Dibattito sul Consumo di suolo

 

nonameROMA, 19 GIUGNO 2013. COMUNICATO STAMPA

 

Si è svolto il 18 Giugno 2013 il Dibattito “Consumo di suolo: a un passo dal baratro” , sulle proposte di legge sul contenimento del consumo di suolo, a cui hanno partecipato Paolo Berdini, Roberto Della Seta, Vezio De Lucia, Massimo De Rosa, Domenico Finiguerra, Stefano Lenzi, Paolo Maddalena, Domenico Cecchini, Edoardo Zanchini e il moderatore Giuseppe Pullara del Corriere della Sera.

 

Il confronto, organizzato dalla “Conferenza Urbanistica Partecipata”, promossa dalle Reti, dai Comitati,dalle Associazioni e dai Forum, ha raccolto un’ampia e qualificata adesione di cittadini. Più di duecento persone hanno gremito la sala della Casa dell’Architettura per seguire l’acceso dibattito sulla questione della difesa del territorio da ulteriori colate di cemento. La discussione continuerà nel merito, a partire dal nuovo DDL presentato dal Governo il 15 giugno scorso su proposta dei Ministri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Nunzia De Girolamo, per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Andrea Orlando, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, che si aggiunge alle proposte di legge Realacci, Movimento 5 Stelle e a quelle di altri partiti, associazioni e gruppi.

 

Le realtà sociali unite nella “Conferenza Urbanistica Partecipata” seguiranno gli sviluppi delle proposte di legge e continueranno il loro percorso per allargare la consapevolezza delle grandi questioni che riguardano la tutela del territorio, facendole uscire dalle stanze degli addetti ai lavori per coinvolgere tutti i cittadini. Solo così si possono creare le condizioni culturali per fare attecchire le radici di leggi che possono avere ricadute positive sul dramma che stanno vivendo le città ed i territori non urbanizzati.

 

La Conferenza Urbanistica Partecipata intende inoltre indirizzare l’azione della nuova Giunta comunale verso una moratoria e una revisione del Piano Regolatore Generale di Roma, per una Variante Generale di Salvaguardia promossa e discussa insieme alle comunità locali, quadrante per quadrante, della nostra bella, ma martoriata metropoli romana.

 

C.A.L.M.A., Carteinregola, Cittadinanzattiva Lazio Onlus, Consiglio Metropolitano di Roma, Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio, No a Roma Capitale del cemento

 

L’anello mancante

Anello-mancante-ISG-12di Alberto Asor Rosa, Il manifesto, 18 giugno 2013.

E ora? Ora mi pare che le cose siano andate esattamente nel senso enunciato e previsto dal “piano”. Non parlo neanche, almeno non prevalentemente, del “governo delle larghe intese”. Mi limito da questo punto di vista a esprimere l’opinione, di carattere generalissimo, secondo cui non esiste, non è mai esistito, un governo al di sopra delle parti: un governo è sempre di parte; è per qualcuno, contro qualcuno. Da questo punto di vista è di solare evidenza che questo governo si muove prevalentemente nel solco di parole d’ordine enunciate in passato, e oggi ripetute e rivendicate con strafottenza sempre maggiore, dal cosiddetto centro-destra (italiano, s’intende): e questo sia dal punto di vista politico-istituzionale sia dal punto di vista delle misure economiche.

All’interno di questo quadro è lampante, per fare un solo esempio, la preminenza della deriva presidenzialista (o semipresidenzialista: la differenza non è chiara nemmeno a tutti quelli che disinvoltamente ne cianciano; in un libro di qualche anno fa, La quinta repubblica da De Gaulle a Sarkozy, 2009, Umberto Coldagelli ha messo in luce con rara efficacia gli innumerevoli equivoci su cui si fonda l’idoleggiamento del presunto modello francese). L’abbandono dell’ipotesi, enunciata nel programma elettorale del centro-sinistra e del Pd, dell’eventuale miglioramento e perfezionamento del sistema politico-istituzionale in favore, invece, di una sua radicale riforma (o stravolgimento), fa del “governo delle larghe intese”, se va avanti così, un punto di non ritorno nella dinamica politica italiana. O non doveva anch’esso, come il “governo tecnico”, essere un governo di breve durata, inteso ad affrontare i nodi più critici, soprattutto economici, dell’emergenza? Si delinea invece come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 a oggi.

