitano a scala familiare la produzione manuale, secondo modelli e tecniche tradizionali, attualmente soffocati dagli affitti e dalla normativa che li equipara a industrie di piccola (ma mica tanto) dimensione. Chi scrive ritiene necessario e possibile prefigurare strategie che prevedano l’istituzione di uno status speciale per l’artigiano della città storica che consenta l’affrancamento dal vigente sistema contributivo e previdenziale, e la liberazione dalla rendita privata attraverso l’istituzione di appositi locali pubblici destinati a laboratori artigiani, nonché attraverso la libertà dell’apprendistato. La diffusione del piccolo commercio, delle sale di teatro e cinema di quartiere sarebbero favorite da una riduzione del gigantismo periferizzante (ipermercati, multisale, scaffali informatici). Per attuare queste poche cose è necessario un grande cambiamento da parte di amministrazioni – locali e centrali – e cittadinanza, nel senso della resistenza al liberismo e all’individualismo imperanti. Solo così si potranno perseguire e mettere in pratica magnificenza civile e pubblica felicità, obbiettivo di una buona politica.