di autosostenibilità locale.
Di Alberto Magnaghi.
La Società dei territorialisti e delle territorialiste (www.societadeiterritorialisti.it) ha avviato la costruzione di un Osservatorio con obiettivi molto vicini a quelli proposti dalla rubrica de Il Manifesto: denotare un’altra geografia che, procedendo da piccole esperienze locali, ma integrate e operanti nella trasformazione dei luoghi, consenta di costruire un’immagine di un territorio in auto trasformazione nel quale società locali, associazioni, forme articolate di cittadinanza attiva, in molti casi insieme ai i loro municipi, attivano percorsi concreti di “ritorno al territorio” e di “conversione ecologica dell’economia locale”, attraverso la riattivazione di saperi contestuali per la valorizzazione dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici, sperimentando forme di produzione sociale fondate sul riconoscimento del territorio come bene comune.
Si tratta dunque di intercettare e dare visibilità alle pratiche e ai saperi diffusi “invisibili” (o visibili a livello molto circoscritto), per costruire una nuova geografia sociopolitica che denoti queste esperienze, nella ipotesi che già oggi costituiscano un tessuto sociale rilevante, ma che incidano molto poco sugli indirizzi politico-istituzionali.
E’ strategicamente alternativo questo mondo in costruzione, poco visibile e poco raccontato dai media, rispetto agli orizzonti della politica che ci parla ogni giorno ossessivamente di crescita e di bollettini finanziari come antidoto alla crisi, come se nulla fosse successo? O è semplicemente il frutto dell’arte di arrangiarsi nella crisi, come testimoniato dalla vertiginosa crescita degli orti urbani e periurbani autogestiti nelle grandi città? O tutte due le cose? L’interpretazione è aperta, ma una cosa è certa: questi mondi locali ci parlano d’altro, di altri rapporti fra le persone, con la terra, con l’ambiente, con il patrimonio territoriale e culturale, con il paesaggio, con la produzione; ci parlano di nuovi beni da produrre, del modo di produrli, di nuove forme della comunità e della “coscienza del suo essere “, per dirla con Carlo Cattaneo. I racconti delle prime schede dell’Osservatorio (11 si trovano sul sito, ma molte altre in elaborazione) ci forniscono una prima “finestra” su questo mondo in costruzione. Le schede del nostro Osservatorio sono lunghe e documentate, il che non esclude brevi contributi che ne illustrino i tratti essenziali nella rubrica del Manifesto.
Ma qual’è la società, il progetto socioterritoriale che emerge in filigrana da queste prime ricognizioni? Innanzitutto, lo ripeto, la dimensione: la significatività delle esperienze è ancorata a borghi, piccole valli, piccole città, quartieri: una dimensione che consente la ricostruzione delle relazioni di prossimità, di forme comunitarie di neoradicamento territoriale, di scambio fiduciario, di rapporti economici non mercantili, di riconoscimento denso e minuto dei valori patrimoniali del luogo: acque, sentieri, sorgenti, mestieri legati al territorio, lingue, culture, spazi pubblici urbani. Poi la localizzazione: non è azzardato affermare che la densità di esperienze innovative cresce con il procedere verso le aree interne, i territori di alta collina e di montagna dell’esodo e della marginalità, dove si sperimentano processi di ripopolamento di aree periferiche e marginali. E’ come se le esperienze sociali puntiformi anticipassero un grande progetto di riequilibrio territoriale e culturale, come viene delineato nell’affresco I borghi dell’utopia di Piero Bevilacqua in questa rubrica) dopo il grande esodo industriale e terziario verso le pianure e le aree metropolitane. E ancora, il superamento della settorialità: i casi raccontati non riguardano il singolo recupero di un edificio, di un borgo, una piazza, un bosco, la raccolta differenziata dei rifiuti, un sentiero o una pista ciclabile, un ecomuseo, una filiera agroalimentare, un parco e cosi via: essi riguardano, sullo stesso territorio, l’integrazione di molte di queste azioni; che sovente promanano da un conflitto o un obiettivo specifico, per poi investire l’intero rapporto fra comunità insediata e territorio, in un percorso di crescita della coscienza e dei saperi della comunità locale.