La natura cogente del “governo delle larghe intese”, – quella predisposizione a cambiare in profondità il sistema della rappresentanza in Italia, predisposizione che, ad esempio, non era né poteva essere di “governo tecnico”, – risulta dal fatto che, sempre più chiaramente, si va formando al centro, fra governo e partiti, una nuova e inedita articolazione, più visibile e percepibile da un punto di vista ideologico e culturale che strettamente politico, la quale vede uomini del centro-sinistra e uomini del centro-destra solidamente affiancati allo scopo di procedere a lungo (ripeto: a lungo) verso questa medesima, comune direzione. Il “governo delle larghe intese” potrebbe diventare, a quel che si sente e si vede, l’incubatore, se non di una nuova formazione politica, di una comune cultura politica, destinata a determinare anche in futuro l’orientamento di ambedue le formazioni.

Potrebbe cioè orientare il centro-destra a liberarsi progressivamente dell’ossessiva subalternità al Padre Padrone? Può darsi (e questo potrebbe essere uno degli obiettivi reconditi del “piano”). Quel che è certo è che lo sviluppo di tale tendenza renderebbe ancor più irreversibile lo svuotamento politico e sociale del centro-sinistra e del Pd, cui il “grande piano”, messo in opera pazientemente e intelligentemente nella fase di costruzione del “governo delle larghe intese”, aveva dato l’avvio.

Ma non è questo il punto, per lo meno non quello decisivo. Il punto decisivo è se e come il Pd riuscirà a uscire dalla morsa in cui è stato gettato e si è gettato. Dico subito che non condivido le danze macabre che qualcuno, molto sollecitamente, ha iniziato, e con grande entusiasmo, intorno al suo presunto cadavere. Se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio. Dunque, finché non è perduto, bisognerà sforzarsi di evitare che lo diventi.

Certo, detto questo, il quadro è desolante. Il risultato soddisfacente delle elezioni amministrative dimostra soltanto che, risalendo talvolta a fatica lo tsunami dell’astensionismo, il Pd gode ancora, nonostante tutto, e il centro-sinistra con lui, di un elettorato di appartenenza, che ne cede anch’esso qualcosa all’astensionismo, ma meno, talvolta molto meno, di altri. Ma il dato impressionante è l’incremento esponenziale dell’astensionismo, frutto di una crisi di sfiducia nei confronti di tutto il sistema, a cui sarebbe vano pensare che il risultato elettorale amministrativo del centro-sinistra come il frutto della politica delle “larghe intese”. Questo risultato va letto invece, esattamente come una smentita alla linea della “normalizzazione”, che è stata dominante nei mesi passati. Da qui, se mai, deve ripartire una nuova riflessione su natura e destino del Pd e conseguentemente del centro-sinistra (inteso come motore dell’intero processo).

Il documento Barca enuncia una serie di procedure utilissime a invertire la tendenza: va seguito con attenzione questo tentativo. Da parte mia enuncerei una serie di punti e di modi, – non temo smentite, nel senso più assoluto del termine, – nessuno parla dentro questo partito; e pochi fuori.

1) Do per scontato che debba esserci un “partito”, organizzato democraticamente, e non grillinamente (o berlusconiamente) liquido. Ma: chi rappresenta questo partito? Quali interessi difende e tutela (al di là o al di sopra di quell'”interesse nazionale”, che è da sempre il simulacro appariscente di un qualche “interesse particolare”)?

Come si fa a non tentare neanche di rispondere a questa domanda? Ciò che non avviene più da anni, forse da decenni (Una ricostruzione storica dovrebbe risalire a l’89, o giù di lì). E in tempo di crisi, oggi, l’assenza di questa risposta tende a diventare drammatica. L’antipolitica non è il frutto di una generica condanna di comportamenti politici genericamente intesi: è il frutto della totale assenza di corrispondenza fra interessi e rappresentanza. Se questa corrispondenza esistesse e fosse praticata con assoluta chiarezza, deputati e senatori potrebbero persino aumentarsi gli stipendi, e nessuno troverebbe qualcosa da ridire.

