Un intervento di Anna Marson, assessore regionale, e un’intervista a Salvatore Settis.
La Repubblica, Firenze, 17 e 18 maggio 2013.
UNA delle obiezioni più frequenti alle azioni di regolazione delle trasformazioni del territorio e del paesaggio è un paventato rischio. Quello di ingessare il tutto, impedendo la continua trasformazione che rappresenta, è quasi superfluo ricordarlo, l’essenza stessa della vita. Il piano paesaggistico che la Regione Toscana sta redigendo viene fatto anch’esso in modo ripetitivo oggetto di tale obiezione, come se fosse finalizzato a bloccare lo sviluppo e non a rispettare la missione di tutela prescritta dalla Costituzione e dal Codice nazionale dei beni culturali. In realtà il Piano paesaggistico regionale ha l’obiettivo, qualcuno potrebbe dire la velleita’, di concorrere all’attuazione della Costituzione indirizzando le trasformazioni indotte da esigenze del cosiddetto sviluppo in modo che esse siano conformi al Codice e non distruggano il patrimonio culturale presente ma ne producano invece, ove possibile, sensibili progressi. Un compito impegnativo e non semplice, al quale le Regioni concorrono, in co-pianificazione con il Mibac, con risorse esclusivamente proprie. La nostra Regione ha potuto avvalersi, grazie ad una convenzione di ricerca con i cinque principali atenei toscani, dell’impegno volontario di numerosi docenti universitari di discipline che vanno dall’archeologia alla geologia, dall’architettura all’ecologia, dalla storia dell’arte alla geografia, e del lavoro di decine di assegnisti che vi hanno investito energie e capacità di ricerca. Per valutare il lavoro fatto, e proporne eventuali miglioramenti, è dunque fondamentale entrare nel merito delle sue diverse articolazioni: una che tratta i Beni paesaggistici formalmente riconosciuti dallo Stato, a loro volta articolati in Beni paesaggistici decretati con specifici atti e Beni paesaggistici definiti ex lege, l’altra invece riferita all’intero territorio regionale. Cosa che stiamo d’altronde facendo nei diversi incontri dedicati sia agli enti locali che ai cittadini e alle loro associazioni. La parte del piano riferita ai Beni paesaggistici trova riferimenti assai vincolanti negli atti statali, e va condivisa con tutte le Sovrintendenze competenti. A questo riguardo la valenza del piano, una volta che esso sia adottato, sarà quella di presentare un chiaro quadro di riferimento delle condizioni di trasformazione per le aree che sono interessate da vincoli paesaggistici apposti dallo Stato, non solo limitando il contenzioso ma facendo sì che le condizioni siano note agli stessi committenti e progettisti che si apprestano a presentare domanda di autorizzazione. La parte del piano riferita invece al territorio regionale nel suo complesso si propone innanzitutto, in coerenza non solo con il Codice ma anche con la Convenzione europea del paesaggio, di condividere una maggiore conoscenza della straordinaria ricchezza e varietà dei paesaggi regionali, affinché le diverse pianificazioni ne considerino in modo più riflessivo la sintassi, per comprendere e definire le regole della sua modifica. Un obiettivo innanzitutto culturale, che si appoggia a nuove cartografie del territorio regionale e nuovi approfondimenti interpretativi, per raggiungere il quale speriamo di poter contare anche sulla collaborazione della stampa toscana.
Settis e le regole sul paesaggio: “Va rispettato il principio di legalità”
Intervista di Maria Cristina Carratu’
PROFESSOR Settis, davvero secondo lei non si può riflettere con qualche distinguo sulla pur indispensabile preoccupazione di salvaguardare il nostro patrimonio, perché questo non significhi museificarlo?
«Si tratta di una tesi molto diffusa di stampo neoliberista che io non condivido minimamente. E’ la tesi di chi sostiene che le generazioni future non hanno alcun diritto perché, non esistendo, non possono agire in tribunale contro di noi. Ne deriva la convinzione che l’unico padrone dell’oggi è chi vive oggi, e che non ha alcun dovere verso chi verrà dopo. Io penso, al contrario, che l’oggi si può concepire solo a partire dal domani, dai diritti di chi ci seguirà, così come ha fatto chi ci ha preceduto, e grazie a cui godiamo oggi di un bene unico. L’idea, tutta berlusconiana, per cui il mondo andava bene quando non c’erano regole, va sfatata. E’ la ricetta che ha portato al disastro che abbiamo sotto gli occhi».
Non c’è, secondo lei, il rischio che la tutela possa sconfinare in una sorta di «imbalsamazione » di questo patrimonio, a scapito della sua vitalità?
«Parlare di tutela del paesaggio non significa affatto ibernarlo, sarebbe una stupidaggine altrettanto grave di quella di chi pretendesse di farne quello che vuole. E’ ovvio che niente in natura resta immobile, e anche il paesaggio può e deve cambiare, purché però ciò avvenga secondo regole precise. E’ evidente che il modo di tutelare il paesaggio in Bielorussia non è lo stesso adottato in Italia o in Toscana. E’ questo l’altro principio fondamentale da non dimenticare, insieme alla preoccupazione per ciò che dobbiamo lasciare ai posteri: la legalità. Questo paese ne ha un bisogno disperato, pur essendo l’unico al mondo ad aver inserito nella sua Costituzione un articolo esplicitamente dedicato alla tutela dei beni culturali. Esistono anche un Codice dei beni culturali e paesaggistici che è legge dello Stato e una infinità di altre norme, ma che spesso e volentieri non vengono rispettate, e questo è il vero problema italiano. Sarebbe davvero assurdo pensare che tutte queste regole in fondo non servano a niente perché tanto non sappiamo che cosa potranno volere i nostri nipoti fra cento o duecento anni. Cioè perché non vogliamo ‘ipotecare’ il loro futuro».
Resta il fatto che ciò che abbiamo ricevuto in eredità dal passato non sempre è stato il frutto di regole rigide, ma ha obbedito anche a sviluppi casuali.
«È un errore credere che lo sviluppo del passato sia avvenuto senza regole, le città medievali avevano tutte delle figure che dovevano dare pareri vincolanti su qualsiasi proposta di nuova costruzione o sopraelevazione o di sviluppo urbano, come gli Uffiziali dell’ornato a Siena, o i Magistri viarum a Roma. Insomma, se oggi dell’affermazione dei diritti delle future generazioni, negati da un nefasto neoliberismo, sono pieni per fortuna tutti i documenti dell’Onu, in passato è esistita una preoccupazione identica che era quella per il bonum commune, cioè per l’interesse della collettività, considerato superiore a quello del singolo. E la collettività è ciò che la Costituzione chiama popolo, costituto non solo dai viventi, ma anche da chi non c’è ancora».
La vera sfida, dunque, è che le regole consentano dei margini controllati di cambiamento.
«Sì, e questo è del tutto possibile, come dimostrano, per esempio, il Mart di Rovereto, progettato da Mario Botta in stile contemporaneo ma perfettamente inserito in una strada settecentesca, o le cantine Petra in Maremma, nascoste benissimo nel paesaggio collinare. In Italia manca una cultura diffusa della legalità, e ci sono continui conflitti di competenze sulle normative fra i vari livelli istituzionali. Ma migliorare le regole non dovrà mai voler dire abolirle, bensì renderle capaci sia di non ibernare, che di non offendere, la nostra storia».