La patrimonializzazione dei beni comuni territoriali avviene, nei casi proposti dall’Osservatorio, attraverso una reinterpretazione culturale e collettiva delle risorse attraverso forme di retro-innovazione: cosi, per fare qualche esempio, nel comune di Castel del Giudice (alto Molise), dove la rinascita del paese si è incardinata su forme di coinvolgimento collettivo degli abitanti (fra cui l’azionariato popolare) in azioni progettuali quali una residenza per anziani, il rilancio dell’agricoltura con filiere corte (in particolare meleti), il recupero del centro storico con il progetto di un albergo diffuso. Nell’esempio della Val d’Ultimo (Merano), la ricostruzione di una complessa economia socio territoriale, per iniziativa dei contadini dei masi della valle, ha integrato fra loro risorse e antichi mestieri, separatamente poveri o di nicchia (legna, pecore, erbe officinali, lavorazione e tintura della lana, cosmesi e cure con prodotti naturali, produzioni artistiche, in legno, lana, pelle), reinserendoli in un processo di riappropriazione culturale che ha avuto come epicentro la rivalorizzazione dei prodotti locali attraverso percorsi formativi e la qualificazione dell’offerta di prodotti in rapporto alla trasformazione della domanda urbana di salute e qualità della vita (Vienna, Graz, ecc). Nel caso dell’Ecomuseo del Casentino (Toscana), la ricostruzione di cittadinanza attiva è avvenuta attraverso lo strumento delle mappe di comunità, ovvero una forma partecipativa di autoriconoscimento da parte degli abitanti dei valori patrimoniali con cui riorganizzare l’economia montana in forme collettive (associazioni culturali e produttive, consorzi di produttori, ecc), integrando diversi settori di attività (il recupero di manufatti storici, le produzioni della farina di castagna e della patata rossa, la valorizzazione sociale del paesaggio, dell’ospitalità, la sperimentazione di energie alternative e cosi via). Nel recupero della borgata Paraloup (Val di Stura), a segnare la particolarità del messaggio è il rapporto stretto fra memoria densa dei luoghi legati alla Resistenza (“Rinasce il borgo rifugio dei partigiani dopo la strage di Boves”) e il borgo restaurato come centro di irraggiamento di nuove culture e economie della montagna atte a valorizzare l’identità storico-culturale del territorio (Museo multimediale della Resistenza e della storia locale, attività culturali e turistico-ricettive, l’insediamento di attività agro-silvo-pastorali ecc.). Ma, scendendo in pianura, in provincia di Milano, il caso di Mezzago testimonia la capacità di molte piccole città di sganciarsi da una realtà “provinciale” ovvero di dipendenza metropolitana e riaffermare, attraverso lo sviluppo di reti civiche complesse (associazioni di volontari, parrocchie, cooperative agricole, processi partecipativi, giornali, manifestazioni culturali, ecc) ) e di produzioni tipiche (in questo caso l’asparago), la permanenza di modelli socioculturali e identitari autonomi che reinterpretano in forme innovative, sociali e relazionali l’autogoverno della comunità.
Ritengo importante che questa contro-geografia di esperienze che andiamo denotando con l’Osservatorio si arricchisca, fino a consentire che la discussione politico culturale sulle alternative alla crisi della globalizzazione economico finanziaria si appoggi non solo sul conflitto, ma sulla sua evoluzione in pratiche diffuse di costruzione di società locali allo stato nascente. Costruzione che passa attraverso nuove relazioni comunitarie fra abitanti, terra e territorio, che allontanano e marginalizzano i poteri globali, ricostruendo dal basso le basi socioeconomiche, materiali, della riproduzione della vita biologica, e immateriali, della riproduzione dell’ identità culturale.