2) È sempre più intollerabile l’assoluta autoreferenzialità di questo partito com’è e delle sue interne discussioni. Mai uno sguardo che si volga all’esterno delle stanze segrete del potere. L’Italia è piena di movimenti, comitati, centri di azione e di elaborazione, critica e proposta. Nulla che assomigli neanche da lontano agli scambi estremamente vitali di una volta: si pensi ad esempio, a Enrico Berlinguer e alle sue iniziative di consultazione di massa fuori dal partito. Altri tempi? Sì, ma dov’è allora oggi la diversità? Forse nel fatto che il partito si è supinamente adeguato alla civiltà dello spettacolo e della finzione? Le battaglie per il carattere pubblico dell’acqua, per i beni comuni, per nuove forme di partecipazione popolare, si arrestano, ignorate, alle soglie della macchina partitica. L’osmosi si è disastrosamente interrotta. Altro che “Italia bene comune”! Parola d’ordine vuota, se non riempita da diecimila contenuti.

3) E il lavoro? Possibile che nessuno noti, e faccia notare, che fra le tante anomalie italiane c’è anche l’assenza di un Partito socialista (salvo alcuni residui marginali)? Ora lasciamo stare, per amore di brevità e di chiarezza, la vecchia diatriba sulle etichette. Ma com’è possibile che la rinuncia all’etichetta abbia portato a questa colossale rinuncia alla rappresentanza dei ceti sociali legati alla produzione e del lavoro, e più necessariamente soggetti alla loro crisi, la quale in questo momento è il fattore discriminante per il destino del paese Italia? Se il Pd non assumerà di nuovo con chiarezza tale rappresentanza, non compirà il passaggio che può garantire non la stentata sopravvivenza ma una ripresa in grande nel sociale, e dunque (dico io) nel paese.

4) Esiste o no una “questione morale” in questo paese? Una “questione morale”, che riguarda singoli soggetti, gruppi organizzati e pezzi interi del sistema, e invade sempre più spesso le istituzioni, la politica e persino il senso comune? C’è un silenzio impressionante su tutta questa sfera dell’agire pubblico, che fa da sgabello alle operazioni più spregiudicate. Dalla risposta a questa domanda dipende una parte importante, anzi decisiva, dell’essere organizzazione politica di un certo tipo e non di un altro. Può un partito come il Pd non disseppellire la “questione morale” e farne la propria bandiera?

5) Il Pd vive meglio, è meglio, in periferia che al centro. Non penso agli scout toscani: penso alle scelte amministrative, spesso fuori del controllo degli apparati, di città come Milano, Genova, Cagliari, oggi Roma, e con Roma la Regione Lazio. Metodologie di scelta degli apparati e dei candidati di tale natura andrebbero adottate anche a livello nazionale. Primarie generalizzate? Non solo, e non tanto: ma la verifica delle scelte, ogni qualvolta se ne fa una importante, in un quadro di trasformazione permanente. Un partito perpetuamente trasformativo, non fossilizzato.

6) Non c’è nuova politica in Italia se non c’è una nuova Europa in Europa: tutto quello che ho detto finora va proiettato su questo sfondo. Finora l’Europa è un insieme di vincoli elaborati e gestiti dall’oligarchia di Bruxelles. O si esce da questo ambito, recuperando capacità e possibilità di sviluppo diverse rispetto al presente, oppure dobbiamo rassegnarci a un futuro e a un ruolo di quarto o quinto grado. Qui si vede bene come l’interesse particolare (il lavoro, la partecipazione, la cittadinanza) è condizione, non remora o impedimento, dell’interesse generale (il bene del paese).

Ora, la domanda con cui concludere il discorso è: serve ancora in epoca post-moderna riflettere sulle coordinate generali dell’azione politica oppure no? Se si risponde no, l’azione politica sarà ridotta, come sempre più lo è, a gesto, improvvisazioni, spettacolo, battuta, gioco di potere, gutturale richiamo della foresta e, soprattutto, agli interessi personali e di carriera da difendere: in tal caso non ci interessa più, la lasciamo volentieri agli altri, a tutti coloro cui Mitridate ha insegnato bene la lezione. Se sì, bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare. Infatti, mettere insieme tutte queste cose (e altre, naturalmente) – l’organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro, l’osmosi fuori-dentro, il rapporto centro-periferia, un nuovo europeismo, – significa costruire un “progetto”. Ce l’ha un “progetto” il Pd? No, non ce l’ha; o se ce l’ha, nessuno finora se n’è accorto.

Bene, il “progetto” è l’anello mancante, che serve a tenere insieme critica e moralità, azione politica e partecipazione, consenso e dissenso, proposte concrete e futuro lontano possibile. Daremo fiducia a quel gruppo dirigente che ci metterà sotto gli occhi l’anello mancante. Se nessuno farà vedere l’anello mancante, non daremo fiducia.

 
NB: l’illustrazione de l’anello mancante, piuttosto curiosa, è tratta da: http://www.trattidimare.it/filippo-sassoli/. Si ringrazia l’autore per l’involontaria collaborazione.

Rassegna Stampa

1 – 9 giugno 2013

La Regione ci ripensa: meno inceneritori nel Piano Regionale dei Rifiuti?

Il Presidente della Regione: ultimatum ai consiglieri per l’approvazione della Variante del Parco della Piana

Carrara: Il Consiglio Comunale boccia la proposta ambientalista di nuovo regolamento degli agri marmiferi

Paesaggio e ambiente: Regione e cittadini tra scontro e incontro

SEGNALAZIONI

L’Ilva toscana si chiama Solvay

Il più noto produttore di bicarbonato al mondo è indagato per scarichi abusivi: Solvay, a cui non sono mancate le certificazioni per l’impegno ambientale, ha disperso tonnellate di chimica e mercurio in mare e sulle spiagge. La domanda che rimbalza da Taranto a Livorno, passando per molti altre città, è: come possono i cittadini dare senso agli articoli della Costituzione che parlano esplicitamente di «utilità sociale» della proprietà privata e di possibile esproprio quali strumenti di resistenza al dominio del profitto?

di Alberto Zoratti, su comune-info.net.

Sembra di essere tornati nell’Ottocento. O forse no, non è questione di epoche, ma di chilometri. Sono quelli che separano quei luoghi che cercano per quanto possibile di tutelare ambiente e persone dall’invadenza del profitto e quei Paesi, condannati dallo sviluppo a rimanere la sentina della storia, che per attirare investimenti e produzioni venderebbero anche l’anima al diavolo, trasformandola in zona franca dove la tutela ambientale e sociale diventano variabili dipendenti dalla fame di profitto di aziende. E le sentine, come i capitali, non sono fisse ma molto mobili e dipendono dalle condizioni storiche in cui si trova un Paese e se di zone franche si parla per il Pireo, il nostro Paese, certamente più solido della Grecia, può avere altre armi per rimanere “competitivo” sui mercati degli investimenti diretti esteri.

Ad esempio attraverso politiche accomodanti o poco assertive verso chi si distrae sugli obblighi sociali od ambientali. “Sbagliato”, “sproporzionato” sono gli aggettivi che il presidente di Federacciai Antonio Gozzi ha riservato sulle agenzie al commissariamento dell’Ilva. Perché creerebbe “un pericolosissimo precedente” per “tutta la media e grande impresa nazionale”. Dopotutto la questione andrebbe affrontata “con il necessario e doveroso equilibrio istituzionale e senza una così palese violazione dei diritti della libera impresa”. Già, la libera impresa e la proprietà privata. Ampiamente citate persino in Costituzione, soprattutto all’articolo 41, dove si sottolinea come la libera impresa non possa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. O l’articolo 43 che ricorda come per preservare l’utilità generale è possibile l’esproprio di determinate imprese o categorie di imprese “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

Un precedente pericoloso

Che l’attività dell’Ilva abbia recato danno alla sicurezza pare sia dimostrato da tonnellate di documenti e da un’Autorizzazione Integrata Ambientale spinta dall’ex ministro Clini che seguita non proprio pedestremente dai vertici aziendali. Parlare però di esproprio è, purtroppo, fuori luogo. Perché di commissariamento si tratta, per giunta affidato all’ex Commissario Bondi (persona di fiducia degli stessi Riva) con la chiara clausola che dopo 36 mesi di risanamento (a spese di chi? Solo dell’azienda?) la proprietà rimarrà saldamente nelle mani della famiglia Riva.

E allora, di cosa parliamo? Di un pericoloso precedente, certamente sì. Ma per le ragioni opposte a quelle sostenute da Federacciai. Una comunità che non riesce a mettere limiti all’invadenza dell’impresa e della proprietà privata si mette su un crinale molto pericoloso che parla di deroghe su deroghe e di una qualità della vita, del lavoro e dell’ambiente costantemente a rischio sotto la spada di Damocle di un capitale salterino. Basterebbe dare un’occhiata al notiziario del nostro ministero degli esteri, datato ottobre 2012, per capire cosa significa per il sistema Italia attirare investimenti produttivi: “Il gruppo (formato tra gli altri dalla Cassa depositi e prestiti e da Confindustria) dovrà contribuire a individuare gli ostacoli alla realizzazione di investimenti esteri in Italia e le azioni nonché le priorità di intervento per la rimozione degli stessi”, concentrandosi sui “problemi di natura amministrativa o di controllo giudiziario che ostacolano la realizzazione di investimenti esteri in Italia”. Si pensava che il maggiore ostacolo oltre alla burocrazia fosse il controllo mafioso, non certo quello giudiziario.

Gli imprenditori chiedono che l’azione sull’Ilva si riferisca solo allo stabilimento tarantino, non in modo generale a tutto il mondo dell’impresa. Anche se il testo recita che il commissariamento (e purtroppo non parliamo di esproprio) è possibile per un’impresa “la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza dell’autorizzazione integrata ambientale”. Leggendo le reazioni del mondo imprenditoriale viene da chiedersi se queste preoccupazioni siano dettate dall’ipotesi che ci siano altre Ilva in giro per l’Italia che abbiano comportato o comportino “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute”.

Livorno

Forse basterebbe spostare il cursore di Google Mappe passando dalla Puglia alla Toscana e specificamente a Rosignano, sede della Solvay, il più famoso produttore di bicarbonato (e di spiagge bianche) al mondo. La Procura di Livorno ha iscritto nell’albo degli indagati la direttrice uscente Michele Huart e quattro ingegneri ambientali per scarichi abusivi. L’azienda avrebbe collegato abusivamente alla fognatura gli scarichi di fanghi industriali in quattro punti diversi, per aggirare le rilevazioni dell’Arpat sugli scarichi a valle che, di conseguenza, sarebbero rientrati nei limiti di legge perché annacquati per diluirne la concentrazione. E se si pensa che un’interrogazione parlamentare del settembre 2010 faceva riferimento ad oltre 400 tonnellate di mercurio presenti in mare, dimostra quanto sia alta la sensibilità ambientale di parte del Gotha dell’imprenditoria moderna.

Eppure, a livello comunicativo, ce la mettono tutta: “Le società del Gruppo Solvay presenti nello stabilimento di Rosignano e nei Cantieri di S. Carlo e Ponteginori, in coerenza con i Valori del Gruppo e con l’adesione al Programma Responsible Care, intendono sviluppare il proprio impegno per il miglioramento continuo nella tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori per la prevenzione degli incidenti, degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, per la protezione ambientale e per la prevenzione dell’inquinamento”. Concetti e filosofie che ricordano molto quelle dell’Ilva di Taranto: “Lo stabilimento, consapevole dell’impatto ambientale delle proprie attività, si è dotato di un sistema di gestione ambientale in conformità ai requisiti previsti dalla norma UNI EN ISO 14001, norma per la quale ha ottenuto, nel 2004, la certificazione da parte di un accreditato ente esterno di certificazione”.

Con buona pace di parole come “ambiente”, “certificazione”, “gestione ambientale” e “sicurezza”. Parole vuote ma molto utili per confondere le carte. Come quella parola, “commissariamento”, che sostituisce in modo chiaro e inequivocabile l’unico concetto possibile: “l’esproprio”.